Prologo
3 Settembre 1939, Brighton
"Vi parlo dal mio ufficio al No. 10 di Downing Street. Questa mattina l'Ambasciatore britannico a Berlino ha consegnato al Governo tedesco una nota nella quale si ribadiva che se entro le ore 11:00 di oggi non fosse stato ufficialmente comunicato al Governo di Sua Maestà che la Germania avrebbe ritirato immediatamente le sue truppe dalla Polonia, noi avremmo dichiarato lo stato di guerra tra i nostri due Paesi. Non avendo ricevuto alcuna risposta, devo informarvi che il nostro Paese è in guerra con la Germania."*
«Papà che cosa significa?» chiesi a mio padre. Lui non disse niente, tenne le labbra serrate in una lunga linea ferma mentre ascoltava il signore che parlava alla radio. Rimasi in silenzio anch'io e cercai di capire qualcosa. All'improvviso sentii un singhiozzo. Entrambi ci girammo verso la porta e vedemmo la mamma, con una mano sulla bocca e l'altra tremante sopra il grembiule sporco. Le lacrime le rigavano il volto. Mio padre si alzò subito per andare a prenderla tra le sue braccia e cercare di calmarla con parole rassicuranti. Qualcosa di brutto doveva essere appena accaduto.
1942, Brighton
"We'll meet again. Don't know where. Don't know when. But I know we'll meet again some sunny day..."
Huck sembrava essere di buon umore quel giorno. Mentre eravamo in fila al centro di reclutamento militare, il mio migliore amico stava canticchiando e di tanto in tanto rosicchiava un rametto di liquirizia.
Entrambi avevamo appena compiuto diciassette anni e la nostra volontà di unirci era cresciuta giorno dopo giorno, sin da quando il cancelliere tedesco aveva rifiutato di ritirare le truppe dalla Polonia e la notizia si era sparsa. Ricordavo ancora il modo in cui mia madre piangeva a dirotto, e il giorno in cui papà si era arruolato per non tornare mai più.
«Come ti chiami?» mi chiese il soldato in piedi davanti a me.
«Arrow G. Smith, signore» risposi chiaramente, tenendo le braccia lungo i fianchi. Gli occhi del soldato mi scrutarono. Sembrava analizzarmi con lo sguardo: alto poco più di un metro e ottanta centimetri, tutti gli arti sono presenti, corporatura sana e robusta, arruolato.
«Bene, Arrow, compila questo modulo.» mi ordinò allungandomi un foglio. Lo presi tra le mani e lessi ciò che attirò per primo la mia attenzione: MODULO DI REGISTRAZIONE.
«Il prossimo!»
Mi allontanai senza proferire altra parola. Dovevano essere a corto di uomini se non aveva avuto nemmeno il tempo di controllare il mio documento d'identità.
Riportai gli occhi sul foglio e guardai cosa mi chiedeva di inserire: nome, cognome, data e luogo di nascita, il nome dei miei genitori e altri dati anagrafici.
Alla fine dovevo porre la mia firma ed era la parte che mi spaventava, ma allo stesso tempo mi rendeva anche fiero e orgoglioso di me stesso. Compilare il modulo voleva dire parlare di me e non era difficile. Ero un ragazzo, figlio unico, cresciuto da genitori amorevoli e tra le strade e il molo di Brighton.
Firmarlo, invece, significava dare la mia vita in mano alla guerra e combattere per la Gran Bretagna, per la mia patria, per casa mia.
Inspirai profondamente e mi guardai attorno alla ricerca di Huck. Appena lo vidi vicino a uno dei tavoli predisposti per la compilazione dei moduli, mi avvicinai a lui e attirai la sua attenzione portando una mano sulla sua spalla mentre appoggiavo il foglio vicino al suo.
«Huck...»
Lui si girò verso di me e spostò il rametto di liquirizia al lato della bocca. «Sei pronto?» gli chiesi. Lui annuì e tolse il bastoncino dalle labbra.
«Facciamolo», rispose e sorrise. «Farò mangiare a quei crucchi nazisti i crauti all'inferno!» continuò mentre con la penna iniziava a scrivere.
Compilai il modulo con la mano leggermente tremante, probabilmente per l'eccitazione.
Subito dopo aver riconsegnato il foglio, uscimmo dall'ufficio e Huck riprese a masticare la liquirizia.
«Più tardi vado a trovare Anne. Sua madre mi vuole conoscere. Voglio fare una bella figura!» mi raccontò sorridendo, mentre camminavamo verso le nostre rispettive case, prima di stringere le labbra e sbottare all'improvviso pochi secondi dopo. «Maledetto coprifuoco! Ti ricordi quando andavamo da piccoli ad ascoltare i concerti al molo? O quando correvamo sulla spiaggia e ci divertivamo a schizzarci d'acqua?» mi ricordò lui. Accennai un sorriso malinconico mentre guardavo il cielo.
«E ora, dopo le sette non ci può essere anima viva per le strade, le luci devono essere spente per evitare di essere bombardati, e dobbiamo fare silenzio. La spiaggia è pure disseminata di mine. Per quanto tempo ancora andrà avanti?»
Il tono della sua voce era pieno di ansia. Era come se stesse per avere un attacco di panico. Lo guardai: la sua testa era abbassata e i suoi occhi erano puntati sulle sue scarpe; le sue mani erano affondate nelle tasche e il colletto della camicia hawaiana che indossava sotto il giubbotto di pelle era alzato e stropicciato.
«Huck, calmati» gli dissi, portando una mano sulla sua schiena. «Come ogni cosa, finirà. Bisogna essere ottimisti: è l'unica cosa che ci rimane» risposi io prima di salutarlo, augurargli buona fortuna per l'incontro con la madre di Anne e dividere le nostre strade.
Mi diressi velocemente verso casa, evitando di guardare le macerie attorno a me. Brighton era diventata irriconoscibile, ma almeno erano due settimane che non sentivamo il suono delle bombe, o l'allarme.
Una volta arrivato a casa, mi levai il cappello, tolsi le scarpe per portarle a mano, entrai dalla porta secondaria e, come sempre, mi sentii circondare da una grande sensazione di vuoto attorno.
Mia madre non era ancora tornata. Al compimento dei miei sedici anni, era stata chiamata a lavorare come infermiera e i suoi orari erano variabili. Era una delle poche persone ad avere un permesso per camminare dopo il coprifuoco verso casa. Ma su quel permesso c'era anche scritto che poteva percorrere solo alcune determinate strade e non poteva fare nessuna deviazione.
Salii le scale scricchiolanti per prendere nella piccola libreria nel vecchio studio di mio padre un libro. Dovevo sapere come finiva la storia della famiglia Otis.
Dopo aver letto faticosamente quasi una ventina di pagine, sdraiato sul divano, sentii le palpebre pesanti. In men che non si dica, mi addormentai.
"Moonlight Serenade" stava risuonando in tutto il locale. Mi trovavo in una tavola calda e i tavoli in legno, le pareti che richiamavano il colore del mare e il jukebox in un angolo mi avevano permesso di riconoscerla. Doveva essere quella nelle vicinanze del molo perché sentivo l'odore di salsedine e olio fritto.
Fuori era pomeriggio inoltrato, la luce del sole non era intensa e filtrava tra le poche persiane abbassate.
Mi guardai attorno e l'unica persona che notai tra le altre era una ragazza con dei capelli biondi raccolti in una coda alta. Era concentrata a ordinare dei piatti dal menù.
«Pasticcio di manzo e rognone! Oh! E fish and chips!»
Mi avvicinai lentamente e cercai di attirare la sua attenzione, schiarendomi la gola. La ragazza rise, sembrava così spensierata. Tossii con più forza e questa volta mi sentì.
Si girò velocemente verso di me e io notai che aveva gli occhi sgranati. I suoi occhiali tondi li ingigantivano troppo. Sembrava che le sue stupende iridi azzurre stessero per scoppiare. Alzai le mani davanti a me per tranquillizzarla.
«Ciao» la salutai.
«Pensavo che qualcuno si stesse strozzando» rispose lei dopo aver tirato un sospiro di sollievo.
Mi avvicinai alla sedia opposta alla sua. «Posso sedermi?» le chiesi puntando con il dito il posto libero.
La ragazza si strinse nelle spalle e continuò a leggere il menù. Mi sedetti e la guardai. Era calma, composta, e mentre leggeva il nome dei piatti le si erano formate delle piccole rughe d'espressione tra le sopracciglia.
Mi sembrava di conoscerla, eppure non sapevi il suo nome.
Mi tolsi il berretto grigio in lana e lo appoggiai al mio grembo.
«Tu cosa ordini?» domandò lei, senza distogliere lo sguardo da ciò che stava leggendo. «Ti consiglio il loro pasticcio di manzo e rognone, è davvero una delizia. Anche i panini non sono affatto male.»
La guardai confuso.
«Ci conosciamo?» le chiesi. La ragazza scosse la testa e alzò gli occhi verso di me. Sorrise lievemente e delle piccole fossette si disegnarono sulle sue guance. Era la prima volta che mi guardava per più di cinque secondi senza pensare che stavo per accasciarmi a terra esanime.
«Non ancora, ma probabilmente in futuro ci conosceremo. Questo è solo un sogno.»
Il modo in cui parlava era del tutto naturale, e ciò che diceva sembrava avere senso ma la mia testa suggeriva il contrario e stava facendo un certo sforzo per farmi capire che stava farneticando.
«A me sembra tutto reale. Come fai a sapere che è un sogno?» le chiesi. Lei inarcò le sopracciglia, abbassò il menù e si sporse in avanti per appoggiare entrambi gli avambracci sulla superficie del tavolino. Con questa azione riuscii chiaramente a leggere la colorata scritta dal carattere bizzarro sulla sua maglietta: "Delorean".
«Che ore sono?» mi domandò. Istintivamente guardai nuovamente fuori dalle finestre.
«Deve essere pomeriggio» risposi.
Lei scosse la testa e fece una smorfia con le labbra.
«Questo lo noto anch'io, grazie. Voglio che guardi l'orologio. Quello appeso al muro dietro di me» spiegò con un tono leggermente sarcastico. Praticamente, era l'unico tono che avevo sentito provenire dalla sua bocca da quando aveva iniziato a parlare.
Alzai gli occhi e aguzzai la vista per guardare oltre lei. L'orologio iniziò a sciogliersi non appena ebbi posato lo sguardo su esso.
«Oh, porca miseria!» esclamai, sgranando gli occhi per la sorpresa. Avevo appena iniziato a credere alle sue parole: doveva essere assolutamente un sogno. Uno di quelli strani e con persone altrettanto "uniche". Se così potevo definirlo.
Contenta, la ragazza riprese il menù e voltò pagina per guardare i dolci offerti dal posto. Conoscevo quel menù a memoria.
«Come ti chiami? E perché stai facendo il cosplay di un uomo che sembra essere appena uscito dalla seconda guerra mondiale?»
Il suo interrogatorio ricominciò e le sue parole continuavano a non avere un minimo di senso.
«Cos-cosa? Ma di che diavolo stai parlando?» iniziai a balbettare. Lei sembrò notare la mia insicurezza e ripetè, scandendo parola per parola, l'unica domanda sensata. Il suo modo di fare mi irritava: mi sentivo preso in giro.
«Ti ho chiesto come ti chiami. Oh pazienza, me lo dirai prima o poi» si arrese. Poi si appoggiò completamente allo schienale della sedia e incrociò le gambe fino a far spuntare il ginocchio da sotto il tavolo. Il suo modo di fare era veramente snervante. «Io mi chiamo Daisy», rivelò poi mentre sistemava meglio sul naso gli occhiali da vista.
«Arrow», confidai a mia volta. «Il mio nome è Arrow Smith.»
«Smith... è un cognome particolarmente raro» commentò, nuovamente con tono piuttosto sarcastico. «In che giorno siamo?»
Alla sua domanda, ripensai al modulo di registrazione e cercai di sforzarmi per ricordare il giorno che avevo inserito.
«Non ricordo, forse è lunedì... No! È il 20 Febbraio. È venerdì» risposi.
Lei aggrottò nuovamente le sopracciglia quando sentì la mia risposta. Poi scosse la testa. Ancora.
«No, ti sbagli... il venerdì di questa settimana è il 24» mi corresse, e questa volta ero io a oscillare il capo in segno di disapprovazione.
«No, sono sicuro di avere ragione io», confermai.
«C'è solo un modo per scoprirlo. Che anno è? Magari ci incontreremo tra un paio di anni ancora» cercò di spiegarmi e io non ribattei. Era solo un sogno, quindi lasciai che scorresse. Quando mi sveglierò lo dimenticherò completamente senza ombra di dubbio.
«Corre l'anno 1942» risposi.
Daisy si bloccò per un paio di secondi, poi scosse leggermente la testa e incredula chiese:
«Come scusa? Penso di non aver capito bene.»
Incrociai le braccia al petto.
«Dall'accento sembri inglese, e dovresti sapere che siamo in guerra»
La sua reazione non cambiò per i prossimi secondi, poi mutò in un apparente stato di shock.
«Non è possibile» mormorò a bassa voce.
«Ma in che anno pensi di essere?» le chiesi, stranito.
||Jo||
È da così tanto tempo che non scrivo una di queste note, mi sembra passata un'eternità.
Oggi, con questo prologo, vi ho introdotto Arrow. E ho aggiunto giusto un pizzico dell'altra protagonista.
Spero di avervi incuriositi. Fatemi sapere che ne pensate con un commento, un messaggio privato. Mi fa piacere ricevere vostri pareri, se genuini.
In alto una canzone molto famosa dell'epoca, cantata dalla stupenda Vera Lynn.
E, come dire...
Stay awesome
-Jo
*Traduzione di Ugo Persiani
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