Capitolo 15

Arya

Adrian.

Buio.

Adrian.

Buio.

Mani strette sul collo.

Dita aderenti su ogni parte del corpo.

Buio pesto.

Urla nel silenzio.

Paura.

Buio.

Muro.

Respiro mozzato.

Buio.

Terrore.

Buio.

Panico.

Buio.

Dolore.

«Arya, svegliati. Arya» sentii la voce di Noah chiamarmi almeno un centinaio di volte.

Aprii gli occhi di soprassalto, in preda al panico, in un bagno di sudore.

Mi sembrava che ci fosse un terremoto al posto del mio cuore: i battiti erano una scossa fortissima. Il profumo di Noah mi entrò violentemente nelle narici e rimasi ancorata con le mani alle lenzuola.

Noah me le prese delicatamente, forse per paura di essere colpito ancora una volta, e si avvicinò al mio corpo. Mossa sbagliatissima perché andai ancora di più nel panico. «Hai fatto solo un incubo» sussurrò.

No. Nessun incubo. Quella era la realtà che volevo cancellare dalla mia mente per sempre. Ogni tanto quelle immagini tornavano nei sogni. Apparivano all'improvviso, specialmente quando un ragazzo si avvicinava troppo a me.

Noah lo aveva fatto e stava giocando veramente con il fuoco. Prima o poi si sarebbe scottato e io sarei dovuta scappare via per evitare di fargli ulteriore male.

Mi prese il viso tra le sue mani grandi e mi guardò negli occhi che stavano piangendo. In un batter di ciglia mi liberai dalla sua presa e andai verso la finestra.

«Stai...» iniziai con voce tremante, «...Stai lontano per favore.»

Si alzò e venne verso di me, a un metro di distanza. Quel minimo di spazio vitale, del quale avevo bisogno. Quel distacco necessario tra me e le persone. «Non era mia intenzione farti prendere paura... Volevo solo farti vedere che ti ero vicino. Forse era il modo sbagliato, scusami.»

«Non capivo cosa volessi fare» ammisi, dopo essermi calmata un po'.

-

«Aspetta, mi scappa la pipì» mi interrompe Henry. Si alza in fretta e furia e corre in bagno. Dopo un paio di minuti torna in camera sua e si rimette sotto le coperte.

«Posso proseguire?» domando per essere sicuro di non dovermi interrompere per l'ennesima volta.

«Prima ho una domanda: perché non vuole che le persone la tocchino?»

«Non si dice il finale!» esclamo. Gli ho insegnato fin quando era più piccolo che non deve andare a leggere il finale del libro, sarebbe come giudicarlo dalla copertina. Ma la sua curiosità ha sempre la meglio su di lui. «Dovrai aspettare il punto della storia in cui mi racconta tutto.»

«Allora muoviti che sono impaziente.»

-

«Facciamo una cosa... Ora io chiudo gli occhi e tu fai quello che ti dice il cuore. Puoi scappare via o venire da me. Ti va?»

«O-ok...»

Feci come aveva detto: chiuse gli occhi e rimase immobile, in piedi davanti a lui, ancora a un metro di distanza.

Lo osservai per un paio di minuti in modo da lasciare il tempo ai miei battiti di tornare nella norma. Feci un piccolo passo e mi accorsi che non avevo più addosso i miei calzini colorati. Sicuramente me li aveva tolti Noah.

Allungai la mano destra e sfiorai le sue dita, che si mossero leggermente per quel contatto inaspettato. Bloccai il suo indice tra il medio e lo stesso indice della mia mano e gli accarezzai piano il palmo della mano con il pollice. Proseguii con il dito fino al bicipite, seguendo una vena sporgente del suo polso. Gli vennero i brividi e andai avanti fino al collo e mi soffermai su un'arteria pulsante. Mi morsi il labbro per la concentrazione e feci dei piccoli cerchi regolari sulla sua pelle.

Lo vidi stringere i denti e poi socchiudere gli occhi: mi stava osservando di sottecchi, come faceva spesso. «Rimani?» chiese con un volume di voce bassissimo.

Mi alzai leggermente sulle punte dei piedi, perché Noah era leggermente più alto di me e lo abbracciai. «Sì» sussurrai al suo orecchio, che quasi tremò.

Mi cinse per la vita e mi attirò a sé. Mi aggrappai a lui con tutta la forza che avevo in corpo. Era una strana sensazione stare tra le sue braccia: sentivo il respiro corto, la testa martellante e come delle misteriose bollicine nello stomaco.

Non seppi quanto tempo trascorremmo tra le braccia l'uno dell'altra. In quel momento lo lasciai invadere davvero il mio spazio vitale e il mio cuore stava tremando fortissimo. Nessuno era mai riuscito, al di fuori della mia famiglia, a compiere un tale gesto.

«Ora ti senti meglio?» mi chiese, tornando a letto.

Annuii e andai al suo fianco. Alzai le coperte e le sistemai su entrambi.

Charlie, nascosto sotto il lenzuolo, venne verso di me e mi leccò tutta la faccia. Poi passò a Noah, che gli disse di smetterla. Partì di corsa e uscì dalla camera, che era rimasta aperta per sentire Agatha nel caso fosse stata male. Io e Noah ci guardammo a vicenda e scoppiammo a ridere. Nel frattempo Charlie era tornato con la sua pallina colorata e mi toccò con la zampa il braccio in modo da attirare la mia attenzione.

Noah fu più veloce di me: gliela prese dalla bocca e Charlie si mise subito sull'attenti e quando Noah gliela lanciò fuori dalla stanza, corse per andarla a prendere. Noah era stato più furbo di lui e andò subito a chiudere la porta, scivolando quasi per terra a causa dei calzini che indossava.

«Questa volta l'ho fregato prima io!» esclamò e io scoppiai a ridere. «Cosa trovi di così divertente?»

«Nulla» borbottai tra una risata e l'altra.

All'improvviso me lo trovai sopra di me. Il fiato divenne corto e pesante. Il cuore riprese a battere forte.

Noah mi guardò negli occhi. «Proprio sicura?»

«Certo» sussurrai, cercando di trattenere il respiro. «Ma... in questo momento mi sento in gabbia» affermai, sentendo il bisogno del mio spazio vitale crescere nel profondo.

«Scusami» disse, tornando nella sua parte di letto. «A volte mi dimentico... no, anzi, non è che mi dimentico, solo che...»

«Non hai mai avuto a che fare con una persona che ha bisogno di dieci metri di distanza da un'altra.»

«Non volevo dire questo...» cercò di giustificarsi.

«Noah, è tutto a posto. Sono abituata a questo tipo di trattamento, o come vuoi chiamarlo. Sono io che lo cerco» puntualizzai.

«Anche con me lo cerchi?» chiese titubante.

«A volte lo sento necessario, ma altre volte... tu lo invadi senza che me ne renda conto.»

Noah

Era una cosa positiva invadere il suo spazio vitale senza che lei se ne accorgesse? Da un lato sicuramente sì, vista tutta la fatica che mi costava, ma dall'altra parte no. Rischiavo costantemente di essere preso a pugni, forse anche di morire. Anzi, togliamo il forse: io ero perfettamente certo di poter morire a causa di un suo pugno. Scommetto quello che volete, ma lei sapeva benissimo tutti i punti deboli del corpo umano.

La mattina seguente feci un sacco di cose: portai Arya a scuola e poi dovetti correre al lavoro, perché ero in ritardo. Parcheggiai in malo modo, ma andava bene lo stesso. Non avevo tempo per fumare una sigaretta, quindi andai di fretta dentro.

Trovai Jeremy, il mio capo, che stava andando nel suo ufficio e mi fermò. «Hai il camion oggi» mi fece notare, mentre stavo prendendo le chiavi della macchina.

«Giusto, scusami sono un po' agitato questa mattina» mi giustificai.

«L'ho notato anche io ultimamente. Anzi, mi sa che l'hanno notato un po' tutti qui dentro. Ci sono problemi?» Pensai subito ad Arya, ma lei non era un problema. Era il casino più bello in cui mi ero imbattuto nell'ultimo periodo. Scossi la testa. «Magari problemi in famiglia?» indagò.

Nessuno lì dentro sapeva della mia famiglia, nessuno sapeva che mia madre era morta e che mio padre fosse diabetico. Nessuno sapeva nemmeno di Arya, di quanto le piacesse la cioccolata calda con i marshmallow e gli spaghetti alla carbonara, del modo in cui incurvava le labbra per nascondere un sorriso e come brillavano i suoi occhi quando parlava della sua famiglia.

«Nulla di simile. Sono solo un po' nervoso, perché... in ambulanza in alcune situazioni non si riesce sempre a salvare delle vite...»

Jeremy comprese il mio dolore e mi disse una cosa importante prima di andare nel suo ufficio: «i brutti periodi capitano a tutti, ma si superano tutti quanti. Ricordati che la vita privata è una cosa e il lavoro un'altra. Ci sono precise politiche aziendali in questa autoscuola.»

«Lo so. Mi passerà, stai tranquillo. Ora vado, altrimenti il tipo lì fuori parte senza di me.»

«Buon lavoro» disse in tono leggermente severo.

Feci un sorriso molto falso e uscii. Il telefono nella mia tasca iniziò a suonare. Chi sarà mai stato a quest'ora della mattina? Arrivai al camion e dissi all'uomo con cui avevo la guida di prepararsi. Gli porsi le chiavi e risposi. «Ciao, papà. Tutto apposto? Perché mi chiami a quest'ora?»

«Lo sai che al lunedì c'è il mercato, quindi mi sveglio presto. Volevo sapere se potevo passare da casa tua per prendere Charlie, così mi faceva compagnia anche al mercato.»

«Ma tu ti senti bene? Sei sicuro di volerci andare? L'ultima volta che ci sei andato mi hanno chiamato dall'ospedale, vorrei ricordarti, perché non ti sei fatto l'iniezione di insulina» puntualizzai.

Mio padre era quel tipo di persona in pensione che doveva fare più di quello che faceva da giovane e non voleva nemmeno l'aiuto degli altri. Era come se per lui non esistesse il diabete. Era solo una voce di corridoio che gli entrava in un orecchio e usciva dall'altra, ma era una questione da non prendere alla leggera.

«L'ho fatta un quarto d'ora fa, ora sei più contento?» chiese sarcastico.

«Papà, guarda che lo dico per te. Non sono io quello che sta male se non la prende regolarmente» precisai ancora una volta.

«Posso o no andare a prendere Charlie?» cambiò discorso.

«No, oggi è meglio di no.» Si sarebbe trovato la sorella di Arya sul divano di casa mia e non avevo alcuna voglia di dare delle spiegazioni a lui.

«Perché?»

«Te l'ho già detto: oggi è meglio di no» scandii per bene le parole. «Perché non inviti il tuo amico e giocate un po' a carte al posto di andare al mercato?» proposi un'altra attività.

«Buona idea!» Sospirai e ringraziai il cielo per non avermi creato un ulteriore problema. «Uno di questi giorni vieni a cena da me?»

«Certo, papà» lo rassicurai.

*

«Per te minestrina» dissi ad Agatha, mentre tiravo fuori un pentolino per scaldare il brodo.

«Allora... hai scoperto qualcosa in più su mia sorella?» iniziò a indagare.

«Questa notte mi sono beccato una gomitata sui denti e mi sono pure morso il labbro. Sarà di nuovo gonfio» sbuffai.

«Di nuovo? Quindi te le sei già prese da Arya. Quante volte?»

«È la seconda volta» ammisi. Spalancò la bocca e mi guardò come se avesse visto un fantasma. «Sì, insomma... non lo faccio apposta» cercai di giustificarmi.

«Solo due volte? Mi prendi in giro, spero?» domandò tutto d'un fiato.

Solo?

«Non riesco a seguire il tuo ragionamento.»

All'improvviso la vidi chiudere gli occhi e cadere in avanti. Feci giusto in tempo ad afferrarla da sotto le braccia prima che cadesse a terra. «Agatha rimani cosciente. Ascolta la mia voce e concentrati su quella. Mi senti?»

«S-sì...» sospirò con il fiato corto.

«Ti gira la testa? Non parlare, fai un cenno.» Annuì. «Ora ti dò una mano a sederti, però se non ti reggi ti porto sul divano, ok?» Annuì ancora una volta.

«Ora mi sento meglio» disse, dopo aver bevuto un bicchiere pieno d'acqua e uno con il succo in modo da assumere degli zuccheri.

«Prendi anche questa caramella, così le tue forze cominciano a stabilizzarsi di più.»

«Non ti ho risposto, scusami» sospirò affranta.

«Stavi male, non credo che sia il momento di parlare del numero delle volte che Arya mi ha preso a pugni» specificai.

«Rappresenti tutto ciò che le fa più paura» sussurrò prima di portarsi la caramella alle labbra.

Cosa voleva dire?

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