Spaccatura
"La felicità sta nelle piccole cose". Ma quando quel poco di cui ti sei sempre accontentato ti viene strappato via, non ti chiedi se potevi desiderare di più?
Kay si svegliò da solo e decisamente più tardi del dovuto, si era addormentato poco prima che il padre uscisse di casa, onestamente se ne pentiva. Aprì gli occhi lentamente abbracciato al cuscino come un koala, non aveva la minima intenzione di lasciare andare il suo tesoro, qualcosa lo teneva ancorato al materasso, era come se le lenzuola fossero diventate di colla.
Sbadigliò, non aveva sonno, non era stanco o affaticato, aveva dormito molto e profondamente, era più simile a una stanchezza mentale a cui il suo cervello di bambino non riusciva a trovare una spiegazione. Si costrinse ad alzarsi dal letto, ma non fece colazione, la sola idea di ingerire qualcosa gli dava il voltastomaco.
Uscito di casa si diresse verso la discarica alla fine della sua piccola città − anche se forse sarebbe stato meglio parlare di quartiere recintato abitato da reclusi. Prima che Dios crescesse andavano spesso in quel posto, giocavano con gli uccelli, gli davano da mangiare, li rincorrevano per farli volare via, e ridevano come matti quando scappavano da loro sbattendo le ali piumate velocemente. Aveva sempre desiderato essere un uccello, loro non avevano regole a cui sottostare, non dovevano preoccuparsi di essere troppo diversi, troppo particolari, perché erano uguali. Erano tutti uguali gli uni agli altri, ed era bellissimo. Amava gli uccelli, perché a differenza sua loro erano liberi, non avevano recinzioni di filo spinato alle porte della città, loro potevano superarlo senza difficoltà il filo spinato, potevano volarci sopra senza preoccupazioni.
Si era portato un sacchetto di pane sbriciolato da potergli dare, era da tempo che non lo faceva, eppure adorava il loro garrito stridente simile a una risata malvagia. Lo divertiva, quel suono non si sposava affatto bene al loro corpo grasso e ridicolo. Voleva passare una giornata tranquilla, era da tempo ormai che ogni giorno o quasi accadeva qualcosa di strano o spaventoso, l'arresto di quella ragazza era stato forse quell'ultima goccia protagonista di quella metafora tanto famosa.
Sospirò, non lo fece volontariamente, ma lo aiutò. Quel sospiro lo fece riprendere per un momento. Scaricò un po' di quella tensione che aveva in petto e riprese a respirare più tranquillamente, era più sereno. Alcuni uccelli si appollaiarono addirittura al suo fianco aspettando un po' di cibo decisamente meno disgustoso della spazzatura a cui erano abituati. Era tutto tranquillo.
Una risata lo fece sobbalzare, conosceva quella voce, quel ragazzo era una spina nel fianco per chiunque. Non sapeva come si chiamasse, neanche gli importava in realtà, l'unica cosa importante in quel momento era allontanarsi da lì e non farsi trovare da quel bastardo. Lasciò le briciole di pane a terra tutte ammucchiate in un punto e scappò via, si nascose come meglio poté dietro una pila di rifiuti.
Quel ragazzino e la sua banda di teppisti aveva sempre dato problemi sia a lui che a Dios, ma anche a qualunque altra persona dotata di un minimo di cuore ed empatia. Era crudele, si divertiva ad esserlo, aveva dieci anni ma la sua cattiveria non conosceva limiti. Un brutto, bruttissimo pensiero attraversò la mente di Kay, era colpa di quelli come lui se loro erano Eretici, era colpa di quelli come lui se suo padre doveva lavorare tutti i giorni, se lui non poteva andare a scuola, se quella ragazza era stata picchiata e poi portata chissaddove. Se le persone come lui, se le persone cattive non fossero mai esistite loro sarebbero stati liberi, se solo tutte le persone come quel piccolo demonio fossero scomparse dal pianeta la loro vita sarebbe stata perfetta. Scosse la testa, spaventato dalla sua stessa mente, come poteva aver pensato qualcosa di simile? Che diavolo gli diceva il cervello? Pensare quelle cose lo rendeva migliore di lui? Affatto! Quindi perché aveva avuto quel malsano desiderio?
«Guarda che scemi» lo sentì gridare ridendo, alcuni gabbiani iniziarono a volare via spaventati mentre lui e la sua banda raccoglievano sassi o rottami da lanciargli contro.
Doveva allontanarsi da lì, se lo avessero scoperto avrebbero rivolto le loro armi di fortuna su di lui invece che continuare a infastidire gli uccelli.
Kay fece un passo indietro allontanandosi dalla pila di rifiuti che aveva scelto come riparo, ma facendo attenzione a non perderli di vista. Non si fidava di loro, non lo aveva mai fatto, soprattutto in quella situazione doveva fare attenzione, era in minoranza, ma soprattutto era debole. Camminò in punta di piedi, non voleva fare rumore, una volta arrivato alle loro spalle fece per voltarsi e correre via senza guardarsi indietro ma il suo piano fu rovinato da uno di quegli stupidi uccelli.
Si ritrovò faccia a faccia con un gabbiano, a pochi millimetri dal suo becco, sobbalzò, preso alla sprovvista, e si mise tempestivamente le mani sulla bocca nella speranza che nessuno avesse sentito quella specie di gridolino che si era lasciato sfuggire.
«Chi c'è là?» chiese melenso in una cantilena che faceva drizzare i peli dal nervoso. Kay si nascose dietro una pila d'immondizia rimanendo in silenzio, magari si sarebbe convinto di aver sentito male e lo avrebbe lasciato in pace, l'importante era non farsi trovare «Dai topolino, non voglio mica farti del male» continuò con quello stesso tono che ti faceva infuriare solo ad ascoltarlo. Kay non poteva vederlo in faccia ma era certo che sul suo volto si fosse già formato quel ghigno fastidioso che lo contraddistingueva.
«Klevi» sussurrò una ragazza della sua banda, aveva forse tredici anni, non di più.
Klevi si avvicinò a lei guardando nella direzione che stava indicando «Ma dai, che bel topolino che c'è qui» si prese gioco di Kay fissandolo a pochi metri di distanza, era così concentrato a non emettere un suono che non si era reso conto che lo avevano trovato. Provò a correre via ma la strada gli fu sbarrata dall'ennesimo scagnozzo della banda di Klevi. Era alto e magro, sembrava un manico di scopa e la sua acconciatura non aiutava minimamente a scoraggiare quell'associazione. Quel ragazzo lo prese per un polso e, per quanto lui tentasse di dimenarsi per poi riprovare a correre via, si ritrovò ben presto al centro del cerchio che avevano creato, circondato da brutte facce che lo fissavano divertite.
«Biryukova, ciao» non era affatto un saluto sentito, lo stava prendendo in giro, Klevi lo fissava dall'alto sicuro di se, le mani sui fianchi, il busto leggermente piegato in avanti, un'espressione che al piccolo Kay non faceva che far incrementare il suo nervoso, c'era una strana aura quando fissava Klevi, al centro del suo petto vi era come una nuvola grigia, vorticosa, ma non di un grigio caldo e piacevole, affatto, era grigio scuro, fredda, malvagia, rispecchiava appieno quel perfido ragazzino.
«Che c'è mi vuoi sfidare?» gridò il ragazzino sputandogli in faccia «Che hai da guardarmi in quel modo?» non sapeva cosa avesse fatto di preciso, ma qualunque cosa fosse, Klevi era decisamente nervoso adesso, la sua maschera da ragazzetto furbo era crollata e aveva rivelato la sua vera faccia.
Kay aprì bocca per un secondo ma non disse una parola, era sicuramente meglio non farlo innervosire ancora «Codardo» parlò a denti stretti assestandogli un calcio sotto il mento e facendolo cadere all'indietro.
Il primo colpo arrivò su un fianco, poi un altro e un altro ancora, senza neanche avere il tempo di rialzarsi si ritrovò a venir colpito in ogni direzione, strinse i denti e si mise le braccia sulla testa per potersi riparare ma non ottenne granché, non sapeva come difendersi, non sapeva cosa fare, continuavano a strattonarlo da una parte all'altra, a colpirlo e ridere di lui, il polverone che si era alzato gli riempiva i polmoni di terra ad ogni respiro «Basta lasciatemi» urlò con tutte le sue forze tirando un calcio alla cieca.
«Mi hai fatto male» sentì la voce di una bambina che si metteva a piangere disperata, aveva forse la sua età. Indietreggiò tenendosi le mani sulla pancia, tutto si fermò, silenzio assoluto se non per le urla della piccola poco distante. Non voleva colpire quello scricciolo, si sentiva in colpa ad averla presa dritta nello stomaco.
«Dulina?» il capo della banda si avvicinò a lei, non sembrava voler smettere di piangere, iniziò a lisciarle i capelli e darle baci sulla fronte, provò ad asciugarle le lacrime a consolarla con parole dolci. Osservavano tutti Klevi a bocca aperta, sembrava un'altra persona.
«Come ti sei permesso? Nessuno può picchiare la mia sorellina» si alzò infuriato come una belva avvicinandosi minaccioso a Kay. Del fumo iniziò ad espandersi attorno alla sua mano che presto si ricoprì di crepe rosso fuoco, l'aria attorno al braccio del ragazzo iniziò a ondeggiare. Solo guardandola si capiva quanto fosse calda. Piccole fiammelle prendevano vita e morivano sul palmo della sua mano che ormai sembrava fatta di roccia incandescente, Kay deglutì rimasto solo, si allontanarono tutti con il fiato sospeso, mentre lui era lì a terra terrorizzato.
«Vedi di ricordartelo Biryukova, che tu sia un Santo o no non importa, la mia famiglia non si tocca, mia sorella non si tocca» sottolineò la parola "sorella" in modo decisamente minaccioso, come per dire "falle del male un'altra volta e sei morto" «Che questo ti serva da lezione» lo afferrò con la mano sinistra che era rimasta umana per poi tirarlo su di peso e avvicinargli la mano destra al volto come per fargli una carezza. Klevi sembrava divertito, in un modo fin troppo malato, ma divertito, Kay al contrario tremava, aveva paura di quanto dolore avrebbe provato nel momento in cui ci fosse stato il contatto, solo averla vicino gli bruciava la pelle, faceva già male così, non voleva che andasse oltre. Klevi dal canto suo prendeva tempo per gustarsi al meglio quel momento, finalmente Kay Biryukova aveva davvero paura, quel bambino gli aveva sempre dato sui nervi. Perché lui, che in confronto alla famiglia di quello sfigato aveva tutto ciò di cui aveva bisogno, si sentiva come se gli mancasse qualcosa? Era sempre stato geloso di quel ragazzino, sorrideva sempre, prendeva tutto con leggerezza, come se il mondo intero dovesse essere a sua completa disposizione, come se non si rendesse conto che invece il mondo intero era pronto a farlo a pezzi in ogni momento. Come poteva essere così ingenuo? Finalmente, poteva annientare l'innocenza di quel ragazzino che detestava tanto.
«Klevi forse dovresti...» provò a intervenire il ragazzo che ricordava una scopa.
«Zitto» gridò interrompendolo «Se lo merita» aggiunse, pronto a toccarlo.
Kay chiuse gli occhi terrorizzato, la mano che lo teneva lo lasciò di colpo e quella incandescente si allontanò all'istante, sentì un urlo strozzato e quando aprì gli occhi Klevi fluttuava a mezz'aria col fiato spezzato e le mani che arrancavano davanti a lui nel tentativo di afferrare l'aria. Il suo viso era diventato rosso, un rosso così scuro da sembrare viola e tentava di liberarsi la gola con tutte le sue forze come se qualcuno lo avesse preso per il collo. I suoi occhi erano arrossati e gonfi, i capillari esplosi avevano colorato la sclera di rosso vivo, sembravano sul punto di schizzare via. Erano tutti sconvolti, persino Dulina aveva smesso di piangere e osservava il fratello a bocca aperta, Kay si alzò approfittando del momento e corse, corse senza guardare indietro.
Il labbro rotto riempiva la sua bocca di un sapore metallico da voltastomaco, le gambe bruciavano come fuoco, il corpo intero pulsava come un grande livido. L'aria nei polmoni era come le fiamme di un falò, del sangue gli colava dalla testa annebbiandogli la vista e colorando il mondo attorno a lui di rosso, ma non si voltò, non si fermò. Chiuse la porta di casa sbattendola con forza, barricò porte e finestre, si avvolse nella coperta strappata via dal letto e si nascose nello sgabuzzino contenente le poche provviste che lui e suo padre possedevano. Gli occhi sbarrati, il cuore che batteva in gola come se stesse per rigurgitarlo da un momento all'altro, seduto a terra con le gambe incrociate iniziò a dondolare avanti e indietro su se stesso «Che cosa è successo? Che cosa è successo? Che cosa è successo?» continuò a ripetere per ore ed ore in un sussurro appena udibile.
La sera arrivò prima del previsto, le sirene iniziarono a rimbombare nelle orecchie del bambino facendolo sobbalzare, non si era reso conto che fosse passato tanto tempo, neanche aveva pranzato eppure non aveva fame, quel che aveva vissuto era ancora troppo vivido nella sua mente per pensare a qualcosa di futile come il cibo. Era stato lui? O forse qualcun altro? Se era così chi? Perché? E come? E se invece fosse davvero stato lui? Nessun altro era lì alla discarica. E mai nessuno degli amici di Klevi si sarebbe permesso di intralciare il suo momento di gloria. Doveva averlo fatto lui per forza. Kay Biryukova aveva una Singolarità. Ma quale? Come funzionava? Come si attivava? A che serviva? Nella sua mente si formò un'ulteriore terribile domanda che lo fece rabbrividire, qualcosa a cui fino a quel momento non aveva pensato, trasalì, si strinse nella coperta portando le ginocchia al petto per farsi più piccolo possibile. Aveva ucciso Klevi?
«Che è successo qui?» Kay alzò di scatto la testa, suo padre era entrato in casa, aveva attraversato la piccola cucina e adesso si stagliava imponente e severo poco distante da lui.
«Stavo giocando papà scusa» Kay sparò la prima cosa che gli venne in mente, una scusa terribile, nessuno gli avrebbe mai creduto, se avesse potuto avrebbe iniziato a sbattere violentemente la testa sullo spigolo più duro di casa per punirsi dopo aver detto una simile stronzata, ma non voleva dargli troppi pensieri, mise su lo sguardo più dispiaciuto che riuscisse a fare pregando che l'uomo ci cascasse.
«Metti in ordine» sospirò scompigliandogli i capelli e riprendendosi la coperta, nessuna sgridata, niente di niente, Kay lo osservò dirigersi in camera, c'era cascato veramente?
Urim non ci aveva creduto per niente, non voleva indagare sulla questione però, Kay non sembrava volerne parlare e a giudicare dalla faccia tumefatta che aveva doveva essere successo qualcosa di molto brutto. Litigare con lui per farsi raccontare tutto era sicuramente la scelta peggiore che potesse fare, avrebbe aspettato almeno la sera per provare a discuterne. Dopo tutto quello che stava succedendo in quei giorni era più che normale che Kay avesse bisogno dei suoi spazi, di tempo per metabolizzare tutti quei cambiamenti, presto sarebbe cambiato tutto per l'ennesima volta, un cambiamento molto più grande di quanto Kay potesse immaginare, il suo compleanno si stava avvicinando, Urim aveva bisogno di godersi quei suoi ultimi momenti con suo figlio prima di dirgli addio per sempre, evitare conflitti era la sua unica priorità.
I giorni passarono monotoni, tutto sembrava essere tornato normale, suo padre aveva medicato le sue ferite e lo aveva convinto a non avvicinarsi più a quei ragazzi, lo aveva abbracciato stretto al petto fino a soffocarlo per un secondo, ma a Kay stava bene così, gli abbracci di suo padre erano l'unica cosa al mondo in grado di farlo stare bene.
Klevi e la sua banda non si fecero vivi e per un po', Kay si convinse ancora di più di averlo ucciso davvero ma nessun soldato era venuto a cercarlo, poi lo vide vicino casa sua mentre si prendeva gioco di un povero cane randagio a cui avevano fuso la coda ad un palo. Lo prendeva a calci e quando la sua rabbia iniziava a placarsi per lasciare spazio ai guaiti di dolore il suo gruppetto di vipere lo stuzzicava nuovamente e quello ricominciava ad abbaiare, ringhiare e provare a prenderlo a morsi. Quella scena fece infuriare Kay, 'la lezione non ti è servita a nulla' pensò, la tentazione di uscire di casa per dirgliene quattro era troppa ma ripensò alla faccia rossa e terrorizzata di Klevi mentre lottava col nulla per un po' d'aria e decise di lasciar perdere. Non voleva rischiare di ucciderlo davvero.
Passò tutto il suo tempo in casa o sul vialetto davanti, aspettava suo padre, giocava con lui per qualche ora, lo aiutava a fare le faccende di casa, come spazzare per terra o spolverare, niente di più, e tutte le sere si avvinghiava a lui prima di dormire, niente incubi, niente sogni strani dove lui era qualcun altro e parlava lingue sconosciute, era tutto perfettamente normale.
«Tanti auguri piccola peste» il signor Kalyvas lo accolse in casa con un grande sorriso, era un uomo barbuto con i capelli sempre arruffati e neri come il carbone, aveva gli occhi rossi come il figlio e piccole rughe appena accennate vicino agli occhi, le labbra sempre piegate all'insù e un tono allegro che non poteva che contagiarti.
«Sei grande ormai» Dios sorrise in un modo che Kay non vedeva da tanto, da quando Dios aveva iniziato a lavorare non si erano praticamente più visti, era cambiato moltissimo, era più magro, aveva le spalle più grosse e il viso leggermente più scavato sulle guance come suo padre, le mani erano ricoperte di calli e ruvide come quelle dei grandi e lo sguardo più spento.
«Non è il mio compleanno» li guardò confusi.
«Lo sappiamo patata»
La signora Kalyvas lo prese in braccio «Presto sarai un Santo, Kay, ti trasferirai in una grande città meravigliosa e noi non potremo festeggiare il tuo compleanno, quindi anche se oggi è il trenta ottobre faremo una bella festa per te, ceneremo tutti insieme ed esprimerai il tuo desiderio dei sette anni, un desiderio speciale» concluse facendo una giravolta, la gonna verde svolazzante si aprì leggermente, Kay la fissò a bocca aperta, sembrava un prato ricoperto di fiori colorati.
Il bambino ubbidì senza fare storie, non voleva rovinare il loro splendido umore, eppure si chiedeva perché fossero così sicuri che quelli sarebbero stati i loro ultimi giorni con lui, anche loro potevano andare con lui no? In fondo erano la sua famiglia.
La serata procedette alla perfezione, risero, scherzarono, Dios e la sua famiglia gli regalarono un bracciale di cuoio con le sue lettere incise sopra, Urim invece gli fece passare una collana da sopra la testa «Era della mamma» sorrise indicando l'anello che pendeva in fondo al filo di cuoio che aveva al collo. Kay lo prese tra le dita minute osservandolo attentamente, brillava come il sole stesso, era fine come un filo di seta ma luminoso, e agli occhi del bambino che lo aveva appena ricevuto, splendido.
Il loro momento fu rovinato da un forte colpo di tosse del signor Kalyvas, Kay si voltò verso di lui spaventato, continuava a tossire nel fazzoletto che aveva sulla bocca rimanendo quasi senza fiato «Tesoro? Tesoro stai bene?» la moglie si avvicinò preoccupata posandogli delicatamente una mano sulla schiena.
«Tranquilla Delphina cara» riuscì a sussurrare mentre ancora tossiva, uscì dalla piccola cucina dirigendosi probabilmente in camera, seguito subito dalla moglie preoccupata.
Aspettarono per minuti interi, i colpi di tosse sembravano non volersi fermare, qualche volta si interrompevano per permettere al pover'uomo di riprendere fiato ma poi ricominciavano più forti di prima. La signora Kalyvas si affacciò con un viso così bianco da sembrare morta, tentò di mascherare la sua faccia preoccupata ma non ci riuscì benissimo.
«Scusate davvero» abbassò lo sguardo sentendosi in colpa «Dios, papà non sta bene è meglio andare a dormire, non voglio che si senta male anche a lavoro»
Il figlio annuì «Scusate» ripeté il gesto della madre accompagnandoli alla porta, Kay non riusciva a capire, se stava male perché non poteva lasciar perdere il lavoro per un giorno? Ma suo padre sembrò capire eccome, si era incupito di colpo «Lo capiamo» disse semplicemente salutandoli con un cenno e riportando il figlio in casa loro.
Kay era ancora più confuso ma non voleva chiedere spiegazioni al padre, sembrava già triste per conto suo, andò a letto in silenzio come un bravo bambino e si mise sotto le coperte avvinghiato a Urim come ogni notte, questa notte con la mano stretta al prezioso anello della mamma però.
Si svegliò all'alba, andando dalla signora Kalyvas, decise di passare tutto il giorno con lei, colorò qualche disegno che lei aveva fatto per lui, la fissò mentre rammendava i vestiti, la aiutò a strappare le erbacce, mangiò con lei, fece tutto ciò che era in suo potere per farle passare una giornata tranquilla e spensierata «Dovresti preparare le tue cose Kay, domani partirai per la città» disse all'improvviso mentre il bambino asciugava i piatti.
«Lo so, ma non ne ho voglia ora, voglio farlo tardi»
«Perché?»
«Perché così posso stare con voi di più» sollevò le spalle con fare ovvio «Lo avete detto voi ieri, io partirò e voi non potrete festeggiare il compleanno con me domani, quindi significa che non potrete venire subito con me in città»
Delphina lo fissò confusa e preoccupata al tempo stesso «Tuo padre non te l'ha ...» Si interruppe a metà a causa del clacson che la fece sobbalzare «Che ci fanno qui a quest'ora?» chiese preoccupata correndo fuori di casa nel panico, Kay la seguì, il furgone del rientro a casa era in anticipo, i militari fecero scendere tutti in fretta e furia, erano solo in tre. Kay non vide i capelli ramati di quella donna che si chiamava Smirnov. Accorsero presto tutti fuori dalle loro case avvicinandosi preoccupati al furgone.
«Tornate tutti dentro» gridò una donna dal posto del guidatore.
«Forza, a casa, Eretici» un uomo spinse il signor Kalyvas a terra, era ferito, la sua gamba perdeva sangue dalla coscia e lui a malapena riusciva a tenersi in piedi dal dolore. Tossiva come la sera prima tentando di tamponare la ferita come meglio poteva nonostante avesse le mani sporche di terra, Kay si avvicinò al padre terrorizzato, cosa stava succedendo adesso?
«Giù le mani da mio padre» un urlo feroce si levò in aria simile a un grido di guerra, il soldato sputò del sangue a terra, Dios lo aveva colpito in pieno viso con un pugno, il suo compagno mise quel maledetto collare luminoso al ragazzo e si allontanò prontamente tirando fuori il manganello, l'uomo che Dios aveva colpito lo fissò per un secondo toccandosi il labbro rotto, e non appena vide il sangue sulla punta delle dita, rivolse uno sguardo di puro odio al ragazzino che aveva appena osato sfidarlo.
«Tranquillo» digrignò i denti infuriato, rivolgendo un ghigno malvagio al collega «Non serve amico» imbracciò il fucile puntandolo contro il ragazzo.
Il mondo si era appena congelato, in un solo secondo Kay visse la morte del suo migliore amico, di suo fratello, centinaia e centinaia di volte. No, no, no, non poteva succedere davvero, tutto ma non questo.
«No» un lungo grido acuto uscì dalla sua gola, un grido di disperazione e odio. I vetri del furgone e delle finestre dell'intero vicinato si infransero in un forte frastuono, il fucile carico che il militare puntava contro Dios schizzò via dalle sue mani volando chissaddove. Si udì un forte CRACK provenire dalla gabbia toracica dell'uomo, i suoi occhi rimasero sbarrati, il suo volto si contorse in una smorfia di puro dolore. Il busto girò su se stesso di trecentosessanta gradi ma i suoi piedi rimasero come incollati a terra. CRACK CRACK CRACK, si sentì ancora. La sua spina dorsale era rotta in più punti ormai, infine un ultimo schiocco leggermente più sordo ma molto più forte. I suoi occhi schizzarono via. Dalle orbite ormai vuote iniziò a colare sangue, così come da naso, bocca e orecchie. La sua testa aveva assunto una strana forma come se fosse stata schiacciata, come se fosse implosa. Il corpo ormai senza vita del soldato cadde a terra con un tonfo, alzando un gran polverone. Silenzio. Erano rimasti tutti pietrificati.
La donna a bordo del furgone scese in fretta dal mezzo affiancandosi al collega ancora in vita che ormai aveva lasciato cadere il manganello sconvolto. Imbracciarono entrambi il fucile puntandolo questa volta contro Kay, Urim sbiancò.
Non disse una parola, si spostò in fretta, con uno scatto che Kay non gli aveva mai visto fare si parò davanti a lui come uno scudo, tutto, potevano portargli via tutto ma non quel bambino, non suo figlio.
«Non puoi farlo»
«Non la abbandonerò solo per un tuo capriccio»
«Lisian, hai un figlio, ti prego, non lasciarlo solo, non puoi abbandonarlo in questo modo»
«Alisa è più importante»
«Menti, te ne prego, di che non lo sapevi, saranno clementi, fa ammenda, mostrati pentito. Cosa ne sarà di quel bambino altrimenti? Come credi andrà a finire?»
Abbassò lo sguardo stringendo i pugni «Lui» si bloccò con un groppo in gola a soffocargli il respiro «Avrà te» alzò la testa fissandolo e tirando un sorriso disperato, la voce spezzata, gli occhi lucidi, Urim non sapeva se fosse paura, pentimento o che altro.
Lisian era sempre stato più coraggioso del fratello, ma Urim non si sarebbe mai aspettato che sarebbe stato pronto a morire per una donna, ne tantomeno così egoista da lasciar morire una creatura indifesa.
«Lisian, non capisci che è una psicopatica? Ha fatto esplodere le loro teste»
«Lo stavano maneggiando disgustati come fosse un pezzo di letame, voleva difendere la sua creatura, tutto qui»
«Ti rendi conto di ciò che dici? Stai giustificando un'assassina» la rabbia stava cominciando a fargli ribollire il sangue nelle vene.
«Perché? Cosa sono loro?» digrignò i denti fissandolo negli occhi serio come non mai «Non dirmi che non è così Urim. Siamo carne da macello per loro, si sentono giustificati nel tormentarci e ucciderci, è giusto che qualche volta ci rimettano le penne anche loro» continuò ormai succube della sua stessa furia incontrollata.
«Basta così» un terzo uomo si intromise «Il vostro incontro finisce qui»
Urim uscì a testa bassa scortato dalle guardie penitenziarie, il suo cuore sembrava sul punto di fermarsi da un momento all'altro, cosa poteva fare? Quel bambino senza nome era destinato a morire, ne era certo.
Le gambe sembravano di gelatina, gli occhi bruciavano mentre lui tentava in ogni modo di reprimere le lacrime. Si sedette sull'ultimo gradino al bordo della scalinata, le mani che stringevano i capelli tra le dita come se avesse voluto strapparseli uno ad uno. La disperazione lo stava facendo impazzire, non poteva abbandonarlo, ma lui era un Profano, cosa poteva fare per cambiare il destino di un Eretico? Probabilmente lo avevano già ucciso.
Senza rendersene conto aveva iniziato a singhiozzare, era solo, suo fratello era l'unica cosa che gli era rimasta, ma preferiva morire per quella Alisa piuttosto che rimanere con lui e crescere il figlio che lei gli aveva dato, Urim era solo, quel bambino poteva essere l'ultima piccola ancora che lo legava ad un pezzo della sua famiglia, doveva trovare il modo di salvare quella creatura.
«Sei disposto a rinunciare ad ogni tuo diritto?»
«Sì»
«Sei disposto ad essere declassato come nono grado diventando così parte del più infimo gruppo sociale tra la classe degli Eretici?»
«Sì»
«Così è deciso, a partire da oggi stesso, Urim Biryukova, sei ufficialmente un Eretico di grado nono. A partire da oggi stesso non avrai diritto all'abitazione, verrai trasferito nel quartiere nove settore H in una casa che verrà a te concessa dal nostro governo, la Santa Repubblica dei normali, non potrai uscire dal quartiere nove se non con una licenza governativa e sotto stretta sorveglianza, avrai un sussidio settimanale minimo il quale verrà concordato dalla Camera dei Santi in data odierna, perderai il tuo diritto alla sanità e il tuo diritto di voto, non sarai più cittadino di questo stato ma verrai considerato lavoratore volontario per il governo che ti protegge e ama, solo così farai ammenda per i tuoi peccati, dovrai lavorare per la nostra Repubblica ogni giorno dalle ore cinque del mattino alle ore tre del pomeriggio in modo tale da ripagare il nostro governo dell'amore che ti è stato dato, avrai un coprifuoco a partire dalle ore quattro del pomeriggio alle ore undici del mattino successivo, nessun tipo di violazione sarà ammessa da questo tribunale. Pertanto un'ultima volta questo giudice chiede, Urim Biryukova, è convinto di voler procedere?»
«Sì» rispose senza esitazione fissando con determinazione il vecchio uomo davanti a lui.
Il giudice lasciò andare un sospiro di puro rammarico «Procedete» disse soltanto, mentre i suoi occhi colmi di pietà fissavano i militari presenti in aula mentre spogliavano l'uomo dei suoi averi e della sua identità di cittadino.
«Che nome vuole dare a quel bambino?» chiese il vecchio prima che venisse portato via.
«Kay, si chiamerà Kay Biryukova» rispose voltandosi per fissarlo in faccia.
«Allora lo scrivo» sussurrò con un sorriso amaro sul volto il vecchio giudice, un ultimo saluto silenzioso, un tacito assenso colmo di stima e rispetto per un atto tanto coraggioso, consapevole che non avrebbe mai più rivisto quell'audace eroe.
I colpi arrivarono in successione, forando e martoriando il corpo del povero uomo che con determinazione si era posto tra il bambino e quelle terribili armi di morte, morte che lo accolse con avidità tra le sue braccia, Urim cadde prono a terra in una posizione del tutto scomposta.
Kay lo fissò a bocca spalancata, non riusciva a piangere, non riusciva a muoversi, era successo tutto troppo in fretta, suo padre era morto? Era morto davvero? No. Non era possibile. Doveva essere un brutto scherzo, sentì una voce all'orecchio «Scappa. Corri» non c'era nessuno al suo fianco e non ricordava di aver mai sentito quella voce «Ti uccideranno. Vai via da qui» un'altra voce parlò al suo orecchio.
Il bambino alzò lo sguardo, i due militari avevano ricaricato le loro armi. Si guardò intorno velocemente, avevano tutti espressioni di paura o disgusto, persino i Kalyvas lo guardavano con quegli occhi colmi di disprezzo e terrore, si voltò di scatto correndo verso il cancello metallico del suo quartiere e oltrepassandolo sotto lo sguardo confuso delle sentinelle. Avrebbero dovuto sparare ma le loro armi erano come bloccate da una forza ultraterrena che non permetteva loro di usarle.
Kay corse a perdifiato, la testa così piena di domande da pulsare a ritmo col suo cuore. La paura che si torceva alla bocca del suo stomaco stritolandolo come nella morsa di un pitone. Il terrore di essere il prossimo. Aveva firmato la sua condanna a morte, come avrebbe fatto a sopravvivere adesso?
SPAZIO AUTORE
Salve ancora. Già oggi pubblico un po' di più. Vi aspettavate questo ritorno? (È praticamente solo una piccola parentesi Ik).
Ed ecco qua che tutto torna (quasi). Cosa ne pensate? Come pensate se la caverà Kay? Fin dove riuscirà a spingersi secondo voi?
Alla prossima stelline💖
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