La nuova casa in campagna

Era da tanto che aspettavamo di tornare tutti insieme nella casa in campagna.

Era il giusto pretesto per ritrovarsi fra amici dopo tanto tempo.

Fra tutti gli impegni quotidiani, siamo stati in grado di prenderci un momento per rilassarci lontani dalla frenesia della città.

I tuoni risuonano nell'aria e dalle finestre intravediamo i lampi e i fulmini che illuminano il cielo come se fosse giorno.

I vetri sottilissimi tremano fra lo stucco a ogni fragore ma noi, all'interno della casa, ci sentiamo protetti e rimaniamo sereni.

I candelabri illuminano fiocamente il salotto nel quale tutti discutono di argomenti frivoli come il calcio o il comportamento dei propri figli.

Il camino aiuta l'illuminazione della stanza e fra lo scoppiettio della legna umida ascolto lo scrosciare dell'acqua nei condotti della grondaia.

Il ferro risuona e i suoi suoni metallici acuti risaltano nella sinfonia melodica.

Prima dell'arrivo dei musicisti con i loro strumenti, la campagna taceva cullata solo dal cinguettare del pubblico degli uccelli che attendeva questo spettacolo sinfonico che sarebbe iniziato più tardi.

Il calore del fuoco mi avvolge e il divano di stoffa imbottito, nonostante sia visibilmente polveroso, mi abbraccia amorevolmente e sto quasi per addormentarmi.

Sono stanco: per tutta la giornata mi sono impegnato a giocare e sono molto determinato in qualsiasi sciocchezza che prendo come personale sfida quotidiana.

Sono davvero assonnato: non abbiamo nemmeno cenato e...

Mi sto assopendo sul divano.

Basta, è ora di andare a letto per me.

Tentando di non dare nell'occhio chiamo Sebastiano che afferra la mano che gli porgo e viene con me.

Esco dal salotto e mi ritrovo nell'atrio della villa ben illuminato da un lampadario con una sfarfallante luce fredda.

I soffitti qui sono molto più alti e spioventi segnano il confine con il tetto al quale è appeso il gigantesco lampadario e le parenti, forse per la luce, forse per l'età, sono visibilmente ingiallite.

A destra noto che nel soffitto del primo piano c'è un buco che delimita un soppalco.

Guardo Seba e noto che si è perso ad ammirare lo stile della mia nuova casa, antiquato ma originale.

Lo strattono per una mano e i suoi occhi castani mi fissano con aria confusa.

«Andiamo, su!» gli dico.

Con una mano sposta scocciato il suo ciuffo di capelli neri e mi segue.

Una volta giunto sotto il vuoto del soffitto del primo piano, comprendo che quello è l'unico accesso al piano di sopra.

Appoggiato al muro di destra, c'è posto in verticale una specie di materasso a triangolo rettangolo che, nel lato non appoggiato alla parete, è metallico e presenta diversi scomparti apribili.

Quello è l'unico oggetto che conduce a quel soppalco.

Guardo il mio amico abbronzato, perso ancora nelle sue mirabolanti avventure estive e lo invito a salire: «Lassù c'è camera mia. Se vuoi riposarti devi venire con me. Fai attenzione però! La scala è molto instabile perché non è sorretta da nulla. Appoggiati alla parete con una mano e cerca di stare dritto e non perdere l'equilibrio: non ti consiglierei di cadere dall'alto, non so quanto potresti farti male...»

Sebastiano aggrotta le sopracciglia ma sembra abbia preso alla lettera il mio discorso.

Alzo il piede e salgo sul materasso avvertendo tutta la sua instabilità.

Non è fissato in alcun modo e l'unica forza che ci ha sempre aiutato a tenerlo in piedi è la gravità.

Spingo forte i piedi e salgo la molle scala velocissimo per evitare di piegarla troppo.

Mi tengo stretto al muro e cerco di aderire con il fianco destro per non rompere l'"equilibrio" delle scale.

Giunto al piano di sopra mi siedo a con le gambe a cavalcioni del soppalco di cemento intonacato mentre aspetto che Sebastiano mi raggiunga.

Lo fisso mentre, in seria difficoltà, sale il materasso triangolare che, ora che non ci sono più sopra, si mostra ancora più instabile.

All'improvviso, circa a metà del percorso, Seba sgrana gli occhi e si volta a guardare indietro.

Quando scatta di nuovo la testa in avanti, mi guarda e inizia a correre staccando la mano dal muro.

«Ma che cazzo è?» mi domanda.

Non appena poggia i piedi sul ripiano più alto del soppalco, il materasso cade rovinosamente a terra.

Nel mentre, tutti i suoi comparti si aprono e tutto il cibo contenuto all'interno del materasso scivola fuori.

Quel materasso scala è anche il nostro frigorifero!

Fra tutti gli alimenti, vedo rotolare delle carote e delle gambe di sedano fra il lago di burro e panna da cucina.

Seba è in piedi di fianco a me e fissa dall'alto del primo piano il guaio che ha appena combinato.

«Cosa ti avevo detto?! Ti sei staccato dal muro, è instabile, è normale che sia caduto! Adesso come faremo a scendere?!»

Il mio tono si accende e sento la mia faccia scaldarsi.

Le vene sulle mie braccia si accrescono e mi alzo in piedi fissandolo negli occhi.

«Ormai il guaio è fatto!» gli dico mostrandogli con il palmo aperto la catastrofe che ha causato pochi istanti fa.

Guardo alla mia sinistra e un lampo illumina un vecchio materasso ammuffito vicino al muro sotto la finestra.

Mi avvicino e l'odore di intonaco umido mi avvolse e, disgustato, torno a guardare Seba.

Fisso il materasso umido con la testa e gli dico: «Questo fa cagare, se vuoi puoi dormirci tu...»

Poi gli indico con il braccio il varco che conduce a una camera buia a sinistra.

«Oppure vieni in camera nostra, i letti son più comodi e si sta al caldo perché siam sopra al salotto».

Lo squadro nuovamente e vedo che non si è ancora ripreso dall'esperienza accadutagli poco tempo fa.

Ha la bocca aperta e due bianchi occhi pallati che illuminano insieme alla fioca luce, proveniente dal lampadario del piano di sotto, il suo viso scuro.

«Io son stanco, vieni a farmi compagnia?»

Giustamente noto il suo sguardo confuso in seguito alla mia innocente domanda ma, dovrei capire che, effettivamente, non avrebbe nessun motivo logico per dovermi accompagnare a letto.

«Se vuoi stai, se vuoi vattene, lì ci sono i letti fai quello che vuoi...»

Mi butto di peso sul materasso all'angolo fra la porta e il muro di destra.

La finestra sopra di me illumina con i lampi la stanza e Seba scruta con il suo solito sguardo perso i due letti a castello di legno di frassino con i quattro materassi spogli.

Poco dopo essermi coricato sul fianco, sento il suono di un organo risuonare nell'aria umida di quella serata.

Già rattristato per la caduta del materasso-scala, le incantevoli note di quell'organo mi toccano nel profondo.

Nessuno lo sta suonando, nessuno se non io ne è capace e quindi ciò significa che questa dev'essere una semplice registrazione.

Nonostante tutto, quella melodia in minore mi avvolge e quegli accordi mi fanno avvertire un nodo alla gola.

Il mio volto si corruga e scoppio in lacrime sul letto abbracciando il lato del materasso.

Seba, in piedi, continua imperterrito nel suo fissarmi con aria stralunata.

Dal piano di sotto avverto una voce femminile: «Luca, sbrigati: stiamo per iniziare il rito funebre!»

La mamma mi sta chiamando.

Mi sono assentato proprio poco prima dell'inizio del fulcro della serata e mi sono trascinato dietro Seba che, per ora, ha causato solo guai estinguendo la nostra riserva alimentare, ma ha anche distrutto il mezzo architettonico che, sebbene fosse instabile, ci permetteva ogni giorno di poterci recare alla camera da letto.

«Mamma!» rispondo in lacrime al suo richiamo.

Mi alzo dal materasso e mi fiondo fuori dalla stanza.

Mi sporgo dallo strapiombo del primo piano e le domando gridando al massimo delle mie corde vocali: «Perché mamma non abitiamo più nella nostra casa gialla? Quella di via Volta! Quella con i pavimenti, i letti con le coperte, le finestre spesse, il riscaldamento, le porte, le ringhiere, i parapetti e soprattutto le scale stabili con i gradini?! Perché siamo venuti a vivere qua?! Cosa cazzo vi è saltato in mente di venire a vivere in questa merda!»

Mi protraggo in avanti e fisso al pianterreno il disastro causato da Sebastiano.

Mi volto e lo fisso con rabbia mentre si avvicina a me.

Il materasso triangolare ora giace inclinato sopra alle valanghe di cibo fuoriuscito dai suoi scomparti.

«Mi dici, ora che hai causato tutta questa merda, come cazzo facciamo a tornare giù?!» domando sbraitando a Sebastiano.

«Così...» mi risponde deridendomi.

Si avvicina coi piedi al limite dell'apertura del soffitto, divarica le gambe, mi spinge violentemente indietro con la mano, piega le ginocchia e salta di sotto.

Sento un tonfo lieve pochi istanti dopo.

Mi avvicino allo strapiombo e lo vedo atterrato sul materasso triangolare illeso.

Le note dell'organo, nel frattempo, si fanno più intense.

«Muoviti che ci perdiamo il rito» mi dice facendomi fretta con la mano.

Gli sbruffoni mi fanno davvero incazzare, poi in una situazione del genere...

Faccio due passi indietro e corro verso la fine del pavimento.

Salto nel vuoto e lui mi tende le braccia come se volesse prendermi al volo.

Poi, invece, si sposta e cado, per mia fortuna sul materasso.

Lo fulmino con lo sguardo e mi alzo in piedi.

Proseguiamo sul corridoio e, entrando a sinistra, noto che il salotto è stato completamente stravolto: le luci dei candelabri sono dimezzate, a fianco della porta c'è un altare in legno con un dipinto completamente nero e tutti gli ospiti della nostra casa girovagano fra la sala, ora molto più lunga del salotto in cui ci trovavamo pochi minuti prima.

Ci sono dei banchi di legno con inginocchiatoio in tessuto nero disposti in due navate.

Le finestre del salotto sono diventate vetrate smerigliate gotiche e la tempesta continua imperterrita nella sua melodia di tuoni e lampi unendosi al forte suono dell'organo che prosegue nell'esecuzione del suo brano.

Fra tutti gli invitati, scorgo Marco, il mio ex vicino, sedersi a un banco: indossa una lunga tunica nera con cappuccio.

Io e Seba ci guardiamo letteralmente spaesati.

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