Capitolo 6
Gli appostamenti erano quanto di più noioso ci potesse essere. Ore e ore nella stessa posizione, che fosse seduta, sdraiata o eretta, a osservare i movimenti di qualcuno. Almeno in quell'occasione aveva del caffè.
Avvicinò la tazza alle labbra, mentre aggiungeva un dettaglio al suo alibi. Fissare un palazzo da una postazione così aperta e vulnerabile non era l'ideale, ma altro non poteva fare, non in quell'occasione, oltre fingersi un dipendente ed entrare fisicamente negli uffici del suo obiettivo. Lo aveva ponderato, per qualche secondo, per poi scartarlo immediatamente: non aveva il tempo di clonare un badge e sostituirsi a qualcuno richiedeva troppe complicazioni per una missione in singolo, solo di osservazione. L'artista fallito invece richiedeva molto meno impegno e risorse.
Era qualcosa che teneva nascosto a tutti – tranne a Viv, ma poter entrare nei pensieri altrui era vincere facile –, il suo talento nel disegno. Non perché se ne vergognasse, anzi, era una abilità che sin da piccolo adorava esercitare per regalare dei brevi sorrisi ai suoi affetti più cari. Suo padre ne era sempre stato particolarmente orgoglioso: spesso, quando tornava a casa dopo una giornata di lavoro e non era troppo stanco, si sedeva con lui, disponevano tutti i suoi disegni per la stanza, attaccandoli alle pareti, e si fingeva un critico d'arte. Poi si trasferirono e l'incidente cambiò il loro rapporto per sempre.
Da quel momento aveva preferito tenerlo nascosto, una sorta di scaramanzia. Non avrebbe sopportato di vedere negli stessi occhi felici ed entusiasti per qualcosa che lui aveva fatto, qualcosa che lui aveva regalato loro, la confusione che aveva visto in quelli di suo padre, quando si era svegliato e aveva chiesto chi fossero quei due bambini. Poi erano arrivati Darrell, e la sua completa mancanza di immaginare un luogo come accogliente, oltre che pratico, e quella novellina di Tracy, con la sua mania per l'impressionismo e il surrealismo, e le sue stampe del Circo di Signac e della Zattera della Medusa. Che aveva studiato arte e si era ritrovata con una mano tremula, che le rovinava ogni linea e non riusciva quindi a rappresentare ciò che voleva, se non tramite tratti veloci e confusi, come se stesse riproducendo gli Stati d'animo di Boccioni.
Era già consapevole che quello schizzo gliel'avrebbe fatto trovare in ufficio, ancor prima di posare la matita sul foglio. Era una testa di cazzo, non esisteva termine migliore per definirlo, una grandissima testa, eppure conviveva con un animo romantico e gentile. Come le due cose stessero assieme non lo sapeva nemmeno lui.
Qualcosa gracchiò nel suo orecchio, portandolo d'istinto a controllare la finestra dal quale proveniva, notando il suo obiettivo entrare, seguito da una seconda figura. Non era sufficientemente vicino da riconoscere i lineamenti, tuttavia distingueva gli abiti: due completi che nessuno con uno stipendio al di sotto dei quattro zeri mensili si poteva permettere per tutti i giorni. Le voci rilevate dalla cimice avevano fatto il resto. A volte era davvero comodo avere un piccolo nerd in squadra.
Se Vivianne avesse dovuto scommettere sull'andamento della missione, avrebbe puntato sul fatto che Gab si stesse lamentando del suo ruolo e Chip si stesse invece divertendo a spese della sanità mentale della povera Tracy. Ma vincere una scommessa simile sarebbe stato come sparare sulla Croce Rossa, e quindi aveva deciso di non investire i suoi soldi in un guadagno sicuro. Anche se avrebbe dovuto iniziare a pensare a un fondo da lasciare a Nene nel caso di una sua prematura dipartita.
«Il trucco è investire nei mercati giusti» le suggerì prontamente il suo nuovo consulente finanziario, la cui serietà diminuiva con l'accorciarsi della canna che stava fumando.
«Intendi quelli emergenti?» chiese Dolly, una lentigginosa ventenne con ancora molti colpi da prendere dalla vita. Si era allentata il colletto della divisa bianca in dotazione, seduta a gambe incrociate, con la schiena sulla parete eterna dell'edificio. Li guardava dal basso, con due grandi occhi color miele. Era tentata di portarsela a casa, se avesse avuto qualche anno in meno, l'avrebbe adottata all'istante e consegnata a sua moglie per circondarla di pluriball, affinché fosse protetta da ogni imprevisto della vita. Ma lei non aveva ancora raggiunto i trent'anni e Nene aveva già messo gli occhi su un cucciolo di husky, quindi avrebbe dovuto rinunciare all'impresa.
«Esattamente, sapevo che fossi una ragazza sveglia» continuò lui, tale Arnie, pelato per scelta, nonostante la tinta azzurra sui pochi residui di capelli rimasti raccontasse ben altra storia. A suo dire venticinquenne, e li dimostrava. Per gamba, era solita aggiungere sua nonna, saggia donna.
«Nuovi mercati come il poker?» intervenne, alzando un angolo della bocca allo sguardo contrariato del collega della sua identità.
«Online, poker online» la corresse, offeso.
«La pausa è finita!» la voce della loro responsabile lo salvò da una risposta tagliente. Sebbene preferisse le donne in grado di emanare rispetto e paura da ogni poro, aveva un debole materno per le ragazzine naïve e ingenue come Dolly. Che si chiamasse come il suo mito era solo un dettaglio a suo favore.
Rientrò per prima, aggiungendosi alla riga formata dagli altri dipendenti, saggiamente recatisi alla macchinetta del caffè nel ripostiglio, sacrificando una boccata d'aria in favore di qualcosa di più utile. Si trovavano a una estremità della sala che avrebbe ospitato la festa, un ampio open space, interrotto unicamente da colonne, che sembravano formate da sfere impilate, e occasionali tramezzi.
Al momento la stanza era vuota, dando l'impressione che il bianco li imprigionasse al loro interno, come sospesi nel nulla. Non fosse stato per la porta finestra alle sue spalle, con vista sul piccolo parco che chiamavano giardino, sarebbe stata un'esperienza alienante, se non onirica. I quadri sarebbero arrivati quella sera, mentre nel pomeriggio avrebbero allestito le stazioni per il cibo e la piattaforma per gli archi.
Quella mattina loro avrebbero invece dovuto imparare come muoversi per l'edificio, le vie di fuga in caso d'incendio, dove si sarebbero dovuti cambiare e, per concludere, subire un controllo individuale, nel quale avrebbero alla fine dovuto firmare un foglio che li impegnava a non rivelare quali opere sarebbero state esposte e chi le aveva comprate. Ci tenevano alla privacy degli invitati. E a ostacolare il fisco, nel caso qualcuno avesse dichiarato un bilancio fasullo e poi avesse comprato qualcosa che non si sarebbe potuto permettere.
«Taube» la chiamò la responsabile, Rebecka Longdon, una donna sulla quarantina, con dei ricci capelli scuri raccolti in uno chignon disordinatamente studiato, dalla carnagione di una tonalità più scura della sua, seppur i tratti fossero mediterranei e per nulla orientali. «Tu ti occuperai delle bollicine, voglio che tutti abbiano sempre un bicchiere in mano. Qui vogliamo solo gente spensierata, alleggerita dalle sue responsabilità» spiegò, con un tono allegro, seppur non rispecchiato dalla sua espressione. Che li volessero spensierati, in modo da far alzare le offerte, era sottointeso. Come molte cose, del resto.
Annuì, dando segno di aver compreso, mentre la donna passava al prossimo della fila.
Guardò ancora la stanza, pensando a una scusa decente per farsi trovare ai piani superiori, nel caso di bisogno, tornando alla sua solita conclusione: non aveva idee. L'unica sarebbe stata sgusciare via dalle scale antincendio, ma per farlo avrebbe dovuto trovare qualcuno in grado di coprirla e Dolly non le sembrava la persona adatta. Gli altri erano già in gruppo o restii a fare amicizia, o conversazione; quindi, la sua unica alternativa era Arnie e... Avrebbe dovuto trovare altro.
Trascorse il resto della giornata a spostare tavolini in alluminio, posizionandoli secondo uno schema preciso. Fu piegandosi a raccogliere un tovagliolo caduto che un'illuminazione la colse. Nello specifico una veloce immagine del suo corpo in una posizione simile, ma in un contesto completamente diverso. Trattene un sorriso soddisfatto, chiedendo mentalmente perdono alla sua Nene, prima di voltarsi e catturare lo sguardo della Longdon. Le fece un occhiolino, continuando a fissarla negli occhi, mentre si rialzava e si dirigeva verso le scale che conducevano al piano sottostante. Solo a quel punto si voltò, per assicurarsi di non cadere, ma con la testa era ancora ancorata alla donna. Aveva una via d'accesso ai piani superiori.
Darrell lasciò che la gravità guidasse il suo corpo sul materasso, lo stesso occupato da Gab il giorno precedente. Essendo le figure di supporto esterno, lui e Chip erano rimasti nella stanza tutto il giorno, mentre gli altri tre si erano recati in altri alberghi, in modo da ridurre al minimo le connessioni.
Chiuse gli occhi, percependo subito una fastidiosa sensazione di bruciore, causato dall'aver passato la giornata attaccato allo schermo di un computer. Rise, ricordandosi come il suo mentore lo prendesse sempre in giro perché si lamentava di essersi tagliato con della carta, sul letto di ospedale per una coltellata appena richiusa. All'epoca gli aveva risposto che preferiva lamentarsi per cose inutili e minime, perché se avesse iniziato a lamentarsi per le cose serie non avrebbe mai finito.
Era un rompiscatole, doveva ammetterlo, ma forse era per quello che lo aveva sempre trattato più come un figlio che come un allievo. O forse era solo una sua proiezione, e lo aveva fatto solo in ricordo di sua madre, perché il povero orfanello gli faceva tenerezza. Sempre meglio che pena. O paura.
Si girò su un lato, trovandosi Chip che lo fissava a braccia incrociate.
«Che succede?» chiese, trovandolo più appropriato di un "che hai da guardare?".
«Nulla, avevi solo... È strano vederti con la guardia abbassata» fece spallucce, abbassandosi poi verso il borsone ai piedi del suo letto, tirando fuori un pigiama e uno spazzolino.
Oltre che lavorarci, in quella stanza, che aveva spazio a malapena per due letti singoli, dotati di stretti comodini, un armadio e un tavolo che nelle loro fantasie sarebbe dovuto essere una scrivania, avrebbero anche dovuto dormirci. Da buon superiore, aveva lasciato che fosse l'altro il primo a usare il bagno, anche se la sensazione di un getto di acqua calda, che scorreva sui suoi muscoli intorpiditi, non gli sarebbe dispiaciuta in quel momento.
Fosse stato un giorno diverso, avrebbe proposto all'altro di uscire, farsi un giro, magari prendersi una birra insieme, per conoscersi meglio e sciogliere la tensione. Ma quella era la viglia, una serata di attesa. La più dolce delle frustrazioni, il tappo che ostacolava la pressione di una bottiglia. Così si sentiva prima di una missione: contenuto. L'energia che scorreva nelle sue membra, l'intenzione di fare mille cose insieme, che si incontravano nel mezzo, paralizzandolo. La voglia di agire, di correre, di buttarsi da un aereo senza paracadute. Smorzato solo dal ritmo incessante del suo cuore, impaziente di affrontare tutte le avventure promessegli.
Ma poteva essere altrimenti? Quando il giorno dopo avrebbe determinato l'andamento della sua intera carriera. Se non vita.
Per cui niente uscita. Solo il paziente aspettare per potersi fare una doccia e infilarsi finalmente sotto le coperte.
Era felice di condividere la stanza con Chip e non Viv o Gab: loro lo avrebbero trovato solo deprimente. E non avrebbero avuto tutti i torti.
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