Capitolo 11
Arya
Bella andò a fare la sua pausa con Mason e io continuai da sola il lavoro al bar per un quarto d'ora. Fortunatamente quella sera non c'erano troppe persone, quindi riuscivo benissimo a cavarmela.
Due ragazzi se n'erano andati da poco e decisi di andare a pulire il loro tavolo. Afferrai una spugna dal lavandino, la bagnai e dopo averla strizzata mi diressi al tavolo con un vassoio. Presi i due calici di vino bianco che avevano lasciato sul tavolo e passai la spugna sulla superficie per pulirla.
Noah arrivò da dietro e quando mi girai rischiai di far andare in frantumi anche quei bicchieri. Prese in mano il vassoio prima che cadesse con tutto ciò che c'era sopra e sussurrò qualcosa a pochi centimetri di distanza dal mio viso. «Te li porto io, Principessa.»
Non feci nemmeno in tempo a obiettare che li aveva già portati sul bancone del bar. Lo seguii e finché li sistemavo nella lavastoviglie lo osservai di sottecchi. Quella sera era proprio carino: indossava una felpa nera con una stampa rossa al centro e aveva uno splendido cappuccio che gli cadeva sulle spalle. Sotto quella fantastica felpa c'era una piccola collana in oro, supposi, ed era veramente graziosa.
Basta guardarlo, mi imposi, non va bene per te per questo ragazzo.
«Indossi ancora la mia felpa» disse tutto d'un tratto e presi paura. La sua voce risultava ferma, ma era anche armoniosa nello scandire quelle parole.
«Come?» feci finta di non aver sentito. In realtà avevo capito benissimo, solo che non potevo ammettere che quella era la sua felpa. Come avrei potuto giustificare quel fatto?
«Non fare finta di niente, lo so che mi hai sentito» affermò, molto convinto del livello del mio udito.
Alzai la testa e lo guardai meglio. Quegli occhi color ceruleo erano così attraenti che spalancai leggermente la bocca per ricordarmi di respirare. «Era l'unica felpa disponibile... Non ho fatto la lavatrice in questi giorni» mi giustificai. Lo sapevo benissimo che non era una scusa credibile, ma ci provai comunque. Non potevo di certo andare a dirgli che la mettevo perché mi faceva stare tranquilla.
«Non volevo una giustificazione» ammise. E allora cosa vuole? «Ti sta bene però...» lasciò la frase in sospeso, senza distogliere lo sguardo dal mio.
«G-grazie...» balbettai, finendo di mettere gli ultimi bicchieri nella lavastoviglie.
«Puoi tenerla se vuoi» concluse, abbozzando un sorriso spontaneo sulle labbra.
«Tenere che cosa?» proruppe Bella, rientrando.
Ma deve sempre arrivare nei momenti così? Non so se ringraziarla per avermi tolto da questa conversazione imbarazzante o se tirarle dietro qualcosa perché Noah mi ha appena fatto un complimento sincero.
«La bottiglia di birra» si affrettò a dire Noah.
«Non la finisci neanche?» chiese Mason, tirandogli una pacca sulla spalla.
«Lo sai che poi devo guidare. Solo tu bevi più del necessario e a differenza tua io ci tengo ancora alla mia vita, fino a prova contraria.»
«Sei sempre il solito» lo rimproverò l'amico.
«Arya, se vuoi puoi andare. Il tuo turno è già finito da un'ora» disse Bella rivolgendosi a me dopo aver lasciato finalmente perdere Noah.
«Oh... É già passata l'una?»
«Eh sì. Chiudo io visto che il capo oggi non c'è.»
«Sicura di non volere una mano?» chiesi per essere sicura. Non volevo andarmene sapendo che le serviva aiuto.
«Sì, guarda: ormai sono rimasti solo questi due idioti...»
«Grazie» affermò Mason sarcastico.
«E quelle tre ragazze al tavolo numero cinque», le indicò.
«D'accordo, allora ci vediamo sabato prossimo.»
La salutai dandole un bacio sulla guancia altrimenti si sarebbe arrabbiata con me e andai a prendere le mie cose nel retro.
«Ragazzi, mi sa che vado anche io» sentii in lontananza la voce di Noah.
*
Uscii dal locale sul retro e dopo aver acceso il telefono provai a richiamare Agatha per la millesima volta. Scattò nuovamente la segreteria telefonica e decisi di lasciarle un messaggio nella speranza che lo ascoltasse. «Sono Arya... Quando torni a casa? La mamma è davvero preoccupata per te... e anche io, visto che questa volta non rispondi al telefono da giorni.»
«Ci sono problemi?» domandò Noah cogliendomi di sorpresa. Mi girai di scatto e lo osservai con la mano tremante per la paura che mi aveva fatto prendere. «Scusami... Non era mia intenzione farti prendere paura.»
«F-fa lo stesso» balbettai con voce farfugliante.
«Per chi sei preoccupata?» chiese ancora.
«Facciamo una cosa: tu mi accompagni a casa e io ti racconto chi sto cercando» tentai di scendere a un compromesso.
«Affare fatto!» esclamò. «Principessa» aggiunse poi con un piccolo sorriso sulle labbra.
Salii in macchina al suo fianco e partimmo. «Mia sorella non torna a casa da tre giorni...» trovai il coraggio di dire, visto che stava andando appositamente a una velocità molto lenta. «È già successo in passato?» tentò a chiedere.
«Sì, ma è sempre stato per un paio di giorni. Questa volta il suo telefono è sempre spento e io mi sto preoccupando veramente. Non è da lei sparire in questo modo» spiegai.
«Ok, allora riprova, richiamala adesso.»
«L'ho fatto neanche cinque minuti fa e la situazione non è cambiata: non risponde alle chiamate e non riceve nemmeno i messaggi. Gliene avrò lasciati una decina in segreteria, più di così non so proprio cosa fare» sbuffai, mettendomi le mani sulla pancia e in una posizione più comoda. «Io non so cosa le sia preso a questa ragazza, fatto sta che ora dovrei o trovare una scusa con mia madre oppure dirle che potrebbe essere scomparsa.»
«Vedrai che tornerà presto. Magari si è fatta solo un viaggio con il suo ragazzo» cercò di distrarmi, ma senza grandi successi.
«Agatha non ha un fidanzato, almeno per quel che ne so io...»
Seguì un momento di silenzio tombale e poi Noah spezzò il silenzio. «Posso chiederti una paio di cose riguardo tua sorella?»
«Sì, ma non ti assicuro che le mie risposte siano vere, ormai non la riconosco più.»
«Si chiama Agatha Wilson, giusto?»
«Be', fino a prova contraria è mia sorella, quindi sì.»
Risi, ma lui non contraccambiò. «Ha ventidue anni?»
«Sì... Come fai a saperlo?» domandai con il cuore in gola.
Come poteva sapere l'età di mia sorella? Era per caso uno stalker? Io mi trovavo nella macchina di uno stalker!
Mi guardai attorno: le strade erano buie perché in quella zona non c'erano lampioni, sul lato della carreggiata si trovava un piccolo bosco che però non ero mai andata ad esplorare e infine non c'era anima viva. Quella era la cosa più preoccupante tra tutte quelle elencate.
La mia mano iniziò a tremare perché la mia testa capì che Noah poteva essere veramente un malintenzionato e chissà cosa avrebbe potuto farmi in quel momento. Pregai Dio in silenzio di aiutarmi dal profondo del mio cuore, non volevo trovarmi una seconda volta in quella situazione.
«Lasciami finire, poi te lo spiego. Ho bisogno che mi dici altre cose. Il suo compleanno è il tredici gennaio?» Annuì e nel frattempo smisi di respirare. «Ha gli occhi marroni e i capelli castani, alta circa un metro e settantacinque?»
«S-sì...» sussurrai con la paura nelle vene. Lui sapeva ogni singolo dettaglio di mia sorella, cosa le aveva fatto?
«E l'ultima volta che l'hai vista ti ricordi se indossava un vestito corto e anche scollato, blu con delle paillettes luccicose; dei tacchi neri, non so bene distinguere queste cose da donne, ma credo si chiamino tacchi a spillo; un braccialetto azzurro e mi sembra anche un piccolo tatuaggio a forma di cuore sul polso?»
«È mia sorella...» ammisi con le lacrime che mi rigavano gli occhi. «Cosa ne hai fatto di lei, brutto bastardo?» Lo afferrai per il colletto perché in quel momento la collera aveva preso il sopravvento.
Noah inchiodò in mezzo alla strada e io gli tirai uno schiaffo in pieno viso. Aprii violentemente la portiera e scesi per rimanere a una certa distanza di sicurezza da lui. Uscii anche lui dopo un secondo, giusto in tempo per girarmi e vederlo che si avvicinava alla mia figura. Mi afferrò per le braccia e cercò di immobilizzarmi. Mi divincolai meglio che potessi e infine gli tirai un calcio nelle parti basse. Approfittai di quella mia mossa per sganciargli anche una gomitata sul mento e poi gli presi il braccio destro. Glielo piegai dietro alla schiena e premetti su un nervo vicino alla clavicola.
«Che cazzo ti prende? Voglio solo aiutarti» riuscì a dire. La sua voce era segnata dal dolore e ne fui contenta.
«E come? Ammazzando mia sorella?» ribattei, stringendo la presa sulla sua spalla.
«Io non ho ammazzato nessuno» tentò di farmi credere.
«Certo e io so volare» affermai sarcastica. «Dove hai portato mia sorella?» chiesi nuovamente e non avevo intenzione di ripeterlo ancora.
«Io le ho salvato la vita.»
Il mondo crollò.
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