Solo
Quando chi ti dovrebbe proteggere decide di ferirti tutto ciò che resta è fuggire. Ma se non bastasse?
Corse per ore senza sapere neanche lui dove stesse andando, vide in lontananza alte colonne di cemento da cui uscivano immense nuvole di fumo nero, forse le fabbriche di cui Urim gli parlava ogni tanto, quelle grandi fabbriche che aiutavano i Santi ad avere la vita agiata che meritavano di avere, ma non era questo che interessava a Kay.
Le montagne erano pericolose, suo padre diceva sempre che erano abitate da animali feroci che attaccavano con l'intento di uccidere, ma anche che oltre quei monti la Repubblica non aveva più potere, oltre quei monti finiva il suo paese, l'unico che conosceva.
Forse, pensò Kay, oltre quei monti non c'era il niente. Forse c'era qualcosa di meglio, qualcuno che lo avrebbe aiutato o che quantomeno non avrebbe provato a ucciderlo. Anche ci fosse stata una landa desolata e nient'altro sarebbe stato perfetto.
Si fermò, nascoso in un vicoletto tra due baracche fatiscenti nel distretto industriale, nel tentativo di riprendere fiato, un tentativo fallimentare data la paura che gli bloccava il petto come un macigno. Gli occhi sbarrati dal terrore, il fiato corto e le guance paonazze sia per il freddo che per la corsa. Mancava un giorno, era tutto perfetto, mancava solo un giorno e poi avrebbe vissuto libero, sarebbe diventato un Santo. Aveva rovinato tutto. Era colpa sua. Aveva ucciso un uomo, aveva nascosto a tutti l'incubo che stava vivendo e adesso, solo per colpa sua, era rimasto solo.
Lo sguardo dei Kalyvas era come un marchio a fuoco nella sua mente. I loro occhi delusi e giudicatori. Odio. In quel momento, in mezzo a tutta quella gente, Kay aveva percepito un'unica potente emozione, l'odio.
Ma anche quello non era abbastanza, suo padre era morto, si era posto tra lui ed i fucili dei militari pronto a sacrificarsi per proteggerlo. Non aveva neanche avuto il tempo di dargli un ultimo addio. Lo aveva abbandonato a terra come se la sua vita e il suo coraggio non contassero nulla. Le sue mani non erano pregne solo del sangue di quel soldato, anche il sangue di suo padre imbrattava indelebile la sua coscienza.
Si sedette a terra con la schiena premuta contro il muro in cemento armato dell'edificio e si fissò i palmi delle mani tremando come una foglia scossa dal vento. Non sapeva se per il freddo gelido che gli trafiggeva le ossa o la corsa sfrenata per scampare alla morte. Le lacrime iniziarono a uscire a fiotti come dalla crepa di una diga, si tappò la bocca per soffocare i singhiozzi, da quel momento in poi doveva cavarsela con le sue sole forze, doveva arrivare oltre i monti, fuori dal territorio dove la Repubblica aveva potere.
Pianse per ore, alcune volte accompagnato da singhiozzi così forti da farlo restare senza fiato, altre con più calma, cercando di riprendere il controllo per ricominciare la sua fuga. Più volte quei pianti sfrenati lo avevano portato a vomitare anche l'anima, aveva tentato di alzarsi in piedi, di riprendersi almeno quel tanto che bastava per cambiare nascondiglio, ma ogni volta crollava in ginocchio stringendosi nelle spalle, quelle immagini sembravano volerlo fare impazzire.
«Mi dispiace per tuo padre» una voce dolce sussurrò quelle parole così vicino a lui che Kay trasalì voltandosi di scatto alla sua sinistra. Ma non c'era nessuno, solo una strana aura che tremava come vapore nell'aria. Quella voce suonava stranamente familiare, sembrava quasi quella ragazza marrone che chiamava quella Eloise con tanta insistenza, quella ragazza marrone che lui aveva sognato di essere, e di cui aveva sognato la morte.
Qualcosa di terribilmente freddo e al tempo stesso delicato toccò la sua guancia asciugandogli una lacrima, avrebbe giurato fosse un pollice, ma non c'era nessun'altro con lui, non era possibile. Si alzò di scatto, ancor più inquieto. Uscì da quel vicolo di soppiatto facendo attenzione a non incappare in nessun essere vivente e iniziò a muoversi. Restare fermo in un punto troppo tempo lo avrebbe fatto scoprire, glielo aveva insegnato Dios e ne aveva avuto la conferma pochi giorni prima alla discarica, quando Klevi e la sua banda lo avevano trovato nascosto dietro una pila di rifiuti. Ma Klevi era un teppista che voleva sfigurarlo, farsi trovare dai soldati invece significava morte certa.
Continuò ad andare avanti nonostante, ogni volta che il pensiero di soffermava su suo padre o i Kalyvas, gli occhi si riempissero di lacrime, ma in testa aveva un unico pensiero 'VOGLIO VIVERE'. La sera arrivò presto però, doveva trovare un posto sicuro dove trovare riparo e nascondersi per passare la notte. Pensò di usare i rifiuti, se avessero usato i cani cattivi che attaccavano le persone per trovarlo lui avrebbe avuto l'odore di spazzatura disgustosa quindi non lo avrebbero trovato. Era vomitevole, sicuramente poco igienico, ma fu l'unica cosa che gli venne in mente. Aveva una meta ma non sapeva come raggiungerla, prendere tempo con qualsiasi espediente potesse inventarsi era l'unica cosa intelligente da fare.
Fu la notte peggiore della sua vita, il freddo era a dir poco terribile, aveva presto perso la sensibilità alle dita di piedi e mani, non aveva guanti e le scarpe di tela completamente rovinate non aiutavano minimamente i suoi piedi a restare al sicuro dal rigido freddo di novembre. Il suo naso era ormai un pezzo di ghiaccio e lui non faceva altro che tremare a causa dell'aria gelida. Provò a dormire ma fu un sonno irregolare e costellato di incubi, suo padre era il primo di questi.
Pianse anche quella notte e ancora sentì quel tocco freddo e delicato asciugare le lacrime che occupavano il suo viso, nessuna voce però. Che se lo fosse sognato davvero? Forse quella mano delicata che gli sfiorava il volto per asciugare il suo pianto era lo spirito del suo papà. Forse si stava prendendo cura di lui nonostante quei due soldati cattivi lo avessero ucciso. Però le mani di Urim non erano in quel modo, erano mani grandi e ruvide, ricoperte di calli, con la pelle secca che grattava le guance quando gli faceva le carezze.
Quella nottata fu a dir poco infernale, ma non poteva certo arrendersi dopo meno di ventiquattr'ore, riprese il suo cammino all'alba, ancora con una meta ben precisa in mente ma senza avere la minima idea di come raggiungerla.
Ogni volta che voltava l'angolo il suo cuore saltava un battito, il terrore di trovare un Santo o qualche militare pronto ad acciuffarlo, o meglio ucciderlo, era come un macigno che si poggiava completamente sulle sue spalle, rendendo ogni passo pesante e faticoso. Il freddo poi non aiutava affatto il bambino, anzi era solo un disagio in più che si univa a tutto il resto, non sapeva che direzione prendere e quasi senza rendersene conto si ritrovò in un mondo per lui del tutto nuovo.
La città era immensa, le strade erano talmente affollate di persone e strani mezzi di trasporto di centinaia di colori differenti che quasi gli facevano girare la testa, era stato catapultato in un mondo parallelo che mai avrebbe potuto immaginare.
Case ampie, lussuose, alte fino al cielo, strani edifici pieni di vestiti colorati e luci accecanti. Davanti alle vetrate di quelle case con tanti vestiti tutti uguali esposti, vi erano delle persone di plastica in pose strane. Sulle porte di alcune di queste vi erano delle tende colorate che proiettavano ombra al suolo e delle scritte a caratteri cubitali sulle facciate che non poteva che distogliere l'attenzione dei passanti. Se Kay avesse dovuto descrivere quel posto con una parola sarebbe stata "colore".
Ma le insegne dai colori sgargianti dei negozi non erano l'unica cosa che incuriosiva i passanti quel giorno. Gorod Urusov certo non si aspettava di venir sconvolta dalla presenza di uno sporco bambino malconcio, era sempre stata una città piuttosto tranquilla, certo affollata e sempre in movimento ma tutto sommato la vita lì era calma e monotona.
Ogni persona presente in quelle vie, dal ceto sociale più alto a quello meno importante, si voltava a fissare incredula quella minuscola creaturina sperduta che si guardava attorno col naso all'insù. Alcuni disgustati commentavano l'aspetto e l'olezzo del bambino, definendolo inappropriato e deleterio per l'immagine della capitale, altri si chiedevano da dove fosse uscito per essersi ridotto in quello stato, che gli era capitato?
Il mormorio della gente si fermò all'improvviso quando qualcosa di molto più sconvolgente catturò la loro attenzione, qualcosa che non accadeva da anni ormai, le pubblicità sugli schermi led in giro per la città scomparvero, ci fu un secondo in cui gli schermi privi di immagini si annerirono completamente, poi senza che nessuno potesse immaginarlo un uomo comparve su di essi, il governatore Zakhar Urusov, seduto su una lussuosa poltrona blu notte fissava dritto davanti a se. Un lungo fischio acuto attirò l'attenzione anche degli ultimi cittadini che ancora erano distratti tra cui Kay, alcuni uscirono sul balcone delle proprie abitazioni incuriositi, poi la voce dell'uomo risuonò nel cielo per farsi sentire da tutti.
«Miei cari concittadini, con mio profondo e sentito rammarico mi sento in dovere di comunicarvi una notizia terribile. Gli Eretici si stanno ribellando a noi, noi Santi, che disperatamente cerchiamo una cura per il morbo che li affligge e rovina irrimediabilmente la loro vita. Siamo stati traditi da costoro, costoro che senza rimorso hanno preso la vita di Ermal Gjata, il quale, con immenso coraggio, ha difeso i suoi colleghi dando tutto il possibile per tutelare la loro incolumità. La moglie ed i suoi quattro figli sono adesso obbligati da questi esseri impuri ad affrontare il lutto di un eroe scomparso da questa terra prima del tempo» si interruppe il governatore, la sua voce era profonda e autoritaria ma calma, Kay aveva un groppo in gola, ogni sua parola gli pizzicava i nervi, lo metteva in soggezione vederlo tramite uno schermo figuriamoci averlo nella stessa stanza.
Aveva una terribile sensazione, ma sentirlo raccontare quelle menzogne gli faceva salire una rabbia così viscerale che quella paura che provava all'inizio si stava lentamente trasformando in una furia incontrollata. Strinse i pugni conficcandosi le unghie sporche nei palmi delle mani e lasciando un profondo segno bianco sulla pelle.
Poi l'uomo ricominciò «Nel rispetto di questa dura perdita, mi sento in dovere di avvertirvi del pericolo che ad oggi oscura le nostre vite, Kay Biryukova, sette anni» una sua fotografia comparve di fianco all'uomo, era la foto che gli avevano fatto l'anno prima al suo compleanno. Il suo viso magro e pallido era proiettato su tutti quegli schermi, era come se i suoi occhi lavanda fissassero la gente, era impossibile non riconoscerlo adesso «corporatura esile e pelle lattea» riprese il governatore «Ma non fatevi ingannare dal suo viso dolce e innocente, questo bambino è in realtà un mostro, un Immondo» a Kay si gelò il sangue nelle vene. Gli Immondi erano i peggiori criminali che la loro Repubblica avesse mai affrontato, se li era sempre immaginati come uomini cattivi, con brutte intenzioni e che si divertivano a far soffrire gli innocenti. Gli Immondi erano spietati assassini che volevano far cadere il loro amato governo facendo sprofondare il paese nell'anarchia, lui non era un Immondo, lui era un bambino, era solo un bambino.
«Niente panico amici, i nostri valorosi soldati sono qui per eliminare la minaccia di quest'orrenda creatura, fino ad allora non uscite mai da soli, specialmente quando cala la notte evitate gli spostamenti il più possibile, noi saremo a vostra disposizione per assistervi e proteggervi, se vedete in giro questo mostro allertate immediatamente il corpo di polizia più vicino, il numero di emergenza è a vostra disposizione per ogni segnalazione, se non avete la possibilità di chiedere aiuto il qui presente Zakhar Urusov concede voi la possibilità di uccidere, non ci saranno conseguenze, grazie» concluse l'uomo solenne.
Gli sembrò che la terra fosse scomparsa da sotto i suoi piedi, aveva sentito bene? Il governatore di Stato aveva appena dato il via libera a una caccia all'uomo contro di lui? Lo avrebbero cercato tutti, avrebbero fatto di tutto per portare la sua testa dinanzi a quel disgustoso bugiardo. Adesso non doveva più scappare dai soldati, adesso anche i comuni cittadini avevano il diritto di eliminarlo.
Si sollevò un brusio generale. La gente aveva paura. Il nemico era dietro l'angolo, forse proprio accanto a loro. E come potevano difendersi da un pericoloso Immondo?
Alcuni iniziarono a dubitare
«Ma non li avevano eliminati tutti?»
«Pensavo fossimo al sicuro ormai»
«Un Immondo nelle nostre terre, cosa abbiamo fatto per meritarci questa punizione divina?»
«Quel bambino è davvero orribile, avrebbero dovuto eliminarlo subito»
«Come hanno fatto a farselo sfuggire così a lungo?»
«Già, ha sette anni, avrebbero dovuto giustiziarlo da parecchio ormai»
Kay si guardava attorno spaesato, fece un passo indietro pronto a correre via nella confusione generale prima che qualcuno spostasse la sua attenzione su di lui.
«Un'ultima comunicazione» si girarono nuovamente tutti col naso all'insù, il governatore era già scomparso, adesso c'era solo uno schermo nero e la sua voce nell'aria «Questi sono i traditori che con scriteriato coraggio hanno pensato di nascondere e proteggere quell'Immondo dalla giusta punizione che lo avrebbe dovuto attendere, guardateli bene in faccia, ricordate i loro volti, questo è un messaggio per tutti voi Eretici di ogni grado e settore» la sua voce era ruvida e severa.
Sugli schermi comparve il suo quartiere. Kay sgranò gli occhi. Il cuore che batteva in gola togliendogli il respiro. Trattenne il fiato aspettando che l'uomo dicesse altro. Aveva un pessimo presentimento e ultimamente i suoi pessimi presentimenti si trasformavano in terribili realtà.
C'erano tutti, riconobbe immediatamente Klevi e sua sorella, abbracciati l'uno all'altra, lei singhiozzava visibilmente, come scossa da una forza impercettibile, anche Klevi tremava e piangeva, non lo aveva mai visto piangere, mai. Eppure in quel momento sembrava più umano di quanto Kay avrebbe mai potuto immaginare.
Poi vide i Kalyvas, Dios era tra i suoi genitori, sorreggeva suo padre e con sguardo fiero e di sfida fissava dritto davanti a se. Era pronto. Non avrebbe versato una lacrima. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di vedere la paura nei suoi occhi. Sarebbe morto fieramente senza mai abbassate la testa davanti ai suoi carnefici.
«Il quartiere nove del settore H contenente Eretici di grado nove verrà punito per questo loro grave crimine» Kay fece qualche passo avanti, la sua mente era bianca, completamente svuotata da ogni pensiero, in attesa di qualcosa che non voleva arrivasse. Per un istante ebbe la tentazione di urlare in mezzo a tutti, farsi trovare, farsi punire al posto loro, ma il suo corpo era di piombo e la sua voce sembrava averlo abbandonato.
«Suddetto quartiere verrà perciò epurato nella sua interezza, che sia da monito per ognuno di voi»
Una serie di militari distanti pochi centimetri gli uni dagli altri caricarono i fucili all'unisono e puntarono le armi sui civili. Kay sentì la coscienza che lentamente lo stava abbandonando. Urla di terrore e pianti disperati si alzarono nell'aria. Una serie di colpi partirono dalle canne delle loro armi. Trafissero la debole carne delle vittime a pochi metri da loro, veloci e spietati. I corpi caddero a terra pesanti come sacchi di sabbia.
Una nuova fila di prigionieri venne portata davanti a quelle armi di morte. Alcuni si ribellavano tentando di strattonare i soldati e liberarsi delle manette, ma venivano subito rimessi al loro posto dalle violente manganellate di questi. Caricarono nuovamente i fucili. Ancora urla e pianti trapanarono le loro orecchie violentando i timpani di coloro che erano lì ad ascoltare. Puntarono le canne sulla nuova serie di vittime. Fuoco. Altri sacchi di sabbia caddero a terra. Ancora. Una nuova fila. Il terrore che appesantiva l'aria rendendola irrespirabile. CLICK. Puntare. BANG. E ancora. CLICK. Puntare. BANG. Un'altra fila. Un'altra ancora. Donne, uomini, bambini, anziani, persino coloro che avevano una disabilità. Tutti inutili sacchi di sabbia passati inosservati davanti lo sguardo distratto dell'universo.
Pochi minuti. Tutti in fila come vacche al macello. Un singolo colpo e addio per sempre. Fine. Era tutto finito. Le sgargianti pubblicità colorate tornarono a occupare gli schermi su cui era stato appena mostrato un massacro in piena regola.
Kay era a bocca aperta, immobile, le sue membra erano scosse da brividi che partivano dalla spina dorsale e percorrendo la schiena lo scuotevano come una scarica elettrica, era stato tutto inutile. Il tentativo di proteggere Dios, il sacrificio di suo padre, la sua fuga, tutto inutile, erano morti tutti, e la colpa era solo sua.
Intanto non se ne era minimamente reso conto ma un nuovo brusio si era sollevato per le strade. Subito dopo un grido. Il panico. Lo avevano visto, lo avevano riconosciuto, ma lui era immobile sul marciapiede, isolato dal mondo. L'unica cosa che sentiva erano le urla della sua gente, l'unica cosa che vedeva erano i loro corpi privi di vita immersi nel sangue.
Un colpo di arma da fuoco arrivò dall'alto puntando alla sua testa, ma qualcosa lo prese per la nuca e lo costrinse ad abbassarsi in tempo, fu allora che si rese conto del panico generale che la sua sola presenza aveva scatenato. Era iniziata la caccia. I Santi avevano già tirato fuori le loro armi, volevano la sua testa e avevano tutto il diritto di averla.
Un altro colpo lo mancò per poco, piantandosi nella pietra, vicino ai suoi piedi, una mano congelata lo prese per un polso e lo tirò via guidandolo in chissà quale direzione. Correva dietro una nuvola di vapore eterea, per un secondo pensò fosse qualcuno di invisibile che stava tentando di aiutarlo, ma perché? Poi riconobbe una gonna blu fino al ginocchio decorata da tante palline bianche e delle calze strappate con dei fiocchetti rossi, una chioma lunga e scura ondeggiava davanti ai suoi occhi, era sicuro di averla già vista quella ragazza ma dove? Fu un flash di un secondo, poi scomparve di nuovo, ma la mano non lo lasciò, continuò a correre trascinandolo chissaddove.
Si fermarono fuori dalla città, era tutto meno sfarzoso e colorato, ma comunque le abitazioni sembravano più ampie e decisamente meno fatiscenti di quelle che lui era abituato a vedere.
Doveva trovare un posto in cui nascondersi il prima possibile. Non conosceva il quartiere, in fin dei conti non era mai uscito dal suo settore, e adesso si ritrovava a vagare sperduto come un cucciolo in un mondo ostile e sconosciuto. Arrangiarsi nella speranza di sopravvivere era l'unica sua possibilità. Doveva riprendere il controllo, ormai era un ricercato a tutti gli effetti. Non aveva più nulla da perdere. Gli avevano portato via tutto, persino la perdita di Klevi gli faceva salire un groppo in gola. Si bloccava a metà della trachea come un pezzo di pane troppo grande e rinsecchito per essere mandato giù. Mai se lo sarebbe aspettato. Faceva male. Anche se si trattava di un mostro violento che provava piacere nel tormentare gli altri, aveva fatto sorprendente male vederlo morire in quel modo. Si sentiva colpevole. Ma cosa poteva fare? Non poteva certo riportare in vita le persone che aveva fatto uccidere. Non aveva idea di quale fosse il suo potere, ma sicuramente era l'esatto opposto di quello che gli sarebbe servito in quel momento. Lui la gente la uccideva o strangolava fino a un passo dalla morte, non la salvava. Lui non era un eroe.
Il respiro affannato si trasformava in nuvole bianche davanti alla sua bocca, doveva trovare del cibo, era da più di ventiquattr'ore che non metteva niente nello stomaco. Per quanto il cibo non fosse molto in casa sua Kay non aveva mai passato tanto tempo senza mettere neanche una briciola di pane nello stomaco. Aveva fame, una fame che gli scuoteva lo stomaco come un terremoto.
Si guardò intorno, riflettendo su cosa fare, la fame continuava a distrarlo, notò che poco distante da lui una di quelle abitazioni aveva la porta socchiusa. Fu un'idea terribilmente stupida ed azzardata, si avvicinò di soppiatto, sembrava non ci fosse nessuno nei paraggi, che stessero dormendo? O forse erano tutti a lavoro come faceva il suo papà, le ipotesi erano infinite.
Aprì ancora un po' la porta, quel tanto che bastava per far sgusciare la sua esile figura all'interno.
Era una casa ampia, a due piani, non ne aveva mai viste di così grandi, gli arredi erano in delle condizioni perfette, nessun tavolo sbilenco o mobilio privo di una o più zampe, tenuto in piedi da chissà quale forza mistica. Le mensole erano perfettamente intatte, piene di soprammobili, alcuni meravigliosi, altri che fecero storcete il naso al piccoletto.
Si avviò cauto ad esplorare le stanze alla ricerca della cucina. Si ritrovò in una stanza con un grande tavolo che aveva l'aspetto di essere pesantissimo e massiccio. Ogni passo che faceva c'era qualcosa in grado di sorprenderlo. Attraversò un piccolo corridoio, una cornice scura attirò la sua attenzione, c'era una bambina dal viso delicato e due grandi occhi azzurri, era in braccio a quello che Kay ipotizzò essere suo padre e fissava davanti a se qualcuno, un ampio sorriso le illuminava il volto, anche l'uomo che la teneva stretta a se sorrideva. Sembravano così felici.
Si asciugò velocemente una lacrima, lui e suo padre non avrebbero mai più avuto un momento come quello. Si morse il labbro con forza per reprimere le lacrime e tirò su col naso. Voltò la cornice col vetro rivolto verso la superficie lignea e si impose di proseguire.
Finalmente era arrivato in quella che sembrava una cucina, dal lato completamente opposto alla porta d'ingresso. C'era una porta a vetri in fondo alla stanza, dava direttamente su quello che sembrava un piccolo giardinetto privato.
Iniziò a frugare nei mobili, buttando all'aria ogni cosa, ma la sua attenzione venne catturata da uno strano mobile che non aveva mai visto in vita sua. Si avvicinò curioso e in punta di piedi afferrò la maniglia, tirò con forza, una luce si accese dall'interno di quello strano, grande oggetto.
C'erano così tante cose che sembravano deliziose. Iniziò a tirare fuori un po' di tutto, aprì una lunga scatola rettangolare e la lanciò via disgustato quando vide qualcosa di bianco e dall'aria molliccia pieno di muffa verde, perché i ricchi mangiavano le cose ammuffite? Non aveva il minimo senso.
Si infilò in bocca qualcosa di piccolo e rotondo di un colore violaceo, aveva una consistenza strana. Non appena chiuse la mandibola, mordendolo, udì un suono scricchiolante ma la polpa al suo interno aveva una consistenza molle, per niente confortevole, eppure il sapore era così dolce, un dolce che non aveva mai provato prima, ma che catturò le sue papille gustative, era delizioso.
Mangiò ancora qualche chicco prima di passare al cibo successivo. Era un altro rettangolo bianco, ma non c'era la muffa questa volta, ne strappò un pezzo con le mani e lo mangiò, aveva un gusto molto forte, anche se la sua bocca era pregna della dolcezza di poco prima lo sentiva pungergli la lingua e il palato col suo forte sapore acido. Mandò giù a fatica quel pezzetto e allontanò il contenitore disgustato. Ma che roba si mangiavano questi ricchi?
Continuò a dare un morso a questo e quello, alcune cose erano gustose, altre decisamente meno, bevve dal lavandino schizzando acqua ovunque. Aveva assaggiato un po' di tutto quando gli venne in mente qualcosa. Loro erano ricchi, potevano ricomprarsi quel cibo in qualunque momento, non sarebbero morti di fame se si fosse portato via qualcosa. Urim diceva sempre che rubare era sbagliato, ma forse in quel caso poteva considerarla un'eccezione. Non voleva certo morire di fame.
Trovò un sacchetto di stoffa candido, sembrava molto resistente, ed iniziò a riempirlo con quello che più gli era piaciuto, soprattutto col pane, sapeva che quello era buono a prescindere. Lasciò la borsa piena di vivande sul tavolo della cucina avviandosi verso il piano superiore, era evidente che in casa non ci fosse nessuno, magari riusciva a trovare qualcosa di utile alla sua fuga. Delle scarpe ad esempio, o anche un semplice tessuto un po' più pesante da mettersi sulle spalle per ripararsi dal freddo.
Esplorò l'intero piano superiore non trovando delle scarpe adatte ai suoi piedini, erano tutte troppo grandi per lui, andare in giro con quella roba ai piedi, per quanto sembrassero calde e comode, era a dir poco impossibile. Riuscì a trovare una mantella di lana calda e morbida però, era di un marrone non troppo scuro e dava una splendida sensazione al tatto. Kay non aveva mai provato nulla di simile. Una lacrima gli scese lungo il mento. Suo padre non poteva essere lì con lui a vivere quell'esperienza, non avrebbe mai vissuto quell'esperienza. Mangiare cibo buono, riposarsi in una casa calda, accarezzare un capo di abbigliamento di lana che odorava di pulito. Non era lì con lui a vivere quei momenti.
Tirò su col naso nel tentativo di reprimere il pianto disperato che minacciava di volerlo possedere quando un cane abbaiò furioso al di fuori dell'abitazione, Kay si avvicinò in fretta alla finestra della stanza, lo avevano scoperto. Per quanto era rimasto lì dentro? Come lo avevano trovato? Non doveva più distrarsi.
Scese di corsa le scale tornando a prendere il sacco con i viveri in cucina, voleva scappare da lì velocemente, anzi doveva farlo. Il rumore della porta d'ingresso che sbatteva contro il muro lo fece sobbalzare, la sua via di fuga era appena andata a farsi benedire. Tentò di aprire la porta a vetri ma sembrava chiusa a chiave. Si guardò attorno spostando lo sguardo in ogni angolo della stanza nel tentativo di capire come aprirla, aveva smesso di ragionare in modo razionale. Iniziò a colpire la porta con calci e pugni quando finalmente il vetro si infranse conficcando schegge affilate nella sua mano. Afferrò l'asciugamano sul mobile lì vicino e iniziò a correre verso la fine del giardino. Era circondato da una staccionata di legno scuro e dall'aria piuttosto massiccia, ma a quel punto chi se ne fregava se era in trappola. Dall'altra parte qualcuno era pronto a sparargli in testa, che avesse dovuto scavalcarla o buttarla giù a calci non gli importava, voleva solo trovare un nuovo posto in cui nascondersi.
Iniziò ad arrampicarsi sulla recinzione di legno, ma era troppo basso. Doveva fare in fretta. Era troppo dura, buttarla giù non era un'opzione. 'VOGLIO VIVERE' si disse ancora. Ricominciò la sua scalata. Nel frattempo i militari, sentendo il rumore dei vetri infranti, si affrettarono. Kay era aggrappato con le unghie alle lastre di legno. Le schegge pungevano i polpastrelli come aghi, gli sollevavano le unghie dalla carne facendolo sanguinare, ma c'era quasi. Abbassò di scatto la testa quando sentì il colpo di uno sparo, un proiettile si conficcò poco distante dalla sua mano.
«Ma che cazzo?» imprecò la donna che aveva premuto il grilletto fissando interrogativa la propria arma. Era una delle migliori cecchine del suo squadrone eppure lo aveva mancato. Qualcosa sembrava aver afferrato la canna del fucile modificando la sua traiettoria.
Qualcosa di invisibile afferrò i piedi di Kay spingendolo oltre il recinto. Il bambino approfittò di quel momento di confusione per ricominciare la sua corsa disperata. Il cuore batteva in petto come un tamburo. La paura stava cominciando a dargli alla testa. Se la sentiva leggera, quasi vuota. Stava iniziando a non pensare più. Procedeva per inerzia con sempre quell'unico pensiero in testa che sembrava obbligarlo a non fermarsi.
'VOGLIO VIVERE'.
SPAZIO AUTORE
Ed ecco l'ultimo capitolo di oggi, come va? Spero bene. So che il periodo natalizio o banalmente della fine dell'anno non è esattamente il preferito di chiunque, ma purtroppo dobbiamo stringere i denti fino a gennaio. Dai che ce la possiamo fare.
A presto patati. Buone feste a chi festeggerà e spero di tenervi compagnia ✨
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