Capitolo 3
Gab era cosciente di non essere un genio e, a differenza dei suoi vecchi colleghi, non aveva mai avuto problemi ad ammetterlo. Conoscere i propri limiti era stata la prima lezione che gli aveva impartito suo fratello, colui che gli aveva stretto la mano durante tutto il viaggio, fino in America. Dovendo dipende solo da loro stessi, era di vitale importanza non perdere tempo dietro strade per le quali non erano preparati e invece occuparsi di sistemare sia una rete che un paracadute, nel caso fossero precipitati all'improvviso.
Con quelle preziose massima di vita, semplici e adattabili a ogni situazione, lavorava e riusciva dove molti altri fallivano. Questo gli aveva causato non pochi problemi con i suoi capi, i quali, al posto di apprezzare le sue doti, lo reprimevano per aver agito solo. Poco importava che avesse salvato le vite dei suoi colleghi e l'esito stesso delle missioni. Importava solo il regolamento e il protocollo.
E poi aveva conosciuto Darrell, un ragazzino ben voluto dai piani alti a cui non avrebbe dato un centesimo. Voci giravano su di lui, tanto esagerate da farlo sembrare un demone salito dagli inferi al solo scopo di torturare i loro avversari fisicamente e gli agenti psicologicamente. Eppure, la prima volta che lo aveva visto, non si era nemmeno accorto che fosse lui il Brand di cui tutti parlavano. E mentre tutti quegli agenti speciali, cresciuti e pasciuti sin dall'infanzia per diventare delle macchine assassine, lo snobbavano, insegnandogli a vivere, Darrell gli aveva chiesto un consiglio. Una domanda all'apparenza semplice, ma con un riconoscimento delle sue abilità che nessuno gli aveva mai attribuito.
«Quali sono gli elementi che indicano che una situazione necessita di un piano di riserva?».
«Ma che cazzo vuoi da me?».
Non fu amore a prima vista, sul momento ne fu piuttosto scocciato, poi imparò a conoscerlo, così come Darrell aveva imparato a conoscere lui, tramite osservazione diretta e una sbirciatina al suo fascicolo. Il loro rapporto non era basato su un sentimento di amicizia, non erano ancora a quel punto, ma sul reciproco rispetto. Per tale motivo si era proposto di unirsi a quella squadra, senza aspettare una convocazione o una richiesta. Aveva campo libero, una pesante responsabilità, ma gli altri sapevano che in caso tutto fosse andato male, lui sarebbe stato lì, a parargli le spalle.
E ne era onorato. Tuttavia, lui conosceva i suoi limiti. Sapeva di non essere un genio e che insegnare non era la sua vocazione. La sua pazienza aveva dei confini e Tracy li stava sfondando tutti, con una palla da demolizione.
«Quindi...» tentò la ragazza, avvicinandosi a un pennarello. Lanciandone un gemello, la colpì sulla mano, facendole perdere la presa.
«No».
«Ma-».
«No».
Tracy sbuffò, stingendo i pugni ai lati e trattenendosi appena dallo sbattere i piedi per terra. Erano fermi sullo stesso punto da un'ora e il suo professore provvisorio non aveva fatto altro che interromperla e lanciarle contro materiale da cancelleria. Si era fermato a matite e penne, ma visto il ritmo e i contenitori quasi vuoti sulla sua scrivania, presto sarebbe passato ad altro. E le avrebbe fatto male.
Si guardò intorno, focalizzandosi involontariamente sulla porta, sperando che sarebbe apparso qualcuno a salvarla. Per la sorpresa di nessuno, ciò non avvenne. Il ponte che connetteva le stanze sul soppalco era vuoto, così come la stanza sottostante, così triste e scura. Solo il tappeto, raffigurante il loro logo, un sole grigio su un cerchio bianco, donava un po' di luminosità alla sala. Se gli uffici non fossero stati progettati per bloccare il suono esterno, almeno il ticchettare della tastiera di chip le avrebbe fatto compagnia. Non qualunque cosa facesse il loro capo, uscito in anticipo, forse per una riunione fra i poteri forti. Magari le avrebbe presentato qualche rettiliano, se glielo avesse chiesto con gentilezza. O solo sospirato. Un brivido le percorse la schiena, solo immaginandolo.
Si voltò quindi dall'altro lato, verso la parete-finestra che dava sull'oceano, al momento oscurata dalla lavagna mobile che Gab aveva posizionato al centro del suo ufficio, coprendo la scrivania. Se l'avesse superata, avrebbe notato l'impressionante collezione di matrioske che l'altro sosteneva avesse comprato per scherzo, in quanto oggetto troppo stereotipato del suo paese d'origine. I centrini appoggiati sugli schienali delle sedie, in quell'occasione spostate contro la parete opposta al mobiletto basso su cui si era appoggiata, erano invece accettabili da mostrare ai colleghi. Avrebbe detto ospiti, ma dubitava che, ammesso e non concesso avesse qualcuno da portare, avrebbero potuto avere ospiti.
I centrini le ricordarono però che anche Gab fosse umano, e come ogni umano si poteva manipolare e persuadere.
«Io-».
«No».
«Ma-».
«No».
Come non detto. Sperava che il suo capo se la stesse passando meglio, visto l'ingrato compito che aveva deciso di affidarle. Non che gli stesse augurando il contrario, assolutamente no.
Ma a Darrell non servivano le combinate maledizioni lanciategli da Gab e Tracy per trovarsi in una situazione se non terribile, per lo meno imbarazzante.
Darrell stava solo aspettando che qualcuno entrasse dalle porte del café per consegnarli il premio di strambo dell'anno, se non del decennio. L'appuntamento, o almeno così lo chiamava nella sua testa, non stava andando male, stava andando ben peggio. Ogni volta che apriva bocca, pensando di aver ormai toccato il fondo, sembrava prendere una pala e scavare ancora. Cosa Marthe ci facesse ancora lì, seduta all'altro lato del tavolino, a coprire una risata con la tazza ormai vuota, se lo stava chiedendo da ben prima che ordinassero, quando lo aveva salutato per strada.
Suoi pensieri autosvalutanti a parte, non credeva oggettivamente di essere riuscito a proporre un argomento di conversazione interessante o di aver risposto come un normale essere umano avrebbe dovuto fare. Era partito dal fatto che gli uccelli fossero animali territoriali, senza intendere alcun doppio senso, per qualche motivo arrivando poi al particolare strumento riproduttivo che avevano le oche, difendendosi sostenendo che le animazioni da loro prodotte dovessero essere realistiche, per poi giustificarsi sul fatto che non stessero programmando un videogioco per adulti e che i furry non fossero suo interesse.
«Non che le oche rientrino in quella categoria, intendo, non hanno la pelliccia... e io ora finirò di parlare» buttò fuori di getto, sentendosi avvampare peggio di un termosifone. Riuscì almeno a trattenersi dallo sbattere ripetutamente la testa sul tavolo, azione che probabilmente lo avrebbe fatto svenire e salvato da quella situazione, ma che avrebbe anche definitivamente spaventato la ragazza, che non lo avrebbe mai più approcciato e avrebbe invece cambiato strada ogni volta che lo avesse incrociato. Non sembrava un piano così negativo, in fondo.
Un suono strozzato fu l'unica cosa che lo interruppe, spingendolo a sollevare lo sguardo, in quel momento fisso su una macchia scura non rimossa dalla superficie chiara del tavolo.
«Scusami» singhiozzò Marthe, piegata in avanti, mentre tentava di ritornare in una posizione eretta, solo per incrociare il suo sguardo, mordersi le labbra, gonfiare le guance fino a farsi lacrimare gli occhi, e nuovamente scoppiare in una risata, tornando con il volto parallelo al pavimento. «Giuro, io» riprovò, prendendo fiato, mentre cercava un sostegno con le braccia, «Io non voglio ridere, lo giuro» il petto le si alzava e abbassava vistosamente, mentre si copriva nuovamente il viso con una mano.
«Stai bene?» chiese, rompendo il suo silenzio.
In risposta ricevette un dito indice alzato, mentre la ragazza si voltava verso l'interno del locale, in quel momento vuoto. Uno spazio che la mattina era coperto dalla folla, costituito da una stanza in legno, illuminata da un semplice lampadario composto da sfere ai led, quattro tavolini simili al loro, di finto legno chiaro, dello stesso materiale delle sedie. Al centro dava mostra di sé una colonna, con una mensola tutt'attorno, che fungeva da ripiano dove erano riposti zucchero, cannella e cacao, oltre a un numero esagerato di tovagliolini e un cubotto dal quale spuntavano numerosi cavi di varie dimensioni, per ogni tipologia di apparecchio elettronico.
«Ci sono, ci sono» disse infine, prendendo vistosamente fiato. «Perdonami ma... Giuro, non volevo ridere, ma ammetto che una tattica simile non mi era mai capitata» gli sorrise, sghignazzando ancora fra sé e sé.
«Tattica?».
«Sì, tattica. Ho letto questo» fece scorrere ripetutamente una mano indicando lo spazio fra loro, «in modo errato?» chiese, spalancando gli occhi.
«No, no!» si affrettò a risponderle.
«Meno male, nel senso, non voglio ti faccia un'idea sbagliata: non penso che l'intero mondo sia attratto da me» si sistemò meglio gli occhiali sul naso, incassando la testa fra le spalle, mentre lasciava che il suo corpo scivolasse verso il basso. «Però il fatto che tu lo possa essere, ecco... Un po' ci speravo» ammise, rivolgendogli un sorriso timido.
Darrell si bloccò, ponderando quella nuova informazione. Non era cieco, sapeva di avere una bella presenza: anni di allenamento avevano dato i loro risultati e anche la genetica era dalla sua. Non era certo un modello o aveva un viso che rispettava i canoni erroneamente attribuiti a Leonardo Da Vinci, ma era inseribile nella categoria degli attraenti. Avrebbe potuto attribuire a quello l'interesse della ragazza, un puro fattore estetico, non disprezzabile, in fondo da qualcosa l'attrazione doveva pur nascere, se non fosse che in entrambe le occasioni in cui avevano parlato fosse coperto da molti strati, sufficienti a nascondere la sua figura e avesse appena finito di blaterare su parti anatomiche di uccelli digitali, lasciando intendere che ne fosse esperto. L'enigma aveva un'unica soluzione, nonostante il suo cuore protendesse per altro, il suo cervello ben conosceva la risposta.
«Per chi lavori?» domandò, con tono rassegnato. Ogni recita aveva un momento in cui le tende oscuravano il palco, assegnandogli un finale, e quello era il loro. Cancellati ancor prima dell'inizio.
«Prego?».
«Per chi lavori?» chiese nuovamente, rifiutandosi di guardarla negli occhi.
«Credevo di avertelo già detto, per la clinica» indicò dietro di sé, il mondo fuori dalla porta. «Quella in fondo alla strada».
«In cui mi avevi consigliato di andare» le ricordò, appoggiando entrambi i gomiti sul tavolo, per sporsi maggiormente e dare una impressione di chiusura e sicurezza.
«Nel caso qualcuno si fosse fatto male, sì. Spesso vanno più lontano, ma guidare feriti può essere pericoloso, e perché farlo quando c'è la nostra qui dietro?» assottigliò gli occhi, passandosi una mano sul collo, simulando una perfetta confusione. Una davvero ottima attrice, doveva riconoscerglielo. «Darrell, tutto bene?» aggiunse infine, imitando la sua posizione e sporgendosi sul tavolo. Avanzando una mano incerta, come se non fosse sicura di poter continuare l'azione o meno.
«Certo, tutto bene. Benissimo, mi sono solo ricordato di una cosa» si alzò dalla sedia, proprio nel momento in cui Marthe aveva deciso di afferrargli una mano. Lo guardò dal basso con grandi occhi grigi spaesati.
«Certo... certo. Spero di rivederti in giro, allora» lo salutò, sforzandosi di sorridere. Rivolse poi la sua attenzione al piattino contenente solo alcune briciole superstiti di due, stentava a crederlo, superbi muffin ai mirtilli.
«Sì, ci vediamo in giro» la salutò, rivestendosi, per poi uscire dal locale, senza guardarsi indietro.
Che gli fosse da lezione, mai fidarsi di qualcosa di troppo perfetto, non con la sua vita. Si era preoccupato della finzione della sua vita, di come fosse l'unica cosa in grado di fornire, dimenticandosi che fosse anche l'unica cosa con cui fosse da sempre entrato in contatto.
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