Perle
Jae detesta tanto perdere quanto ammettere i propri limiti – li ritiene semplici checkpoint della sua immaginaria partita a scacchi con il Diavolo, di una vita fatta di stenti, scommesse. E detesta anche le circostanze, il tempo, il pizzicore dell'inconscio che ogni tanto vacilla per farlo cadere nel vuoto. Oserebbe dire che perfino Richard Dragon sia parte integrante della traversata di passaggio – lui e la sua sfacciataggine da quattro soldi, lui e le sue pretese del cazzo, lui e la sua brama di onnipotenza fuori luogo. Tuttavia non riesce a scrollarselo di dosso e non riesce nemmeno a mettere in pausa il gioco. Sente le sue labbra bollenti lungo il collo, il sapore di Whiskey e fumo che gli gratta il palato, poi la preponderanza dei denti, delle dita che lo spogliano con foga e che lo cercano senza pudore fino a farlo boccheggiare. L'unica cosa che lo frena è l'incertezza, l'idea di essersi lasciato andare troppo facilmente. Ma nel momento stesso in cui si sofferma a pensare, nel momento in cui decide di mordergli la lingua, capisce che non esiste nessun checkpoint. Non ha vinto e non ha perso – non ancora. Se anche fosse, però, non gliene frega un accidenti.
«Sei fastidiosamente eccitante» mormora Richard, carezzandogli il lobo dell'orecchio con la punta della lingua. Poi scivola, gli bagna il collo, gli allenta la cravatta e sbottona la camicia. Socchiude lo sguardo, affonda il naso tra le punte scomposte, pallide come la neve, e gli morde una spalla scoperta. Allora lo sente annaspare appena e ghigna tra sé e sé, pieno di una soddisfazione senza eguali.
«Tu sei fastidioso e basta» replica in un grugnito, allungando una mano per tirargli i capelli. Socchiude le palpebre, lo fissa attraverso le ciglia scure e lo vede rilucere nella penombra. Il suo profilo illuminato dalle applique dell'ingresso lo fa assomigliare a una succube lasciva e gonfia l'erezione di Jae senza possibilità di negoziazioni.
Richard ride, pizzica la stoffa dei boxer scuri di Jae e lo vede arricciare il naso. Con le labbra schiuse, poi, si lascia andare a un grugnito passionale. E non impiega più di qualche istante per sfuggire alla sua presa e fiondarsi ancora sulle labbra umide e turgide che paiono invitarlo. «Quanto?» Chiede piano. Le mordicchia, le umetta, le profana ancora una volta fino a farle schiudere. E incontra i denti, la barriera di diniego. Lascia scivolare una mano sul suo collo sudato e con il pollice imposto sul suo mento gli fa aprire la bocca. A un passo da lì, sussurra: «Quanto sono fastidioso su una scala da uno a cento?» Ma non gli dà modo di replicare, non lo fa nemmeno pensare: lo bacia con rabbia, con furore crescente, mentre gl'impedisce la fuga con un ginocchio tra le gambe schiuse.
«Non basterebbe il cento, fidati» borbotta laconico. E vorrebbe dire altro, vorrebbe spingerlo a stare zitto, tuttavia non ci riesce. Lo sente ridere e chissà come ghigna a sua volta.
Richard azzanna il vuoto, vede la testa di Jae retrocedere di qualche centimetro e infine si abbassa, cerca il suo collo e lo trova, lo sugge forte. Le sue dita tra i capelli, sulla nuca, lo mandano su di giri. Perciò fa scorrere le mani sul petto di Jae, lo sente rabbrividire al tocco e se ne infischia del gelo della sera. Ghigna ancora. Chiede: «Hai freddo, Jae?» Ironizza, schiocca la lingua, lo schernisce. Sa che la sua pelle è bollente e che in ogni caso dovrebbe essere abituato a scopare all'aperto – ha o non ha vissuto sotto un ponte fino all'arrivo provvidenziale di Chase?
«È colpa tua» dice, mente, storce il naso in una strana espressione di diniego. «Ti facevo più passionale, più focoso...» Attende qualche istante, poi sposta il viso per mancare un ennesimo bacio e ridacchia. «Sei solo un cerino, Richard, attento a non consumarti in fretta – basta una folata di vento, no?» Solleva un sopracciglio, lo provoca, gli vede aggrottare le sopracciglia in un moto indignato e frustrato. Allora contrattacca, si solleva alla svelta e lo fa vacillare all'indietro.
In un tonfo, Richard cade sul pavimento di legno del portico e borbotta un: «Vaffanculo, Jae.» Poi si zittisce, lo vede sopra di sé e quasi perde un battito. Sente le sue labbra sulla punta del naso, sugli zigomi, sussulta e socchiude la bocca come per aggiungere altro. Eppure non parla, non mugola. Quando si muove è solo per allargare di poco le gambe, per sollevare le braccia e raschiare la schiena di Jae da sotto la camicia slacciata. «Chi ti ha detto che puoi stare sopra, stronzetto?» Lo apostrofa a mezza bocca.
«Io» mormora. «L'ho detto io.» E questo basta, perlomeno secondo Jae, perché Richard non replica e si artiglia, s'inarca, si lascia spogliare lentamente e tra le poltroncine di vimini appena spostate. «Qualcosa in contrario?» Domanda.
«Decisamente» schiocca. Lo guarda appena e lo vede appannato. Parla con voce bassa, arrochita d'eccitazione, quando dice: «Non sei nella posizione di dettare le regole, Jae.» Tuttavia si umetta le labbra, lo vede trafficare con la cinta di pelle dei pantaloni e non lo ferma fin quando l'aria della sera non gli sfiora i fianchi. E deglutisce, lo vede scendere verso il basso, mormorare sulla punta arrossata e tesa.
«Non me ne frega un cazzo.» Jae sorride, forse con spavalderia, poi fa scivolare la lingua fuori dalle labbra e lo vede fremere, indugiare, artigliare i polsini della camicia che stropiccia malamente in uno spasmo di attesa. Ghigna, infine lo accontenta e lo sente sospirare mentre, lentamente, lo fa scivolare nella sua bocca.
«Modera i toni con il tuo superiore...» borbotta. La voce spezzata, i denti di Jae che lo serrano alla base con fare capriccioso. E sussulta, boccheggia, osserva le travi di legno del portico. Per un attimo non sa che cosa diamine gli sia passato per la testa nel concedersi il lusso di una scopata all'aperto. Così si morde le labbra, s'impone il silenzio. Quando lo sente allontanarsi appena e riscendere lungo l'erezione umida, ansima. Si passa una mano sul viso, si nasconde, percepisce il bruciore delle lacrime sul bordo delle palpebre tese. Infine lo sente suggere forte e inarca la schiena, gli va incontro, pretende di più.
Jae si ferma all'improvviso. Fa scorrere i denti sulla pelle tesa e bagnata. Pare che accenni a un ghigno di soddisfazione quando, sulla punta, fa passare la lingua in un ultimo guizzo malizioso. «Ammazzami, allora» dice. Si lecca le labbra, si pulisce il mento con il dorso della mano e poi sposta gli occhi dal viso di Richard al suo sesso ancora teso, eccitato, che freme nel vento serale. «Indispettisci Olivia Dragon e privala della sua prossima lettura pomeridiana...» Ridacchia. Le gambe posate attorno a quelle di Richard, le ginocchia ben piantate in terra e gli occhi fissi sul glande arrossato che pizzica appena tra indice e pollice per vederlo sussultare.
«O serale» lo corregge. Non sa neppure cos'abbia detto o perché non lo stia rimproverando. Lo guarda attraverso le ciglia abbassate, fa scattare una mano per raggiungere la sua e si sente schiaffeggiare via. Annaspa, prova a mettersi a sedere, ma incespica nel cappotto e scivola con i gomiti in terra.
«Chiudi il becco.» Jae non dice altro, anzi: gli divarica le gambe, gli cala ancora di più i pantaloni e li sente scivolare via, fino alle caviglie.
Richard ridacchia. Schiocca la lingua e l'osserva dal basso. «Sai cosa mi affascina di te?» Domanda. Il respiro corto, il tocco delle mani di Jae che, sull'interno coscia, lo fanno fremere come una verginella in calore.
«Eccetto le citazioni di Pessoa?» Ironizza questi.
«Che sei uno stronzo figlio di puttana» sputa Richard. Serra i denti, deglutisce, poi sospira e reclina la testa all'indietro. Lo lascia fare senza pretendere niente, bramando una qualche brutalità latente che non si lascia attendere più del dovuto. Così geme forte, grugnisce, percepisce il suo sesso eretto farsi strada a fatica e senza comunque voglia di fermarsi. E continua, ringhia: «Che non te ne frega un cazzo di stare all'aperto e che mandi a fanculo le convenzioni...»
Jae ha il respiro corto, la voce spezzata, il cervello fuori controllo. «Oh, ti affascina?» Ghigna maliziosamente e si fa avanti con una poderosa spinta che fa grugnire Richard. Così deglutisce, inspira a pieni polmoni, socchiude gli occhi e lo fissa ancora. Chissà come, riesce ancora a parlare: «Ti piace essere trattato come tratti gli altri, Rich, è questa la verità...» E vede i suoi occhi lucidi indispettirsi, imbestialirsi. Continua a ghignare, se ne frega, gli sfila una scarpa elegante che sente cadere sul pavimento. Dopodiché gli allarga meglio le gambe, si spinge in avanti e lo sente ansimare forte. Torna a fissarlo negli occhi, a bloccargli ogni via di fuga. «Forse sei semplicemente masochista» sibila a un passo dalle sue labbra, tenendo saldamente una sua coscia sollevata.
Rabbrividisce, quasi si morde la lingua per non dargli soddisfazione. Infine sibila: «Smettila di dire stronzate.» E non attende una replica, anzi: si sprona in avanti, gli circonda il collo con un braccio e lo costringe a in un bacio rabbioso. Fa scorrere la lingua nella sua bocca, cerca ancora il fuoco della passione e lo trova. Mentre divampa, poi, inizia a muoversi contro di lui.
E i suoni si mozzano nell'aria, nel bacio, nell'eco del vento. Jae non risponde, sostanzialmente non ne ha neppure voglia. Vorrebbe dire qualcosa come: Tuo padre mi ha trattato come una puttana, ma la vera puttana sei tu, Richard. Eppure si trattiene, gode del suo calore, manda al diavolo ogni tentativo di replica, perfino i checkpoint. Spinge, lo sente ansimare, percepisce il gracchiare della poltroncina in vimini sulle assi del portico – deve averne urtata una con un piede, chissà, o forse è quella dietro la testa di Richard: Jae non sa dirlo con esattezza.
La vista appannata, la voglia che sale, che si agita e si dibatte senza sosta. È come un groviglio animalesco, un tentativo assurdo di prendere posizione che poi si catapulta verso il basso e sempre per lo stesso motivo: il cappotto – oh, Richard inizia a detestarlo!
Così grugnisce, serra i glutei, percepisce il mugolio di fastidio di Jae e, con le palpebre socchiuse, gli vede aggrottare le sopracciglia in un moto di dolore. Poi si rilassa ancora, lo sente ansimare piano. Gli morde la lingua, la sugge, la costringe in una capricciosa e insostenibile lotta interna fin quando non si sente afferrare l'erezione e mugola a sua volta – di piacere, certo, perché Jae è veloce, incalzante, come le spinte che si susseguono e fanno gridare Richard nel vento di Shadyside.
Quando viene, Jae grugnisce appena e si avventa nel bacio di Richard con più foga, continuando a spingere ancora un po'. Allora lo sente tendersi, quasi gridare, e percepisce il calore del suo seme contro il palmo accaldato. Si scosta a fatica, con gli occhi lucidi e il fiato corto.
«Che pervertito...» commenta ironicamente, mentre osserva l'alzarsi e abbassarsi frenetico della cassa toracica altrui. «Adesso prega che nessun vicino ti abbia visto in queste condizioni, Rich.»
«'Fanculo» schiocca a mezza bocca. Non riesce nemmeno a sembrare infastidito o preoccupato, perché la testa continua a vorticargli alla velocità della luce. «Non ti azzardare a dire che non ci sarà una seconda volta» lo ammonisce subito, facendolo ridacchiare.
«Perché, Richard Dragon è solito andare per più di una volta con la stessa persona?»
«Stai zitto...» sibila, forse balbetta. Solleva un braccio a stento e trascina Jae in basso, su di sé, per ultimo e focoso bacio.
«Va bene» sussurra. «Sto zitto» dice. E ghigna, sorride, si sente additare da Richard che subito lo rimprovera con un cipiglio imbarazzato e irritato.
«Ho detto di stare zitto, cazzo! Stai parlando!»
Jae solleva le mani in segno di resa, poi incrocia le dita sulle labbra e sorride sornione. Forse questo checkpoint non è così male, si dice.
Non sa se siano state le parole di Olivia, tantomeno se la ragione l'abbia abbandonata del tutto. La sua unica certezza è quella di non poter fare dietrofront. E si sente in bilico, con il cuore in gola, mentre osserva la porta chiusa della stanza di Tera Evans. Sembra che le gambe si siano pietrificate lì, nel corridoio, e che abbiano messo radici a qualche passo dalla propria meta. Perciò non fa che martoriarsi le labbra, che crogiolarsi nell'indecisione. Una mano in tasca e l'altra sollevata, chiusa a pugno, come in procinto di bussare. All'improvviso la vede scattare, colpire il legno, e sgrana gli occhi. Fissa le proprie nocche pallide, quasi le rimprovera mentalmente, e socchiude le labbra in una muta espressione stupita.
«Avanti...» La voce di Tera è ovattata, distante, forse addirittura flebile.
Adele deglutisce a vuoto, rabbrividisce sul posto e ritira la mano con cui ha bussato per posarla sulla maniglia in ottone. Vorrebbe sgattaiolare via, ritirarsi alla svelta e fingere che Patricia abbia urtato erroneamente l'uscio chiuso della stanza di Tera. Ma non lo fa, anzi: abbassa la maniglia, prende un bel respiro e accenna perfino un sorriso. «Sono io» dice. Fa capolino nella stanza, poi si decide a entrare e sente i muscoli tesi della schiena farsi sempre più pesanti.
«Adele» mormora. La fissa per una manciata di secondi e batte le palpebre con perplessità. «È successo qualcosa?» Balbetta.
«Niente.» Adele scuote la testa, chissà come si trattiene dal rettificare il proprio nome. E deglutisce ancora, si avvicina alla toletta cui siede Tera per sfoggiare un sorriso tirato. La osserva attraverso il riflesso dello specchio e percepisce subito il silenzio farsi più prepotente, più fastidioso. «Ho portato una cosa per te» dice all'improvviso. La voce ferma, quasi perfetta.
«Per me?» Echeggia Tera, voltandosi nella sua direzione con un cipiglio confuso. Quando vede Adele annuire, poi, quasi dimentica di respirare. E perde un battito, serra i denti, si sente come sospesa nel vuoto. Dinanzi a sé ha ancora l'immagine della sera prima: Gordon steso in terra e Steven con un buco in testa. Per un attimo teme il peggio, poi sorride a sua volta e cerca di dissimulare la tensione. «Perché mai?»
Adele corruga appena le sopracciglia, stranamente consapevole del malinteso. Allora dice: «Non voglio farti del male...» E vede Tera deglutire a vuoto, impallidire sul posto.
«Non ho detto niente del genere» si giustifica subito.
«Hai paura di me?» Batte le palpebre una sola volta, la osserva meglio e non si lascia sfuggire il modo convulso con il quale Tera continua a tormentarsi le dita intrecciate all'altezza delle ginocchia.
«No» mormora. Si trattiene dal dire la verità, infine sospira. Non manca di notare l'espressione dispiaciuta di Adele e quasi si sente in colpa nel non crederle del tutto. Tuttavia non oppone resistenza quando questa la fa voltare verso lo specchio. «Dovrei averne?» Chiede in un soffio. Gli occhi ben puntati sul riflesso di Adele e le spalle tese sotto il suo tocco.
«No, affatto.» Scuote la testa, poi prende un altro respiro e dice: «Chiudi gli occhi, Tera.» Dapprima le vede sgranare gli occhi, poi la sente tremare appena e infine cedere.
«Va bene» balbetta. Annuisce e chiude gli occhi. Serra le palpebre così forte che quasi sembra andare in fiamme. Poi le solleva all'improvviso e quasi annaspa – solo adesso si rende conto di aver trattenuto il fiato. Sente qualcosa attorno al collo, ma non mette subito a fuoco le perle della collana che Adele le sta agganciando dietro la nuca.
«È solo un regalo» soffia. «Non voglio farti del male» ripete. Distoglie lo sguardo dal suo, poi le sposta i capelli e li sente scivolare tra le dita.
Tera solleva una mano, sfiora le perle e socchiude le labbra come per parlare. Non ci riesce, non subito, ma infine sillaba un: «Grazie.» È talmente basita che non riesce neppure a chiedere la ragione di quel regalo improvviso, perciò attende che sia Adele a dire qualcosa. Resta in silenzio, batte le palpebre un paio di volte, tuttavia non sente alcuna risposta e quasi inizia a preoccuparsi di nuovo.
«Non mi piacciono le collane» si giustifica Adele. Lascia andare i capelli di Tera e fa un paio di passi indietro. Solleva entrambe le mani per mostrarsi disarmata, innocua, e riesce a farle abbassare le difese. «Ne ho tante, ma non mi piace indossarle...» soffia.
«Hai cambiato look» commenta piano Tera. E si sente quasi una sciocca a pronunciare delle parole tanto casuali ed evidenti, perciò ridacchia con fare impacciato. «Stai benissimo anche così» aggiunge subito.
«Davvero?» La domanda le scivola via prima ancora che possa rendersene conto, perciò solleva le sopracciglia in un'espressione perplessa, schiva, e attende di avere una conferma o una smentita.
«Davvero» dice Tera. La vede sorridere, così aggiunge: «Ma non dovevi farmi un regalo del genere...»
«Ve bene così» la interrompe subito. «Le perle stanno meglio a te che a me.» Accenna un sorriso tirato, infine retrocede fino alla porta e fa spallucce. «Chiamami Ade, d'accordo?» Mormora. Adotta il nomignolo che ha coniato Richard solo per non sembrare troppo fuori di testa e quando la vede annuire non riesce a trattenere un sorriso sincero.
«Certo, va bene.»
«Grazie» soffia.
Tera solleva un sopracciglio con fare confuso. La vede uscire dalla stanza e non dice una sola parola. Si chiede solo perché l'abbia ringraziata, tuttavia non osa fermarla, tantomeno domandarlo alla diretta interessata. E storce le labbra, osserva la collana di perle, poi sospira con sollievo. «Che sciocca che sono» si dice. Infine rilassa le spalle, i muscoli della schiena, e quasi si accascia sulla toletta. Scuote la testa, ma non dice altro: non è saggio pensare ad alta voce in casa Dragon, meno che mai mettere ancora in dubbio le intenzioni di Adele.
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