1. Delorean e le macchine d'epoca

Brighton 2017

Io sognavo sempre. Non c'era mai stato giorno nella mia vita in cui io mi fossi svegliata senza averne avuto uno.
Luoghi incantati, con abitanti gentili, piccoli animali colorati di tante specie diverse, e molto differenti da quelle terresti. In quei mondi si respirava sempre dell'aria così fresca che mi riempiva i polmoni. Erano posti bellissimi, incantevoli e magnifici a volte. Altre volte invece, mi sembrava di affogare in un incubo da cui non riuscivo a uscire. Intrappolata in un tornado di mostri, in gabbia insieme a terrificanti creature che mi terrorizzavano e avevano solo un unico scopo: divorarmi.
"È normale" sarebbe il pensiero di molti, se non aggiungessi un piccolo particolare. Se dovessi raccogliere da quelle terre una pietra e tenerla stretta, al mio risveglio la troverei ancora lì.
E ogni volta che sognavo, riuscivo addirittura ad avere delle premonizioni.  Non ne avevo parlato molto in passato. E quelle poche volte in cui mi ero azzardata a dire qualcosa erano bastate a guastare il matrimonio dei miei genitori.
Avevo previsto uno dei tanti tradimenti di mia madre. Avevo pianto tutta la notte e il giorno seguente avevo raccontato tutto a mio padre.
Ero stata etichettata come "bugiarda con troppa fantasia" quel giorno.
Mi credette solo quando vide con i suoi occhi sua moglie rovesciata sul tavolo da pranzo con un uomo che non era lui.
Non riuscivo a considerare la mia abilità di "viaggiare" nei sogni e prevedere il futuro un "dono" nel vero senso della parola. Era più una disgrazia che una fortuna. A causa di questa capacità, la rubrica del cellulare di mio padre straripava di psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, neurologi e la mia infanzia non era stata esattamente invidiabile. Forse, era quella che non augureresti neanche al tuo peggior nemico.
Nonostante ciò, alla veneranda età di ventidue anni appena compiuti, mi ritrovavo a dover fare i conti con gli anti depressivi oltre a dei sedativi ipnotici, che pensavo servissero solo da "effetto placebo".
Avevo scoperto che nessuno dei miei cosiddetti "amici" aveva scommesso che sarei arrivata dov'ero. Avevano tutti optato per l'altra opzione: il mio suicidio.

Lavoravo nel fioraio di mio padre, Gardner Pot e non era il nome del negozio. Quello si chiamava "Daisy's Flowers". Era stato aperto nel 1950 da mio nonno, qualche anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in una bella giornata primaverile, mentre cantava "Daisy Bell" di Harry Dacre da cui poi aveva preso il titolo della sua attività. Mio padre aveva scelto di conseguenza quale sarebbe stato il nome della sua unica figlia.
"Daisy, Daisy, give me your heart to do. I'm half crazy, hopeful in love with you"  cantava ogni mattina, mentre preparava due grosse tazze di caffè lungo e il profumo del bacon si infiltrava nelle mie narici. Spesso ripeteva quelle poche parole, alcune volte metteva sul giradischi il vinile della canzone cantata da Gerald Adams.
Un infarto all'età di sessantuno anni aveva portato via l'unica persona che si fosse mai veramente presa cura di me.
Era in un ufficio postale per spedire una lettera ad un signore, un vecchio amico che amava ricevere la posta e che avrò visto un paio di volte da bambina. Lo faceva una volta ogni sei mesi circa e non riceveva mai risposta.

«Daisy, puoi sistemare quei nastri nello scatolone? Sono appena arrivati.»

«Certo, Bonnie.»

Bonnie Harvey era la donna che mio padre aveva conosciuto, amato e considerato sua compagna dopo il divorzio. Alta poco più di me, aveva dieci anni in meno di papà. I suoi capelli mori erano sempre tenuti su in un'acconciatura molto cotonata e tipica degli anni '60. Avevo passato tutta la mia adolescenza con lei a farmi da figura materna, eppure non aveva mai preteso di essere chiamata "mamma" e la ringraziavo per questo. Con la morte di mio padre avrebbe potuto benissimo prendere le sue cose e andarsene, ma non l'aveva fatto. Non erano sposati, convivevano soltanto.
Quando le chiesi se se ne sarebbe andata, rise mentre piangeva e mi stringeva a sé con affetto. Poi non disse nient'altro e andammo avanti con le nostre vite e a portare avanti il fioraio.

«Stasera che piani hai?» mi chiese Bonnie mentre sistemava dei vasi appena arrivati sopra gli scaffali.

«Pensavo di fare qualcosa di nuovo, qualcosa di completamente diverso dal solito e che mi stimoli di più a vivere a pieno la mia vita» scricchiolai le nocche, «tipo starmene in camera mia ad ascoltare musica e leggere» risposi sarcastica e nel frattempo presi i rotoli da appendere. Bonnie alzò gli occhi al cielo mentre creava con le labbra una smorfia di disapprovazione. Non era colpa mia se preferivo stare da sola, in una camera per una persona, su un letto con un materasso da una piazza singola. La vita era stata ingiusta con me, stavo solo seguendo le orme della mia solitudine.

«Stavo pensando di andare fuori per cena e poi vedere un film al cinema» propose lei mentre vaporizzava le piante. «Sono mesi che non facciamo qualcosa di diverso dal solito» commentò poi guardandomi.
Sospirai, cercando di mantenere la calma. Aveva veramente parlato di mesi... a me sembrava solo qualche giorno fa.

«Papà se n'è andato da poco, ricordi?» rispondo, cacciando indietro le lacrime.   Bonnie appoggiò lo spruzzatore sul ripiano dell'espositore e si girò completamente verso di me. In quel momento mi maledissi per averlo nominato con così poco tatto.

«Non avrebbe voluto vederci così e tu lo sai. Avrebbe voluto che...»

Non la lasciai finire.

«Lui non avrebbe voluto morire, innanzitutto, lasciandoci con questo negozio a drenare tutti i suoi e i nostri risparmi. Ma è successo, e l'attività sta fallendo per colpa mia che non so come diamine si porta avanti. Quindi no, stasera non mi va proprio di uscire...»  conclusi. Bon si avvicinò a me e mi prese tra le sue amorevoli braccia. Perché era tutto così difficile? Quando papà era vivo non era così. Si portava tutto questo peso sulle spalle? Perché non ne sapevamo niente?

«Vedrai che si sistemerà tutto, dobbiamo solo farci il callo e andrà tutto bene, ma non possiamo restare nascosti in casa per sempre. Tu, alla tua età poi, dovresti divertirti!»
Rimasi ancora per qualche minuto abbracciata a lei, incapace di ribattere, fino a quando il tintinnio del campanello non risuonò nel negozio.

«Buongiorno!»

Bonnie diede il benvenuto al cliente, un signore sulla trentina, mentre si sistemava dietro il bancone. «Come posso aiutarla?»

«Un bel mazzo di fiori, faccia pure lei la composizione. È per chiedere delle scuse» rispose lui, avvicinandosi.

«Posso scrivere il bigliettino intanto?»

«Certamente! Daisy, i bigliettini devono essere nello stesso scatolone dei nastri, puoi passarmeli?» mi chiese mentre iniziava a prendere le decorazioni per una composizione di rose bianche, camelie rose e orchidee multicolore.

Più tardi quel giorno, all'orario di chiusura, Bonnie mi chiese nuovamente se avessi la minima voglia di uscire. Scossi la testa e dopo averle augurato una buona serata, visto che lei era ancora convinta di voler passare la sera fuori, mi incamminai verso casa. Svoltai a destra dopo essere arrivata alla fine della strada e iniziai a tirare fuori le chiavi dalla tasca posteriore dei jeans. Mi palpai entrambe le chiappe fino a quando non mi accorsi di non avere le chiavi. Controllai anche le tasche della giacca, ma trovai solo il mio coltellino svizzero e il cellulare.

«Merda» imprecai guardando per terra attorno a me. Presi gli occhiali da sotto la sciarpa e li indossai. Ripercorsi i miei passi, tenendo il capo chino e imprecando nei modi più colorati e vivaci possibili. La flebile luce della luna più quella dei lampioni non bastavano a illuminare la strada per una talpa come la sottoscritta.

«Stai cercando queste?»

La voce proveniva davanti a me. A pochi passi si trovava un ragazzo piuttosto alto, nascosto nella giacca di lana scura e dal berretto. Teneva in alto il mio mazzo di chiavi.

«Sì, grazie» dissi avvicinandomi a lui. Dopo essermi ripresa le chiavi, lo salutai e girai i tacchi per ritornare a casa.

«Mi chiamo Weston, comunque» disse lui quando mi ero già allontanata di qualche passo.

Mi girai. «Io sono Daisy. Grazie ancora per le chiavi, Weston.»

«Sono nuovo in città e mi chiedevo se ti andasse di vederci qualche volta. Sembri una ragazza simpatica e io vivo qui nei dintorni» mi propose il ragazzo, avvicinandosi a me.
Titubante, scossi un po' la testa. «Non penso sia una buona idea...»

«Perché? Hai un ragazzo geloso?»

«N-no! Io semplicemente non sono brava a fare amicizia»

«Allora fammi da cicerone. Ne avrei bisogno. Domani?»

«Ehm, va bene ok» sospirai prima di accennare un mezzo sorriso. «Domani stacco alle cinque del pomeriggio. Ci vediamo qui?» gli chiesi.
Lui ghignò e si guardò attorno prima di puntare il dito per terra. «Proprio qui?»

Feci un cenno con la testa, guardando verso l'insegna del negozio. Weston si girò e mi chiese sorpreso: «È tuo?»

«A domani, buona serata Weston» mi congedai e questa volta non mi girai quando lo sentii salutarmi a sua volta.

«A domani, Daisy.»

Una volta a casa, un minuscolo edificio indipendente fatto di due camere matrimoniali, un bagno e una cucina con soggiorno, mi fiondai a letto dopo aver accaparrato un pacchetto di patatine al formaggio dall'armadietto.
Mi sdraiai sul materasso, calciai le scarpe pesanti dai piedi e presi il telefono dalla tasca e il coltellino svizzero.
Con il dito cominciai a scorrere a destra sull'app di incontri fino a crollare dal sonno.

***

«Non è possibile» mormorai a bassa voce.
Squadrai il ragazzo davanti a me: era bruno e i suoi capelli lottavano fra di loro nonostante fossero lisci e spiccavano sulla sua pelle chiara; i suoi occhi attenti erano leggermente distanziati e marroni; le sue sopracciglia, invece, erano folte e poco curate; la mandibola era ricoperta da uno strato di barba inconsistente, ma sarebbe riuscita indubbiamente a spaccare le pietre; a decorare il suo viso in modo unico erano le sue labbra leggermente carnose e il suo naso dalla forma perfetta per i suoi lineamenti. Non sembrava una persona di origine britannica. Il suo aspetto si adattava di più al clima italiano, ma il suo accento non ingannava nessuno.
Tanto meno i suoi vestiti: camicia celeste scuro, larga a maniche lunghe, bretelle marroni e berretto in lana grigia.

«Ma in che anno pensi di essere?» Mi chiese Arrow, visibilmente confuso.
Era la prima volta che una mia premonizione avesse a che fare con qualcuno proveniente da un passato lontano e per niente collegato alla mia vita.

«Non sono della tua epoca... io non dovrei conoscerti» risposi titubante e a scatti. Poi mi bloccai. Avevo visto abbastanza film e serie televisive su viaggi nel tempo per sapere che qualsiasi cosa gli avessi rivelato avrebbe potuto cambiare la storia dell'intera umanità. Per un momento mi sentii quasi importante, poi mi ricordai che "da un grande potere derivano grandi responsabilità" e all'improvviso avrei voluto solo evaporare nel nulla.
Io e le responsabilità non andavamo d'accordo.

«Devo svegliarmi...» sussurrai tra me e me.

«Come scusa?»

«Devo svegliarmi!» condivisi ad alta voce con Arrow.
Mi alzai di scatto dalla sedia ed uscii dalla tavola calda.
Un'improvvisa via vai di macchine d'epoca mi bloccò ancor prima di attraversare la strada e rischiare di essere investita.
Quando abbassai lo sguardo, notai che la mia bellissima maglietta con la scritta "Delorean" era inserita in una gonna al ginocchio, dalla vita alta, di colore crema e svasata. Per non parlare delle scarpe.
Evitai di portarmi la mano nei capelli per non scoprire in che modo fossero stati acconciati.
Tutto in quel sogno, che sicuramente non era mio, profumava degli anni quaranta prima dell'inizio della guerra.
Quello era sicuramente di Arrow e la mia abilità di errante dei sogni mi aveva portata lì.
Quando capii di non riuscire a svegliarmi, Arrow mi aveva appena toccato la spalla.

«Va tutto bene?» chiese.

Annuii.
«Sì» dissi mentre mi giravo e riportavo gli occhi su di lui. Dietro di noi, davanti al tavolo dove eravamo seduti, la cameriera si guardava attorno per trovarci. «Mangiamo?» domandai ad Arrow prima di mostrargli la povera donna che in quel momento si stava chiedendo che cosa ne avrebbe fatto dei piatti che aveva in mano.

«Tu vieni dal futuro, vero? Un futuro molto futuro?» balbettò.
Il modo in cui Arrow mi porse quella domanda sprigionò un'energia piena di speranza. Poi collegai i fatti: lui stava vivendo sulla sua pelle uno dei massacri più grandi nella storia dell'umanità e vedere me, ragazza inglese provenire dal futuro, doveva essere una goccia di speranza.
Mi schiarii la gola e lo invitai di nuovo.

«Se non andiamo a mangiare la cameriera potrebbe riportare indietro i piatti. E non mi piace parlare a stomaco vuoto. Divento sempre parecchio scorbutica.»

||Jo||

Dopo Helen, Allison, Everly e Astrid, eccovi la mia nuova bimba: Daisy.

In alto trovate un'altra canzone: Daisy Bell!

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, un commento è sempre gradito! :-)

Alla prossima!
Stay awesome!
-Jo

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