Roulette Russa

Uno scatto, un rumore strano. Plastica e ferraglia – meccanismi inceppati. È il suono nitido del registratore che si blocca, che frena sul nastro marrone e arresta il lato A. Subito dopo, un grugnito leggero. Nella stanza si leva l'imprecazione mozzata del Dottor Parrish. E gli occhi di Jae non si muovono di un millimetro. Osservano, fanno ciò che possono e con una perizia tale da sfiorare l'ossessione. Nodi di legno lucido si arricciano in volute chiare, concentriche, e seguono la spirale degli anni nel tirassegno che è la scrivania del Dottor Parrish. Per un attimo immaginano il colare lento della resina, il frinire delle cicale in piena estate, la scorza dura della corteccia arrostita dal sole. E si perdono, sì, si allontanano senza dire niente. Poi si risvegliano. Il torpore passa nel dimenticatoio.

«È uno strano sogno» borbotta il Dottor Parrish. Si schiarisce la voce e allunga una mano per tirare a sé il registratore.

«È solo un sogno» mormora l'interpellato. Gli occhi stanchi, affaticati, mentre solleva di poco le labbra in quello che sembra solo l'ombra di un sorriso. «Non è così importante» aggiunge in un soffio. Minimizza l'essenziale e non ricorda una sola parola dell'intero discorso. Poi batte le palpebre, si stringe nelle spalle e continua a fissare la diffidenza che trasuda la fronte del Dottor Parrish. Sa di aver raccontato un mucchio di balle, ma dopotutto non può rischiare di raschiare il fondo del barile con la propria vita.

«Lo è, invece.» Picchietta le dita sul marchingegno, pare volersi accertare della fine del nastro. Infine sospira, apre lo sportelletto e gira la cassetta senza azionare la registrazione. «Per oggi abbiamo finito» dice. Lancia un'occhiata all'orologio che spicca sulla parete alle spalle di Jae e lo vede annuire piano. Una lentezza disarmante, perlomeno a detta del Dottor Parrish. La verità è che vorrebbe abbandonare lo studio del Community Psychiatric Center in fretta e furia per tornare a casa e scolarsi una birra in santa pace.

«Abbiamo finito» echeggia Jae. Pondera in silenzio. Le labbra strette in una morsa confusa, quasi agitata. «Perché continua a chiedermi di venire qui, Dottor Parrish? Sono trascorse due settimane dal primo appuntamento!» Solleva lo sguardo su di lui e lo scruta. È gelido come il ghiaccio, imperturbabile. «Mi fa parlare a ruota libera, raccontare qualche sogno e poi basta, fine del discorso – fine della seduta.»

«Cos'altro dovrei fare?» Il Dottor Parrish aggrotta le sopracciglia.

«Niente, è per questo che non comprendo il motivo delle sedute» lo rimbecca atono.

«Il motivo c'è» sostiene l'interpellato. Serra la mandibola e solleva il mento. Poi si schiarisce la voce e si tira in piedi. Guarda ancora l'orologio alle spalle di Jae, cerca di mettergli fretta e chissà come ci riesce. Così gli vede tirare fuori un paio di banconote stropicciate dalla tasca della felpa, posarle sul tavolo e sospirare.

«Il motivo c'è, certo...» borbotta. Si alza in piedi e con uno scatto felino raggiunge la porta dello studio. «Arrivederci, Dottor Parrish.» Schiocca la lingua, non si volta nemmeno a guardarlo. Nelle vene sente scorrere una strana frenesia che non riesce a catalogare. È fatta di rabbia, d'indignazione – oh, lui odia le prese in giro e sa di essere psicologicamente sano. Quel motivo di cui parla il Dottor Parrish non esiste. E vorrebbe mandare all'aria la sequela d'inutili appuntamenti che gli sono imposti, ma prima deve decidersi a consegnare a Gordon Dragon il fascicolo su Benjamin.

«Arrivederci.» E non è più tranquillo, non è più sicuro di sé. Deglutisce, sembra vacillare sul posto. Quando la porta si chiude, allora, si lascia andare a un sospiro di sollievo. Pare che la paura lo stia abbandonando dopo averlo attraversato come un fulmine da capo a piedi. E infila il cappotto, spegne la luce che illumina la scrivania, infila i soldi di Jae in tasca. Torna a pensare alla birra, al comodo divano che lo attende a Gettysburg Street. Quando esce dallo studio fa tintinnare le chiavi dell'auto un paio di volte e prende l'ascensore fino al piano terra. Saluta in segreteria con un borbottio assorto e poi fila via dal Community Psychiatric Center. Raggiunge il parcheggio, si ferma, fischietta con aria assorta e punta dritto alla BMW. Prima di raggiungerla, tuttavia, sente la voce di Jae chiamarlo e sobbalza sul posto. Dice: «Buon Dio...» Trattiene il respiro, infine aggrotta le sopracciglia. «Greenwood, cosa ci fa qui?»

«La stavo aspettando» ammette. Si sistema lo zaino sulla spalla destra e lo scruta in silenzio. Lame di ghiaccio che fendono l'aria che lo fanno deglutire a vuoto. «Ho fatto una telefonata a un amico per venirmi a prendere e mi chiedevo se volesse aspettarlo assieme a me.» Nel suo sguardo vede un lampo di terrore. «Dottor Parrish?» Inclina la testa da un lato, si finge perplesso, dubbioso, quasi innocente.

«Vado di fretta» dice questi. «E non sono solito intrattenere conversazioni con i miei pazienti al di là del Community Psychiatric Center.» Si schiarisce la voce, tenendo lo sguardo fisso su Jae, e si avvicina lentamente alla BMW.

«Che peccato» mormora. «Vorrà dire che aspetterò qui da solo» dice. Si appoggia al rialzo di un piccolo marciapiede divisorio e posa gli avambracci sulle ginocchia. «Mi avrà sulla coscienza...» aggiunge. Lo vede tentennare, poi sospirare e infine retrocedere a denti stretti.

«Non dovrei parlare con i miei pazienti al di fuori dell'orario di visita» spiega. Si ferma in mezzo al parcheggio semideserto e sospira. Pensa ancora alla birra, alla partita di rugby in tv. Sciocca la lingua, scuote la testa e grugnisce. «Si alzi, non ci si siede in terra» sbotta, arricciando perfino le labbra.

«Volevo chiederle una cosa» aggiunge Jae. Batte le palpebre una sola volta e ha come la sensazione che il Dottor Parrish possa fuggire da un momento all'altro – ha paura, è evidente, e forse non è neppure la prima volta che qualcuno tenta di minacciarlo fuori dal Community Psychiatric Center.

«Non posso farle compagnia» stabilisce. «Cinque minuti, non di più» borbotta infine.

«Grazie, ma non è questo che volevo chiederle.»

«Cos'altro?»

«Lei conosce Benjamin Dragon, vero?» Lo vede impallidire di colpo e deglutire a vuoto. E nel momento stesso in cui sposta il proprio sguardo verso sinistra, su Steven, sente il rumore sordo di uno sparo. Sgrana gli occhi, annaspa. Fissa il corpo di Adam Parrish che cade in terra come un sacco di patate, il sangue che schizza, la punta delle sue scarpe lucide che si muove appena e poi si ferma. «Cristo!» Boccheggia. Sente l'odore ferroso del sangue, il lento scivolare di quest'ultimo sul viso. E sposta gli occhi dal cadavere di Adam Parrish ai propri vestiti. «Che cazzo...» Non riesce a trovare altre parole e continua a borbottarne di simili anche quando Steven gli si avvicina per serrargli un braccio.

«Corri, cretino!» Sbotta a denti stretti.

«Gli hai sparato» soffia. La gola strette in un nodo, il panico che sale. «C'è la mia voce sul nastro che ha registrato prima di uscire dal Community Psychiatric Center!»

«La segretaria ha già fatto sparire tutto» fa sbrigativamente Steven. Apre la portiera di guida di una semplice utilitaria e guarda Jae che, immobile, continua a fissarlo. «Cazzo, ragazzino, muovi il culo o no?» Schiocca.

Jae annuisce. Le labbra serrate e il respiro accelerato, veloce. Ogni istante è un'impennata di emozioni diverse. E mentre sale in macchina, gli occhi continuano a vedere il sangue di Adam Parrish che saetta in aria. Una scena assurda della durata di un secondo o poco più. Deglutisce, poi mormora: «Sicuro?»

«Sicuro.» Steven capisce subito a cosa si riferisce, così schiocca la lingua. Mette in moto l'auto e sgassa. «Adesso tira fuori quel cazzo di fascicolo, ragazzino.» Gli lancia un'occhiata di sguincio e gli vede aprire lo zaino. «Bene, mettilo nel cruscotto» dice. Sospira, infine ridacchia a denti stretti. «È la prima volta che vedi morire qualcuno?»

«In questo modo sì» ammette piano. L'unico cretino che ha visto morire aveva un ago in vena e la bava alla bocca – overdose sotto un ponte di periferia.

«Abituati» borbotta Steven. «E sbrigati a farlo, dico davvero... Te sei il topo di Gordon Dragon, diamine. Dovresti fare anche pratica a dirla tutta, magari mettere su un po' di muscoli.»

Jae non risponde, fissa fuori dal finestrino e poi si pulisce la faccia sporca di sangue con i fazzoletti che gl'indica Steven. «È necessario?» Chiede con leggero ritardo. Gli sente emettere una nuova risata – questa volta più cinica della precedente.

«Diavolo, sì!»

«Capisco l'utilità degli attrezzi che mi sono arrivati in settimana, allora.» Cerca di cambiare discorso, ma non riesce proprio a dimenticare il tonfo del corpo di Adam Parrish. Ha soltanto voglia di fare una doccia e infilarsi a letto, altro che girare con Steven.

E lui lo sa, lo percepisce. Dice: «Broad Street, immagino.»

«Sì» soffia.

«Dovresti presentarti a Gordon Dragon di persona, se vuoi sapere come la penso.» Steven dà un parere non richiesto e per giunta continua: «Mostrati con le palle, non come una femminuccia – lui odia quelli che non hanno le palle.»

«Va bene» mormora. «Se è per lavoro va bene» ripete. «Ma non voglio finire nei guai...»

«Sei nei guai dal momento in cui hai messo piede nella villa dei Dragon, ragazzino. Ma è anche vero che solo i Dragon possono assicurarti di non finire dietro le sbarre.»

Jae deglutisce e subito dopo annuisce in silenzio. Serra i denti e solleva lo sguardo verso il parabrezza, lungo la strada illuminata cui sfreccia l'auto di Steven. «D'accordo, ricevuto» dice a denti stretti. «Allora sarò io a dare il fascicolo a Gordon Dragon.» E la sola idea lo fa rabbrividire. Indossa un'espressione seria, impassibile, ma solo per dissimulare la tensione, solo per dare un senso al battito cardiaco sovralimentato dall'adrenalina.

Ha passato giorni interi a ficcanasare tra le confidenze di Benjamin, se ne rende conto soltanto ora che ha infilato il suo fascicolo nel cruscotto, e non osa immaginare la reazione di Gordon. Ciò che lo tranquillizza, però, è il fatto di averlo manomesso preventivamente per insabbiare le tracce della relazione che questi ha avuto con suo nipote Richard – o forse dovrebbe farlo tremare, chissà.

Lo stereo si spegne. Basta un gesto, un piccolo click, per metterlo a tacere. E Zackary sbuffa, rivolge un'occhiataccia a Benjamin. Arriccia le labbra in una smorfia di disapprovazione, infine sbuffa.

«Non ti piace la musica che ascolto?» Chiede piano. I jeans ancora slacciati e una mano salda sulle magliette impilate dell'armadio. Lui è là, tra le due ante aperte, e osserva Benjamin con aria assorta, crucciata. Le sopracciglia appena aggrottate e l'ansia che sale lentamente fino ad annebbiargli il cervello.

«Ho mal di testa» soffia l'interpellato. «Mi piace la musica che ascolti, Zack, ma non riesco a ragionare con un sottofondo di chitarra elettrica.»

«Non è una semplice chitarra elettrica» schiocca divertito. Sorride e gli si avvicina dopo aver optato per una semplice felpa nera. «Quello è l'assolo» sottolinea. Storce le labbra, poi s'infila la felpa e indica lo stereo con un indice ben teso. Dice: «November Rain, Guns 'N Roses.»

«Lo so» interviene Benjamin. E sospira, allunga le mani per circondargli la vita e avvicinarselo senza troppa fatica. Lo sente ridacchiare e scioccare la lingua.

«Lo sai, eh?» Scuote la testa, poi gli solleva il viso e sorride. Lo guarda negli occhi e mormora: «Le mie ripetizioni ti sono entrate in testa, vedo.»

«Non ho bisogno di ripetizioni» borbotta in tutta risposta, allungando il mento in avanti per vedere le labbra di Zackary ritrarsi senza remore. «Non vuoi baciarmi?» Domanda.

«Chi lo ha detto questo?» Schiocca. «Devi solo riuscire a catturarmi.» Ride di nuovo, questa volta più divertito di prima. E cerca di allontanarsi con uno scatto, sente nell'aria ancora l'assolo di November Rain. Non riesce a sfuggire, perché le dita di Benjamin scattano sul suo polso e lo fanno rimbalzare come uno yo-yo. Allora torna a fissarlo negli occhi e in un attimo muta espressione. «Cosa c'è, Ben?»

«Tu sei mio, Zack, vero?» Soffia. Gli vede battere le palpebre con perplessità, poi deglutire a vuoto.

«Perché me lo chiedi?»

«Sei mio, vero?» Ripete.

«È una domanda sciocca, Ben» soffia. Gli carezza una guancia e si avvicina. Sulle sue labbra mormora: «Ovvio che sì.» E sorride, non lo bacia. Posa semplicemente la fronte contro la sua e lo guarda negli occhi.

«Allora non andare» dice. «Non uscire, non andare lì, non spogliarti per nessun'altro che non sia io.» Gli vede battere le palpebre, sente il suo respiro sul viso e poi il leggero divertimento che gli batte addosso.

«Sei geloso?» Chiede, trattenendo una risatina. «Ci siamo conosciuti al Karma-Log» aggiunge piano. «E i lavoro è pur sempre lavoro – lo dici spesso anche tu.»

«Adesso la situazione è diversa» sibila. Serra maggiormente le dita sul polso di Zackary e osserva il mutamento della sua espressione. «Gordon si è concentrato sulla faccenda dell'appalto, ha raggiunto i piani alti e ha tolto di mezzo il tramite – Adam Parrish...» La sua voce si affievolisce. Per un attimo ha come il sentore che quell'assassinio sia una mossa azzardata, ma deglutisce e ricaccia indietro ogni obiezione. Sorride. «Mi ha concesso di gestire il traffico per i prossimi mesi e sarò in grado di mettere da parte un bel gruzzoletto anche per te.»

«No, Ben...» Zackary si allontana. Lo guarda e serra i denti.

Benjamin è seduto sul letto, con indosso solo i pantaloni del competo grigio piombo e la camicia slacciata. Non ha affatto l'aria di qualcuno sicuro di sé, perché le sopracciglia sono corrugate e gli occhi dubbiosi. «Io non gioco alla roulette russa, lo sai» dice. «Non ti metterei mai nella merda, Zack.»

«E se Gordon volesse cambiare tipo di affari?» Accenna Zackary.

«Vorrà dire che mi occuperò del traffico da solo, come ho sempre fatto.»

«Una fetta per te e una per Adele» mormora Zackary. Scuote la testa, lo vede indurire i muscoli del viso e fa altrettanto. «Tu giochi sempre alla roulette russa.» Deglutisce e sente un brivido percorrergli la schiena. «Ti fidi così tanto di lei? E di Gordon?» Indurisce lo sguardo, poi continua: «Lui non si è mai fidato di te, neppure tu dovresti farlo...»

«Sta cercando di recuperare i rapporti» minimizza.

«O di farti fare il capro espiatorio» scandisce. «Mi hai detto di fingere di non sapere niente e l'ho fatto, mi hai detto di non parlare con nessuno – non che ce ne fosse bisogno, dopotutto – e ho fatto anche questo.» Prede un attimo per sé, per deglutire a vuoto. Sente la gola arsa, l'ansia che sale senza alcuna voglia di abbandonarlo. «Adesso perché non mi ascolti?»

«Perché sono l'unico Dragon che conosci e sono l'unico che può dirti come funzionano le cose in quella casa» fa lapidario.

«Non l'unico, no...» E gli duole ammetterlo, ma i modi di Richard sono terribilmente diversi da quelli di Benjamin. «Tu ti comporti come una persona normale, fai soldi con i resti che ti lascia tuo fratello, ma c'è qualcuno che mi ha detto cose diverse e che mi ha sempre parlato di cose diverse.» Si morde le labbra giustappunto quando Benjamin lo fissa negli occhi.

Le sopracciglia che quasi si scontrano tra loro e il respiro pesante. Chiede: «Parli di Rich?» E attende, lo vede annuire con un po' di ritrosia. Mentre l'osserva, allora, incalza: «Cosa ti ha detto di così diverso?»

«Lui si comporta come se il mondo sia suo, come se tutto e tutti gli gravitino attorno. Forse si sbaglia, forse no. Tu sai dirlo con esattezza? Sai cosa c'è nella testa di Gordon Dragon e in quella di suo figlio?» Restringe lo sguardo e rabbrividisce ancora. «Non voglio vederti dietro le sbarre, Ben.»

«A Gordon interessa il controllo assoluto» sillaba. «Dare ordini, vederli eseguire... Questo è ciò che interessa a mio fratello, Zack. Lui vuole il potere, vuole l'onnipotenza.» E deglutisce. Non riesce a sostenere lo sguardo di Zackary. Sposta gli occhi sul pavimento e lo sente sospirare. In mente ha ancora le parole di Adele e il modo in cui ha stretto le dita sulle ginocchia per chiudere la bocca e non indispettire Gordon. «Lui vuole il posto di Drake Dragon.»

«Chi di voi non lo vorrebbe?» Domanda piano Zackary. Quasi si pente di averlo detto, perché la voce di Benjamin è bassa, cupa, mentre risponde:

«Io. Non ho mai voluto essere come mio padre.»

Zackary deglutisce, poi chiude gli occhi e sospira. Sente la presa di Benjamin farsi più lenta, meno aggressiva. «Fin quando non avrai in mano le certezze che meriti, allora, non giocare alla roulette russa» soffia.

«Lo sto già facendo» ammette in un grugnito. «Hai ragione tu, Zack...»

«In che senso?» Chiede. Quando le dita di Benjamin abbandonano il suo polso, allora, batte le palpebre perplesso. E lo vede alzarsi alla svelta, iniziare ad abbottonare la camicia in fretta e furia. «Ben, cosa ti prende adesso?»

«Conosco Adam Parrish» sputa. «Il Dottor Adam Parrish» specifica subito. «Lavora al Community Psychiatric Center e allo Shadyside Hospital, è in contatto con dei consiglieri comunali – gente che si occupa della gestione economica, degli appalti...» Deglutisce, poi serra i denti. Rivolge le spalle a Zackary e si maledice mentalmente per le troppe informazioni che ha condiviso con lui fino a questo momento. «Tu non dovresti sapere niente di tutto questo, Zack, lo sai?»

«Lo so» mormora. Si siede laddove poco prima ha seduto Benjamin e l'osserva in silenzio. Si sente svuotato, stanco, come privo di forze. Il ronzio del silenzio pare assordarlo, ma l'idea di accendere lo stereo non è minimamente accettabile – forse ha ragione Benjamin, perlomeno così si dice, perché pensare con un assolo di chitarra come sottofondo non aiuta molto a ragionare lucidamente.

«Devo andare al Community Psychiatric Center» stabilisce d'un tratto, infilandosi la giacca e mancando di allacciarsi la cravatta che infila in tasca con un gesto secco.

«Per quale motivo?» Sussurra Zackary. La voce ridotta a un filo e la gola stretta in una morsa fastidiosa. Sente la paura percorrergli la schiena, le braccia, e poi entrargli nel cervello. È un segnale d'allarme che lo immobilizza e lo annichilisce sul posto. «Ben...» lo chiama, ma non ottiene alcuna risposta.

«Sto giocando alla roulette russa con Gordon Dragon, ecco perché» schiocca. «Tu hai ragione e io sono un completo idiota» sibila. Si allontana verso l'ingresso e subito dopo sente i passi di Zackary alle sue spalle.

«Vengo con te» dice.

«No.» Prende il cappotto e si avvicina alla porta.

«Perché no?» Domanda.

«Perché devo recuperare una cosa prima che sia troppo tardi» dice. Gela sul posto, rabbrividisce a sua volta. Ha come la sensazione che sia troppo tardi, perciò serra i denti e si volta a guardare Zackary. Torna indietro, lo afferra per il collo e se lo avvicina. Chiude gli occhi e soffia: «Se non mi vedi al Karma-Log, vattene immediatamente da Pittsburgh.» Gl'infila il proprio portafoglio nella tasca posteriore dei jeans e respira pesantemente. Turbato, affannato, con la testa su di giri, gl'impedisce di rispondere con un bacio che sa di disperazione. Poi retrocede, esce di corsa dall'appartamento e fa sbattere la porta alle sue spalle.

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