12. Anniversario
Almeno voi datemi qualche gioia
La mattina successiva arrivò troppo velocemente. Mi feci una lunga doccia, per infondermi coraggio. Sarebbe stata una giornata emotivamente stancante, ma ce l'avrei fatta. Tutto mi parve più nostalgico mentre mi preparavo. La macchinetta del caffè che avevo da una vita mi ricordava tanti scherzi e pomeriggi allegri, la pianta sul muretto raccontava le prese in giro, il televisore quelle serate stanche sul divano a vedere per la decima volta quella commedia romantica e i vestiti che indossavo lentamente avevano ancora impressi le giornate a fare shopping. Tra lunghi sospiri uscii di casa e mi lasciai tutto alle spalle. Era meglio concentrarsi per qualche ora sull'università.
Arrivata in classe ero pervasa da una strana eccitazione. Mi sedetti al solito posto isolato, cercando di non pensare che da lì a poco avrei dovuto di nuovo parlare con Sam. La cosa positiva era che mi sembrava di essere sempre meno influenzata da lui e più presente a me stessa mentre parlavamo. Speravo che ciò mi avrebbe aiutato a non fare pessime figure. Lui entrò dopo pochi minuti e i miei occhi scattarono verso la porta. Abbassai subito lo sguardo per non essere notata e tornai sul mio cellulare ma nella mia mente non stavo registrando alcuna informazione di ciò che leggevo. Sentivo solo il sangue pompare più in fretta e la gola asciugarsi. Quando fu davanti a me fui costretta ad alzare gli occhi ma non pronunciai alcuna parola. Ero all'altezza del suo addome fasciato da una maglia scura che risaltava i suoi occhi e tutto ciò non mi aiutava a trovare le parole. Fortunatamente durò pochi secondi, perché riuscii a rispondere normalmente al suo buongiorno. Si sedette al mio fianco e mi morsi il labbro per non fare espressioni strane. Era tanto vicino da sentirne il profumo e muovendosi mi sfiorò più volte. Sentii distintamente la mia gola deglutire a vuoto e sperai che lui non l'avesse udita. Decisi allora di prendere quei maledetti appunti, per non restare rigida sulla sedia come una statua. «La lezione di ieri inizia qui» dissi indicandogli il quaderno «mi dispiace è un po' disordinato.. forse sarebbe stato meglio ricopiarli».
«Tranquilla, non serve. Mi mancano solo alcuni punti. Ti dispiace se li fotografo?»
«Ma no certo, fai pure..»
«Grazie» sorrise ed incurvai le labbra leggermente in risposta. Quella vicinanza era strana per me e la cosa peggiore era vedere quanto lui fosse a suo agio e come nulla lo toccasse minimamente. Certo non aveva motivi di essere impacciato come me, eppure la cosa mi innervosiva ugualmente. Mentre faceva le foto mi guardò un attimo con la coda dell'occhio «mi piace la notte» affermò disinvolto. Socchiusi gli occhi. Di che diavolo stava parlando?
«Come scusa?»
«Ho detto che mi piace la notte» confermò «è silenziosa, infonde quiete.. ma è pericolosa se non sai come muoverti in essa».
Niente di ciò che aveva detto per me aveva un senso. Forse sarei riuscita a capirlo se la mia mente non fosse stata svuotata dalla sua presenza. «Continuo a non capire di cosa tu stia parlando» ammisi sorridendo.
«La notte, Leyla..» si girò fissandomi intensamente, con un leggero sorriso beffardo. A quel punto mi illuminai e dalla mia espressione fu evidente, tanto che il suo sorriso si allargò maggiormente. Chiuse il quaderno e me lo passò senza smettere di fissarmi, con la bocca tirata in un sorriso divertito che creava delle piccole fossette. «Grazie.. credo» dissi incerta. Dallo stupore ero passata al dubbio. Credevo si stesse riferendo al significato del mio nome ma non potevo esserne certa. E stava parlando semplicemente della notte o il suo tono allusivo doveva farmi pensare ad altro?
Per fortuna quello strano momento fu interrotto dalla professoressa che, acceso il microfono, iniziò a parlare. Mi voltai verso di lei sperando di capire almeno metà di ciò che dicesse. Se era stato difficile concentrarsi con Sam alle mie spalle, figurarsi averlo accanto a me, tanto vicino da sentirlo respirare.
«Bene ragazzi, oggi vi presento il progetto di cui vi avevo parlato..» iniziò la lezione e la ascoltai distrattamente. Niente di particolarmente interessante. Passò quasi metà lezione a parlare del progetto che ci avrebbe dato dei punti extra all'esame. Avrei dovuto cercare altre persone visto che i gruppi dovevano essere composti da tre persone, ma mettendo il solito annuncio sulla pagina del corso non avrei avuto problemi anche senza conoscere nessuno. Durante la lezione mi assentavo dei momenti per l'ingombrante presenza al mio fianco, in particolare quando mi sfiorava distrattamente. Che idiota. Due giorni prima ero in un club per incontri bdsm, ringraziando il mio Padrone per ogni schiaffo impartito mentre gattonavo dal muro a cui ero stata appena legata fino al letto, adesso invece arrossivo perché il suo pantalone mi carezzava un istante i jeans.
La lezione finì e finalmente recuperai le mie cose. «Leyla pensavo.. io non conosco altri del corso. Potremmo fare il progetto assieme, che ne dici?» la calma con cui me lo chiese non mi fece metabolizzare per un istante che questo avrebbe significato ore passate accanto a lui nelle settimane future. Non avrei potuto sopportare così a lungo il suo sorriso arrogante. Mi serviva una scusa per rifiutare che sul momento era difficile trovare.
«Io.. credo che lo farò con altre persone..»
«Conosci qualcun altro qui?»
«Si.. più o meno. Senti troverò qualcuno» conclusi chiudendo lo zaino frettolosamente.
«Ma sono invisibile per te?» chiese ironico «ti ho detto di farlo assieme, perché cercare altri. Non vedo quale sia il problema».
«Sei arrogante!» esplosi prima di pensare a cosa stessi dicendo. Avevo puntato gli occhi nei suoi e quando vidi il suo stupore e la leggera delusione li abbassai di nuovo «mi dispiace ma.. non credo sia una buona idea».
«Va bene, come vuoi» disse alzandosi «ma ti vedo Leyla, non è la mia arroganza il problema»
«E quale sarebbe?» urlai alla sua schiena quando fece un paio di passi.
Si voltò di nuovo ed il suo viso era totalmente diverso dal solito. Non portava più quella maschera di strafottenza, sembrava quasi affranto e di certo ispirava più fiducia del solito «non puoi aspettarti che gli altri abbiano tutte le risposte. Dovresti fare i conti con te stessa prima». Non seppi rispondere e così se ne andò, lasciandomi come ogni volta con tante domande e nessuna risposta. Mi alzai nervosa e lasciai l'università in fretta. Che poteva saperne di me? E perché insistere a parlarmi? Non ero carina e non ero né affabile né socievole con lui. Soprattutto perché diavolo doveva avere un qualche interesse considerando che aveva già una ragazza. Magari ero solo io a pensare male di chiunque e a lui non interessava altro che un'amicizia, ma conoscendo la sua fama non lo credevo possibile. Forse semplicemente non concepiva che ci sono ragazze a cui lui non interessa. Avevo il mio Padrone, di lui mi fidavo ciecamente. Avevamo costruito un legame e a modo suo non gli importava solo il sesso, a differenza di Sam.
Camminando riuscii a rilassarmi. Sarebbe stato un tragitto lungo e sarebbe stato preferibile prendere il tram ma non avevo fretta. Camminare mi aiutava a pensare, a mettere in ordine le idee. Mi aveva aiutata a far passare il nervosismo ed ora la mia mente era di nuovo altrove. Osservavo il cielo e mi persi in ricordi lontani, in conversazioni banali, nei momenti piacevoli e anche in quelli che avrei preferito scordare. Mancavano appena cinque minuti e mi fermai ad un fioraio su strada. Presi un enorme mazzo di girasoli. Le piacevano tantissimo. La prima volta che gliene presi uno si commosse, dicendomi che era il suo fiore preferito. Lo sapevo in qualche modo, anche se non me lo aveva mai detto. D'altronde era mia madre, la conoscevo meglio di chiunque altro al mondo. Da allora, ad ogni ricorrenza ne prendevo sempre uno per lei, che mi ringraziava con un ampio sorriso. Solo un fiore le faceva brillare gli occhi più di qualsiasi gioiello.
Entrai dai cancelli in ferro nero. Amavo la quiete del cimitero. Il prato colorato, fresco, gli alberi ancora spogli per l'inverno, le lapidi ordinate. Poche di esse avevano dei fiori freschi, altre fiori appassiti, la maggior parte erano vuote. Incontrai solo una signora anziana che mi sorrise e percorsi quelle siepi che ormai conoscevo bene, raggiungendo infine lei. Mi avvicinai con un sorriso amaro. Erano passati esattamente quattro anni da quando mia madre era morta. I passi divennero incerti. La raggiunsi e mi misi seduta davanti la sua foto. Ne avevo scelta una che amava. Era giovane in quello scatto, avvenuto durante una giornata primaverile passata al mare con i suoi amici. Sorrideva, i capelli al vento, la giacca di jeans aperta e gli occhi socchiusi per il sole che brillavano ugualmente, azzurri come i miei. Un nodo alla gola rimase immobile per tutto il tempo che passai lì. Sistemai con sacralità i girasoli, carezzai qualche petalo come fossero le sue dita, poi come ogni volta le lacrime ebbero la meglio. Mi sfogai. Non mi importava più se ci fossero altri nelle vicinanze. In quei momenti la sentivo vicina e la sua mancanza era insostituibile.
Mi ripresi dopo vari minuti, bevvi molto perché come mi diceva sempre se non lo avessi fatto mi sarebbe venuto un gran mal di testa. Seguendo quel consiglio lontano la sentii dentro di me. Le parlai solo per dar voce ai miei pensieri. Non avevo bisogno della sua tomba per raccontarle la mia vita. Lo facevo quando ne avevo voglia, anche sola nel mio letto. In quel momento invece le ricordai dei momenti passati assieme. Le dissi delle volte in cui ci litigavamo il caffè della macchinetta singola «che sciocche, discutevamo tutti i pomeriggi e non ne compravamo mai una più grande. Com'è che dicevi? Questo caffè è perfetto, l'ho fatto io. Tu fatti la macchinetta tua» le feci il verso sorridendo «e ridevamo ogni volta. Mi piaceva scherzare sempre allo stesso modo, sapeva di casa..».
Passai più di un'ora lì seduta. A volte parlavo, altre piangevo. Vi erano interminabili minuti in cui restavo ferma sotto il sole tiepido. Chiudevo gli occhi e mi lasciavo abbracciare dal silenzio come se lei fosse con me. Quando il sole iniziò a calare decisi di andare. Sarei rimasta a lungo in quel prato perché in ogni caso amavo stare all'aria aperta, tuttavia era ora di lasciarla. Mi piaceva farle visita e lo facevo molto più di una volta l'anno, ma l'anniversario della sua morte era in qualche modo il giorno peggiore. Ripensare a quel giorno in ospedale era straziante e il tempo non riusciva a colmare il senso di vuoto che percepii nel momento in cui il suo cuore smise di battere.
Un'ultima volta con il dito percorsi il profilo del suo viso, poi quei petali colorati e soffici. Mi alzai salutandola e andai verso i cancelli del cimitero. Vidi un uomo venire dal lato opposto, distinguevo un lungo cappotto beige e dei capelli arruffati. Non gli prestai molta attenzione finché la distanza non si ridusse ed iniziai ad identificare il suo volto. Non era possibile. Di tutti i posti al mondo proprio lì dovevo incontralo, proprio quando avevo gli occhi gonfi e rossi che ancora bruciavano. Sam si avvicinava lentamente e mi fissava, segno che mi aveva riconosciuta e non potevo ignorarlo. La sua espressione era diversa dal solito e in qualche modo più rilassata.
«Ciao» mi salutò e subito mi accorsi del timbro di voce, anch'esso più grave, forse dovuto alla gola secca come la mia. Ricambiai e gli rivolsi un piccolo sorriso amaro. Restammo immobili qualche secondo, entrambi sorpresi da quello strano incontro. Stranamente fui io la prima a parlare «mi dispiace per stamattina, non volevo dire che fossi arrogante».
La sua lieve risata illuminò la calma del cimitero «e invece volevi dire esattamente quello» si passò una mano tra i capelli sollevando le sopracciglia «hai ragione in fondo, so di esserlo. Ma ho anche dei difetti sai?»
Risi piano scuotendo la testa «stai attento, Narciso è affogato»
Sorrise, poi mi fissò intensamente «ti va un caffè?» chiese ancora con quel sorriso. Ci pensai piantandomi i denti nel labbro inferiore fino a sentirlo bruciare. Era un'idea pessima sotto molti punti di vista ma prima che potessi rifiutare la parole mi uscirono incontrollate «perché no».
«C'è un chiosco qui accanto. Ci sei mai stata?» ci incamminammo verso l'uscita. Non ero abituata a camminare con un ragazzo come lui e mi sentii ancora più piccola di quanto sembrassi. «Si, è ottimo» risposi entusiasta «ci passo spesso».
«Allora è deciso» mi sorrise e, anche volendo, sarebbe stato impossibile resistere e non sorridere a mia volta. Ci scambiammo poche parole mentre prendevamo i caffè e raggiungemmo una panchina in un piccolo parco a pochi passi. L'aria cominciava a raffreddarsi e mi strinsi nel cappotto per resistere al freddo, utilizzando il calore del bicchiere per scaldarmi le mani. Sam invece, come mi aspettavo, non sembrava soffrirne particolarmente e rilassò la schiena sugli assi in legno, nient'affatto teso come lo ero io. Era stranamente silenzioso e mi sforzai di trovare delle parole giuste ma ero ovviamente bloccata. Dopo un paio di minuti fu lui a parlare «senti.. ti dispiace non dire di avermi incontrato al cimitero? Se Violet lo sapesse mi farebbe centinaia di domande. Ho il mal di testa solo al pensiero..» concluse inarcando le sopracciglia.
«Oh..» ne fui leggermente delusa «era per questo il caffè allora» risi nervosamente per spezzare la tensione e Sam si voltò verso di me improvvisamente serio. «No.. no non era affatto per questo. Se non ti fosse chiaro io voglio conoscerti Leyla, dovresti averlo capito».
«Perché?» chiesi di getto «mi spiace deluderti ma non ho intenzione di essere la tua ennesima conquista».
«Lo so..» non aggiunse altro e attesi per un paio di minuti una risposta che non sarebbe mai arrivata.
«Comunque non lo racconterò, non vedo perché dovrei» attesi un istante «Violet è la tua ragazza?»
«Già» rispose con poco entusiasmo, quasi infastidito.
«Perché non vuoi che lo sappia?»
«Non capirebbe..» esitò un istante guardando davanti a sé, poi sollevò gli occhi su di me e li spostò di nuovo in un punto indistinto prima di continuare «direbbe stronzate, come al solito. Ho perso mia sorella quando aveva sette anni, che me ne faccio delle sue parole?». Sembrò arrabbiato ma non capivo verso chi era rivolto tutto quell'odio.
«Mi dispiace. So che sembra una frase fatta ma non è così..» non c'erano parole per adatte per far capire che condividevo la sua sofferenza.
«Lo so, tranquilla. E grazie»
«Io non so come sia possibile stare con qualcuno che non ami..» dissi quasi a me stessa. Mi pentii temendo di averlo offeso ma non sembrò affatto turbato.
«Chi ti dice che non ne sia innamorato». Lo guardai per capire se fosse serio o meno, ma come immaginavo aveva un sorriso divertito. Inarcai le sopracciglia «oh ma andiamo, non serve grande spirito di osservazione per notarlo». Rise portandosi il bicchiere alle labbra «tu non lo credi possibile perché sei troppo innocente»
Non potei trattenere una risata. Io innocente? Se sapesse del club, di Dean e di tutti i giochi perversi che amo fare non direbbe la stessa cosa. Scossi il capo «non lo sono affatto».
Sam non rispose e dopo alcuni minuti finii quella bevanda calda. Il sole era sparito ormai e l'unica luce diffusa nel cielo era un arancione intenso, che lasciava man mano spazio alla notte e al suo blu profondo. Non c'era più motivo di restare su quella panchina. Sam mi spaventava. Avevo paura di quell'eccitazione che mi trasmetteva con un solo sguardo, di quanto fosse irraggiungibile e desiderabile. Il mio unico scudo era l'astio ma in quello strano pomeriggio stava crollando anche quella lieve difesa. Forse aveva ragione, non era l'arroganza il suo problema. Non era quello il motivo per cui avevo cercato di evitarlo con tutta me stessa. «È tardi, è meglio che vada» dissi mentre il cuore riprese a battere veloce. «Ma certo» si alzò e lo seguii andando verso la strada «da che parte vai?».
«Devo prendere il 22, verso la stazione»
«Ti accompagno, è di strada» lo disse con una tale sicurezza che non riuscii a ribattere. Eppure, trovavo strana quella cortesia. Sarei stata più a mio agio da sola che al suo fianco in silenzio. Fortunatamente la strada era breve e con poche parole riuscii a sopravvivere all'imbarazzo. Notai anche che in tutto quel tempo non aveva chiesto del motivo della mia visita al cimitero e gliene fui grata. Eravamo orami quasi in fermata e ripensai all'idea di fare quel progetto con lui. Prima ancora di pensare alle mie parole esse uscirono spontanee «per il progetto di Jansen.. io non posso farlo con te». Si fermò, ormai giunti a destinazione «perché». Lo chiese con fermezza. Non era una domanda, quanto più un ordine a specificarne il motivo, ad approfondire le mie parole, i miei pensieri. «Perché mi divoreresti..» ammisi fissandomi le dita che torturavo freneticamente. Si avvicinò e i suoi piedi invasero il mio campo visivo, così sollevai lo sguardo. Il cuore sembrava volermi uscire dal petto ed esser salito fino alla gola. La sua mano si avvicinò piano e pensai che volesse raggiungere il mio viso. Lo lasciai fare, incantata dai suoi occhi. Invece lo sentii afferrare delicatamente una ciocca dei miei capelli «sì Leyla» disse quasi sottovoce «e non sai quanto ti piacerebbe..». Deglutii a vuoto, paralizzata, con il viso in fiamme. Gli tornò il solito sorriso sfrontato e infine mi lasciò.
Fece un passo indietro e tornai a respirare «da qui te la saprai cavare. A domani piccola» mi fece l'occhiolino e ebbi appena la presenza mentale di mormorare un ciao prima che se ne andasse a passo sicuro. Per alcuni minuti il mondo attorno mi apparve ovattato e gli prestai poca attenzione. Neanche mi accorsi di essere salita sull'autobus. Nella mia mente quella scena si proiettava ancora e ancora, finché non tornai cosciente. Mi ero sbagliata. La mia non era paura e Sam era troppo arrogante. Era quella la verità. Inoltre mi innervosiva ancor di più che senza un minimo di riguardo provasse a infrangere il precario equilibrio della mia vita. Non gli avrei più permesso di creare neanche la più piccola crepa nei miei muri e con il tempo la soggezione provata nei suoi confronti sarebbe passata.
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