Capitolo 7

Per il suo dodicesimo compleanno, Tracy si era fatta regalare una spada. Aveva insistito tanto affinché i suoi nonni cedessero, rifiutando ogni oggetto di plastica, legno o gommapiuma. No, lei aveva preteso una vera spada, concedendo solo che fosse priva di filo. Da quel momento, non priva di difficoltà iniziali, aveva iniziato a tenerla in mano. A sentire il suo peso, come inclinare il suo corpo e quanta forza dosare nelle sue braccia, a percepire come l'elsa incontrasse la sua mano, come crescendo la sua presa cambiasse, mese dopo mese. Raggiunti i sedici anni, era frequente trovarla sola in camera sua, con la spada in mano, mentre la faceva roteare, solo per vederla tagliare l'aria, per muoversi e spostare l'equilibrio nel suo bacino, a seconda della direzione che voleva darle.

Si sentiva potente, invincibile, pronta ad affrontare ogni cosa. Era una piccola e semplice routine, in grado di centrarla, di livellare ogni evento della sua vita, di farla sentire lì, nel momento presente come nessun altro. Era lei la protagonista della sua vita e solo lei avrebbe potuto decidere cosa farne.

Ormai era passato qualche anno da quanto aveva lasciato la sua casa, da quando aveva usato la sua spada, e aveva imparato che tutto il potere che sentiva non era così reale: non aveva un vero e proprio controllo onnipotente, ma la scelta era sempre nelle sue mani, se cedere o combattere. Almeno fino a quando la sua mente fosse rimasta sua e non le fosse ritorta contro. 

Pensava di aver dovuto ormai limitarsi a introiettare il metodo, di non aver più la possibilità di tornare nella sua stanza, di muoversi liberamente, di lasciare che il suo corpo seguisse l'andamento della lama, di non poter più provare nulla di simile, se non nei suoi ricordi. Poi le misero in mano una pistola e tutto tornò. In modo diverso, totalmente diverso: la pressione sul suo palmo, le movenze, le possibilità, ma la sensazione di stare nel momento presente, di poter agire e avere un peso nel suo mondo, era sempre quella.

Uscì dalla doccia e prese l'arma, lasciata sul lavandino. Era scarica, i bozzoli al sicuro in una scatolina di metallo in valigia. Le gocce ancora cariche d'acqua scorrevano veloci sul suo corpo, infrangendosi sull'asciugamano e sulle mattonelle del pavimento. Il suo riflesso era distorto dal vapore, permettendo di intravedere solo una macchia chiara. Ma nulla di ciò le importava.

Impugnò la pistola, una Glock 39, accarezzando la canna con due dita, lasciando delle scie bagnate. Portò il foro alla sua tempia, lasciando che l'indice giocasse col grilletto, imprimendo una leggera pressione, mai sufficiente a premerlo. Chiuse gli occhi, lasciando che l'adrenalina invadesse il suo corpo. Sapeva di essere al sicuro, di non star rischiando nulla, eppure il solo gesto, il suo essere potenzialmente vulnerabile, le regalava una sensazione pari alla più assuefacente delle droghe. Molto vicina all'orgasmo.

Rilassò il suo corpo, lasciando andare ogni tensione, e con esse il braccio alzato. Riaprì gli occhi, sospirando. Quella sera non avrebbe potuto portare con sé alcun'arma.

Ripose la pistola nello stesso punto in cui l'aveva abbandonata prima di entrare in doccia, per avvicinarsi allo specchio attaccato alla parete, rabbrividendo per il contatto della sua pancia nuda contro il bordo in ceramica del lavandino. Appoggiò una mano sull'estremità inferiore, contorcendo il suo torso, disegnando un arco nel vapore condensato, incrociando gli occhi castani del suo riflesso. Gli stessi occhi che avrebbe incrociato il loro obiettivo.

Sarebbero stati egualmente determinati, in quell'occasione?

«Viv, non fare cazzate» intimò Darrell, al sedile del guidatore, mentre si allacciava il papillon nero, in contrasto con l'abito grigio chiaro che indossava per metà, avendo abbandonato la giacca sui sedili posteriori. Stava sfruttando una via scarsamente illuminata, e priva di telecamere, per cambiarsi dagli abiti meno formali con cui era uscito dall'albergo. Chip ne aveva approfittato invece per cambiare targa alla macchina, rimuovendo gli adesivi che gli aveva fatto applicare al noleggio. Gab aveva ragione a dargli del paranoico. Seppur nel mondo moderno, fra telecamere e quant'altro, non si poteva mai essere toppo prudenti.

«Non ho detto che tu non sia capace, ti ho solo detto di non fare cazzate» ripeté, aprendo lo sportello all'altro.

«Lo so che tu sei il grande esperto de sta ceppa, ma so anche che tu non sei qui, in questo momento, e che se avremo bisogno, un modo per farmi trovare pronta, senza insospettire nessuno, ci serve» replicò stizzita la donna, accentuata dagli altoparlanti dell'auto. Il suo capo sembrò voler sbattere il capo sul clacson, ripetutamente.

«Fai come credi, ma preferirei che non si ricordassero di te» disse invece, mettendo in moto.

«Caro, per prima cosa sono cinese, sono sicura che nemmeno tu riusciresti a distinguermi» lo fece ridere, «e punto secondo, con la parrucca che indosso e il trucco, non mi riconoscerebbe nemmeno mia madre».

«Ti ringrazio per avermi sottilmente dato del razzista, mi hai ricordato il tuo socio» scosse il capo, sotto lo sguardo critico del suo sottoposto, che ancora non era riuscito a inquadrarlo. Preferiva il suo istruttore: lui sapeva come rigirarlo.

«Non terrorizzare le reclute, ricordati che siamo professionisti. Ora devo chiudere che sta finendo la pausa, tra un'oretta dovrebbero iniziare ad arrivare gli ospiti» lo avvisò.

Il suo capo si passò una mano sul volto, appena prima di svoltare a destra.

«Sei pronto, Chip?» gli chiese, indicando con un cenno della testa verso la borsa del computer che teneva sulle gambe. Al posto di annuire, si tirò su il cappuccio della felpa.

«Robontropolis partirà dal suo albergo fra più di un'ora, abbiamo le dimensioni esatte della valigetta che porterà con sé e una riproduzione fedele della stessa» elencò, «Quando si accorgeranno della sostituzione, nel caso sia quello che temiamo, sarà troppo tardi» finì di ricordargli il piano. Non era sicuro del perché lo avesse fatto, per una ragione pratica, in quanto repetita iuvant, o per una ragione morale, come ancorare l'altro e riportarlo a uno stato di calma. O in qualunque stato si trovasse normalmente in missione.

«Ottimo, riguardo alle registrazioni che ci ha portato Gab?».

«Come ti ho già ripetuto, se ieri ne ha parlato col figlio, hanno usato un codice. Ma senza riferimenti, non posso estrapolare nulla» spiegò, deluso dal suo evidente insuccesso. I codici erano la sua vita, che fossero matematici, stringhe informatiche o analisi del comportamento verbale. Se avesse avuto una base, come sapere per quale motivo Robontropolis fosse ritenuto un target, avrebbe potuto fare di più. Ma l'Agenzia lo teneva più segreto dei codici missilistici, cosa di cui poteva essere certo come ultima persona ad averli rubati.

«Ottimo. Ottimo» fu il suo ultimo commento. Rimase in silenzio per il resto del viaggio, mentre la città di Cleveland scorreva sui finestrini. Nonostante il giudizio negativo dei suoi colleghi, a Chip non dispiaceva. Fosse stato un turista, sarebbe sicuramente corso alla Rock 'n Roll Hall of Fame o chiuso per ore all'interno dell'acquario. Gli piaceva osservare la fauna marina da una posizione sicura, dietro uno schermo. Come adorava osservare anche il resto del mondo.

Raccolse il terzo calice abbandonato della serata, conscia che a fine della serata sarebbero stati troppi per poterli contare. Li portò velocemente nella saletta adibita al lavaggio: un ripostiglio in cui avevano incastrato due lavastoviglie e un tavolino dove appoggiare i bicchieri ad asciugare. Da un lato apprezzava l'impegno a non utilizzare della plastica, dall'altro detestava la sfrontatezza dell'utilizzare il cristallo. Così delicato e frangibile, inutilmente scintillante.

Viv aveva un nuovo rispetto per i camerieri di professione.

«Non fai questo lavoro da molto tempo, vero?» le chiesero, appena mise nuovamente piede nella sala principale. Si voltò, trovando la sua responsabile avvolta da un lungo abito senza maniche verde smeraldo, come le pietre dei suoi accessori, aderente sul busto e morbido sui fianchi. I capelli scuri le ricadevano sulle spalle, contornandole il viso appena evidenziato dal trucco.

«Beccata» sorrise, «Cosa mi ha tradito?».

«Di preciso? Non ne sono sicura» si spostò i capelli, dando segno di star ponderando la risposta e mettendo in mostra allo stesso tempo la pelle scoperta del collo. «Ma ho come la sensazione che, se per caso ti dovessi proporre una pausa, non esiteresti ad accettare».

«Proposta allettante, meglio non farti sentire della responsabile: ho sentito dire che sia una donna molto severa».

«Dovrò quindi passare questa pausa da sola» il tono dispiaciuto fu tradito da uno sguardo carico di passione, che voleva trasmetterle le chiare intenzioni che la donna aveva in mente.

Si morse il labbro inferiore, lasciando che i suoi occhi scorressero nuovamente sulla figura dell'altra, lentamente.

«Sarebbe criminale permettertelo» le sussurrò infine, alzando il mento. Rebecka le si avvicinò, solleticandole un braccio con le dita, fino a risalire, sfiorando il suo collo. Dovette contrarre i muscoli della schiena, per non rabbrividire. Era brava, dovette concederglielo.

«Prendi le scale, ufficio zero-uno-sei» appoggiò le sue labbra all'orecchio, dove rimase il fantasma della sensazione di calore del suo respiro. Un mero assaggio.

La donna si riunì agli altri invitati, presto sparendo dalla sua visuale.

Dovette prendersi un momento, in parte per concedere al suo corpo di tornare a uno stato di quiete, in parte per evitare che si riattivasse, a causa dei pensieri tutt'altro che casti che l'altra aveva lasciato, oltre l'impronta che le aveva lasciato addosso.

Missione. Sei in missione. E sei sposata. Sposata. Si ripeté, in una litania continua.

Quando ebbe riacquisito una chiarezza sufficiente, da non doversi a schiaffeggiare per poter camminare senza urtare nessuno, si mosse dalla posizione in cui era rimasta immobile, ancorata, per qualche minuto, e prese tempo. Afferrò il primo vassoio disponibile e fece il giro degli invitati, cercando con lo sguardo l'organizzatore, il loro obiettivo.

Era al centro della sala, vestito di verde, il colore scelto per il tema della festa: l'ambiente. Rideva, mostrando una fila di denti bianchi, così candidi da risultare innaturali. Era pienamente a suo agio, eppure stava guardandosi anche lui in torno, come se stesse aspettando qualcuno.

«È partito» le comunicò Gab, passandole dietro. Non si girò o reagì in alcun modo, continuando a servire tartine. Con la coda dell'occhio monitorava però il suo collega, mentre si presentava e stingeva la mano all'uomo. Sicuramente aveva un piano per scappare senza lasciare tracce, ma un supporto non avrebbe guastato.

Appoggiò il cibo su un tavolino nascosto da un tramezzo e, avanzando con confidenza, si diresse verso le scale. Nessuno la fermò, nessuno la notò. Salì le scale lentamente, considerando i rischi. Aveva passato un tempo sufficiente nella testa dell'altra donna da sapere che non si trattasse di una trappola, ma di puro e semplice desiderio. Qualcosa che sarebbe finito lì, se lei non lo avesse stuzzicato. Qualcosa che aveva solo contribuito alla sua autostima. Qualcosa che non adorava sfruttare, ma che avrebbe fatto comunque, perché quella era la vita che aveva scelto.

Spinse il maniglione antipanico della porta che l'avrebbe condotta al terzo piano, avanzando lungo il corridoio, delimitato da due file di stanze dai muri in cartongesso e le porte in vetro oscurato, fino alla sua destinazione. Contò fino a dieci e poi entrò.

«Sapevo non avresti tardato». 


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