3. Chocolate kiss
«Non possono farci questo!»
Sbraitai nella cucina quando Bonnie lesse l'avviso e cercò di rimanere calma e suggerire la vendita del fioraio.
«Allora dobbiamo racimolare dei soldi...» continuò lei, ma ogni cosa che diceva finiva dritta nel cuore come un piccolo ago malefico.
«Come? Non ci è rimasto niente!» le ricordai mentre mi buttavo sulla sedia come un peso morto. Il tonfo che fece il mio fondoschiena mi ricordò di quanto fosse stata stupida quella mossa.
Mi coprii il viso velocemente: il dolore si stava mischiando all'irritazione per essermi provocata quel fastidio, oltre alla notizia di quella stramaledetta banca.
Bonnie avvicinò la sua sedia alla mia e incominciò ad accarezzarmi i capelli lentamente. Quel gesto affettuoso però nascondeva ancora quelle parole che mai volevo più sentirle nominare.
«Forse dobbiamo arrenderci veramente all'idea di vendere il negozio e ripagare i debiti» disse scandendo parola per parola, come a prepararmi psicologicamente ma ottenne l'effetto opposto.
Schizzai di nuovo in piedi e la guardai con occhi struggenti.
«Non possiamo fare questo a papà. Lui non avrebbe mai voluto! Non possiamo... è l'unica cosa rimasta di lui. Adorava questo negozio»
«Non possiamo convincere la banca con questo. Si parla di soldi, e non possiamo combattere il denaro!» riprese lei, cercando di far leva su un argomento a cui sicuramente non potevo controbattere.
«Mangia tu, io non ho più fame» dissi, dirigendomi verso la porta.
«Dove vai?» mi chiese Bonnie con un sospiro.
«Voglio stare da sola» risposi, senza dare troppi dettagli.
«Verrai dopo all'apertura?»
Quella domanda mi lasciò di stucco. Pensava davvero che mi stessi rassegnando così facilmente?
«Non ho detto che mi arrendo» ribattei velenosa.
Afferrai il giubbotto dall'appendiabiti e mi precipitai fuori di casa con le lacrime agli occhi.
Il vento improvviso che affrontai una volta varcata la porta sembrò uno schiaffo in pieno viso e mi congelò le lacrime sulle guance.
Anche la natura mi stava dimostrando il suo profondo disprezzo.
Sapevo di essere una pessima donna d'affari, ma quel dannatissimo avviso della banca mi aveva fatto anche capire di essere una pessima figlia. Avrei potuto impegnarmi di più, almeno per quel negozio. Quel posto significava "casa" e "famiglia" in ogni senso, e io stavo facendo di tutto per distruggerlo.
Lasciai scorrere le lacrime e permisi ai miei sensi di guidarmi.
Se attraversando la strada fossi stata investita sarebbe stato tutto più semplice e avrei potuto dimostrare nuovamente chi fossi: una codarda.
Perché era questo cos'ero: una fifona che al minimo problema scappava sperando che tutto venisse risolto per lei.
Non osai nemmeno asciugarmi le lacrime che nuovamente scendevano copiose su quelle già asciutte: meritavo quello che stavo passando.
Avevo preferito evitare le complicazioni, adagiarmi sugli allori e lasciare tutto sulle spalle di Bonnie. Nemmeno lei era una brava affarista.
Singhiozzai con forza e per evitare altri sguardi di pietà, mi nascosi in un vicolo.
«Daisy?»
Quella voce era familiare. Mi asciugai velocemente le lacrime portando le dita sotto gli occhiali e mi girai per vedere chi fosse il mio interlocutore.
I suoi capelli castano chiaro indomabili sembravano quelli di un ragazzo che aveva avuto un sonno molto agitato; I lineamenti del volto non erano estremamente marcati, quasi a preannunciare l'arrivo di linee molto più dure; le sopracciglia leggermente arcuate erano folte ma curate e seguivano dolcemente la curva degli occhi grandi e grigi; il suo naso era lungo ma in giusta proporzione al resto dei tratti della faccia, così anche le sue labbra, che per il freddo si stavano tingendo di un colore tendente al viola scuro.
«Ci conosciamo?» gli chiesi prima di tirare su con il naso.
Il ragazzo si schiarì la gola e si portò una mano sulla nuca. La borsa del computer portatile ondeggiò leggermente sul suo fianco.
«Sono Weston, ci siamo incontrati ieri sera, per le chiavi» mi ricordò lui.
Solo in quel momento capii chi fosse: dopo il sogno e quello che era successo la mattina seguente, ormai l'avevo cancellato dalla testa.
«Ah, vero, non ti avevo riconosciuto» balbettai con il fazzoletto ancora sul naso. Lo avevo già dimenticato, in realtà.
«Va tutto bene?» mi domandò, inclinando la testa per vedermi meglio visto che avevo abbassato il volto per evitare che vedesse le lacrime. Tirai fuori dalla giacca un pacchetto di fazzoletti e cercai di rendermi il più decente possibile.
«Non è proprio il momento, davvero» commentai comunque, nel vano tentativo di mandarlo via.
«Posso offrirti un tè? Un caffè?» mi domandò lui è quel gesto mi sembrò veramente così gentile che non me la sentii di accettarlo: non avevo fatto niente per meritarlo.
Scossi la testa in segno di negazione e cercai di farmi strada per uscire dal vicolo e allontanarmi il più in fretta possibile, ma la sua mano ancorò il mio braccio per trattenermi con una presa salda. Sentivo che avrebbe potuto farmi male se avesse voluto. Aveva la forza per farlo.
«Weston sembri davvero un bravo ragazzo, ma non è proprio il caso. Non ho bisogno della tua pietà, così come non necessito di quella degli altri. Ora lasciami il braccio» mi dimenai leggermente, ma nonostante la sua presa sembrasse debole, in realtà non lo era.
«Non so cosa ti sia successo» continuò lui, «ma so che il novantanove per cento delle volte serve parlarne e calmarsi un secondo per rifletterci.»
Mi girai verso di lui e lo scrutai per bene con lo sguardo.
«Si può sapere che cosa vuoi da me? Se sei appena arrivato ti consiglio di cercarti qualcun altro, invece di fare madre Teresa di Calcutta con me» sputai velenosa.
«Tu pensi che la mia sia pietà quando in realtà io ho solo visto una ragazza in lacrime in un vicolo. Non è pietà, perché non so cosa ti sia successo.» Si bloccò improvvisamente e quando vide le mie sopracciglia alzarsi, come a chiedergli indirettamente che cosa fosse allora che lo faceva comportare in quel modo, lui scrollò le spalle e rispose semplicemente:
«Preoccupazione, penso.»
Sorrisi con amarezza a quella risposta che sembrava così forzata.
«Ma non mi dire» sospirai e puntai con il mento la sua mano ancora sul mio arto superiore.
«Lasciami il braccio. Ti sto trattando male e non vorrei. Ti prego, lasciami sola» gli spiegai, cercando di allontanarmi ancora di qualche passo. Lui irrigidì la mascella e si sforzò a mollare la presa. Poi il suo tono di voce cambiò e si fece più arrendevole e dolce.
«Ok, va bene. Se cambiassi idea, io sono al Choco Brownie Bar per un paio d'ore», rivelò lui, prima di risistemare il porta laptop sulla spalla. «Per questo pomeriggio sei ancora libera?» mi domandò e io non esitai a rispondere affermativamente.
«Sì»
Lui annuì e si scostò per farmi passare. Accennò un debole, ma sincero sorriso prima di congedarsi.
«Perfetto. A dopo allora»
«A dopo» risposi.
Mi allontanai il più velocemente possibile, quasi a volerlo seminare e sparire completamente. Quando fui di nuovo sola, tutto il dispiacere che avevo messo da parte per parlare con Weston bussò nuovamente alla porta del mio cuore e lo riempì fino all'arrivo delle lacrime.
Ero corsa fino ad un piccolo parco, dove solo poche persone passavano le loro ore. I giochi per bambini, come l'altalena e lo scivolo, erano rotti, pericolanti, e ricoperti di muschio e fango. Era abbandonato appunto per quello. Mi sedetti su una panchina ancora buona e portai le ginocchia al petto. Sussurrai un infinità di volte scuse a mio padre e alla mia famiglia per non essere stata abbastanza a tenere in piedi uno dei "cimeli" di famiglia più importanti. Parlai a papà, con la vana speranza che mi sentisse, ovunque fosse finito. Gli chiesi consiglio, forza di andare avanti e amore sufficiente da non farmi mancare.
All'improvviso mi ritornò in mente Weston e la sensazione della sua presa si riformò attorno al mio braccio. Era la cosa più vicina alla sicurezza che mio padre riusciva a darmi.
Era segno di debolezza aver bisogno di parlare con qualcuno e desiderare una risposta, anche se questa fosse stata semplicemente un "tira fuori le palle, e cresci".
Mi alzai tremante dalla panchina e iniziai a dirigermi verso il Choco Brownie Bar. Non era molto distante, era ad un quarto d'ora, al massimo venti minuti, di camminata. Tirai sulla testa il cappuccio e cercai di non farmi vedere in faccia da nessuno. Con ogni probabilità a causa delle lacrime avevo gli occhi completamente rossi e sicuramente avrebbero pensato molto male di me, e mi mancava solo questo per non far venire più nessuno al negozio.
Una volta entrata nel bar, abbassai il cappuccio e mi strofinai le dita sugli occhi. Nel frattempo aveva anche cominciato a piovere e qualche goccia l'avevo beccata anch'io.
Cercai con lo sguardo Weston e lo riconobbi seduto su un tavolino in disparte, con il computer aperto davanti a sé e una tazza di caffè alla sua sinistra. Digitava freneticamente sulla tastiera qualcosa di molto lungo.
Mi avvicinai titubante, chiedendomi se ne valesse ancora la pena introdurmi nella vita di qualcun altro e rovinarla.
Improvvisamente una ragazza dai lunghi capelli bruni e dal corpo mozzafiato si avvicinò a lui e lo salutò con un bacio sulla guancia prima di scambiare un paio di battute, salutarlo e avviarsi verso la porta per uscire. Quando mi passò di fianco, sentii il suo profumo fresco e dolce e desiderai sotterrarmi. Ma cosa mi ero messa in testa? Cos'era quel sentimento di inferiorità?
Morsi con forza il labbro, temetti di spaccarlo e girai i tacchi per andarmene.
«Daisy» mi chiamò Weston.
Strinsi i pugni ai lati dei fianchi e mi dondolai leggermente sui piedi, valutando l'idea di non girarmi e andare via. Alla fine, non lo feci.
«Ehi» lo salutai, una volta essermi voltata verso di lui. «È ancora valido l'invito?» gli chiesi.
Lui sorrise, mostrandomi una fila di denti bianchi e si alzò per tirarmi la sedia indietro.
«Certo. Ti prego siediti» mi invitò lui.
Mi avvicinai imbarazzata dai suoi modi tanto cavallereschi e mi sedetti di fronte a lui. Quando si fu sistemato davanti a me, chiuse il portatile e lo spostò a lato.
«Cosa ti ha fatto cambiare idea?» mi chiese.
«Avevo bisogno di fare colazione» risposi ironica.
«Cosa ti andrebbe?»
«Qualsiasi cosa, non ho preferenze.»
Si alzò e mi lasciò da sola per avvicinarsi al bancone, parlare con la cameriera e ordinare un caffè lungo e due brioche al cioccolato, probabilmente una era per sé. Li servì lui. Lo ringraziai prima di sorseggiare il caffè.
«Allora, ti va di dirmi cosa ti è successo prima?» mi domandò.
«Prima rispondi tu. Che cosa ci fai qui a Brighton?» gli chiesi di rimando. Lui sorrise nuovamente e giocherellò con uno stuzzicadenti nuovo che aveva appena aperto.
«Per l'ultimo anno di università mi sono dovuto trasferire qui da Londra. Brighton ha uno dei migliori corsi in Storia Contemporanea» mi spiegò senza aggiungere troppi fronzoli. «Tocca a te: perché eviti il discorso?»
Sorseggiai il caffè, e tenni la tazza sulle labbra per più del necessario solo per fargli capire che non mi andava ancora di parlarne. Lui sospirò e cercò nuovamente di convincermi.
«Potrebbe aiutarti parlarne» commentò.
Chiusi gli occhi e inspirai mentre appoggiavo la tazza sul tavolo.
Gli raccontai tutto quello che era successo, del perché piangevo e come mai la banca era stata costretta a correre ai ripari e mandare quell'avviso.
Lui ascoltò attentamente, evitando di interrompermi, annuendo semplicemente con la testa per dirmi di andare avanti. Quando finii, bevve fino all'ultima goccia il caffè ormai tiepido e
«Quindi il problema è che avete poche disponibilità finanziarie» concluse lui. «Prestiti non saldati da tuo padre, per dei problemi di gioco di tuo nonno e ora ti ritrovi a mandare avanti un'attività che appartiene alla tua famiglia da tre generazioni senza il minimo spirito imprenditoriale e le capacità per farlo. Non sembrava così difficile gestire un fioraio»
«Diventa difficile quando le entrate sono molto inferiori alle uscite» precisai io.
«Non sono nel campo e non ho nessun diritto di ficcarmi in mezzo, ma perché non provate a rivolgervi ad un professionista? Potrebbe aiutarvi a valutare l'attività e magari risollevarla, ma questo è, ovviamente, solo un mio consiglio» continuò lui prima di afferrare la brioche e dare un morso. Sprofondò così tanto nel dolce che quando si allontanò notai che aveva dei baffi di cioccolato.
Cercai di non scoppiare a ridere e presi anch'io la mia brioche. Lui non s'era accorto di niente.
«Questo è un problema mio e non ti riguarda. Tu, invece, hai un problema che posso aiutarti a risolvere» dissi, alludendo al suo viso sporco di ripieno.
«Quale?» mi chiese lui.
Schiarii la gola, sempre nel tentativo di non fargli sentire le mie risate.
«Mostrarti la città» risposi dando un morso, cercando con successo di non disegnare anche a me stessa dei baffi. «Brighton è davvero un posto spettacolare se sai dove andare»
Lui afferrò il portatile, lo aprì e lo girò verso di me per mostrarmi lo schermo.
«Ho fatto ricerche. Ci sono dei posti che mi andrebbe visitare. Sicuro che il tuo ragazzo non abbia problemi al riguardo?» mi chiese. I miei occhi erano fissi sotto il suo naso.
«Io non ho un ragazzo» gli rivelai.
«Oh, beh. Meglio per me» ribatté lui, dando un altro morso alla brioche. Non mi trattenni quando vidi che quel morso aveva enfatizzato i baffi di cioccolata. Lui fraintese e cercò di spiegarsi.
«No, io non intendevo... che problema c'è se ci provo un po' a questo punto?» disse scherzosamente.
Io continuai a ridere.
«Il punto è che devi assolutamente migliorare» dissi puntando con il dito le mie labbra dopo aver dato un finto morso alla brioche.
Lui si toccò con la mano intera la bocca e quando sentì la cioccolata sul palmo diventò rosso.
Giurai di averlo anche sentito imprecare.
||Jo||
Ecco il nuovo capitolo! Scusate il ritardo!
Stay awesome!
-Jo
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