Ordini

Le disposizioni di Gordon Dragon in merito alle visite di Jae Greenwood al Community Psychiatric Center sono brevi e concise: mai presentarsi con un abbigliamento fuori luogo, usufruire sempre dei mezzi pubblici per raggiungere la struttura, non fare alcun riferimento al proprio lavoro e alle persone che ne concernono. E la parola chiave è silenzio. Sì, perché Gordon tiene molto alla riservatezza e alla velocità dei propri affari.

«Tempismo perfetto» dice Steven, facendo battere le palpebre a Jae. Solleva una mano e gli fa cenno di accostare lungo il marciapiede di Ellsworth Avenue con la Toyota. «Ci siamo sbarazzati dell'auto di servizio, abbiamo raggiunto la residenza dei Dragon con il fascicolo che ti è stato chiesto e giusto in tempo per far stappare lo champagne a Gordon.» Ghigna, sentendo la Toyota arrestarsi a circa un metro dal cancello in ferro battuto. Allora sfila il telecomando dalla tasca, preme un pulsante rosso e aggiunge: «Entra, avanti...» E sorride soddisfatto, tamburellando con le dita sulla cartella di Benjamin Dragon. «Svolta a sinistra, poi procedi dritto e scendi lungo la discesa. Puoi parcheggiare accanto alle auto dei dragon questa volta» dice.

«D'accordo» mormora soltanto Jae. Ha ancora addosso i vestiti sporchi del sangue di Adam Parrish e deglutisce a vuoto. Segue le indicazioni di Steven con le mani ben strette attorno al volante, infine sospira, parcheggia e scende dalla Toyota. «Il fascicolo» sibila. Guarda Steven negli occhi e gli sente schioccare a lingua di tutta risposta.

«Te lo sei guadagnato» borbotta l'interpellato, allungandoglielo sopra il tettuccio dell'auto. «Seguimi» dice ancora, retrocedendo all'esterno e fiancheggiando il portico.

Jae è alle sue spalle. Il fascicolo ben stretto e i denti che stridono tra loro. Sente l'ansia annebbiargli i sensi e il dubbio insinuarsi all'altezza dello stomaco. Le ginocchia paiono molli, ma lui le ignora e continua a camminare come niente. «Hai detto che Gordon Dragon stapperà lo spumante...» mormora.

«Champagne» lo corregge subito. «Ha ricevuto la chiamata di un certo John Walsh, segretario ministeriale di Pittsburgh.» Non aggiunge altro, poi ghigna appena e rivolge un'occhiata a Jae. Si limita a trafficare con le chiavi, mentre borbotta: «Sono questioni troppo grandi per te, topolino.» Gli vede indurire i muscoli del viso, così aggiunge: «Ma forse Gordon cambierà idea nel vederti con il fascicolo di suo fratello, chissà.»

«Chissà» echeggia piano Jae. Ne dubita fortemente, tuttavia non indugia a seguire Steven nell'ingresso quando questi apre la porta. Si umetta le labbra, serra le dita sulla cartellina e poi deglutisce. In silenzio, dunque, torna a guardarsi attorno con fare circospetto – non come la prima volta, ma con più attenzione e perizia. Cerca d'individuare Gordon Dragon, quantomeno Richard, ma non ci riesce fin quando non è Steven a fargli strada lungo il corridoio.

«Signor Dragon» dice, bussando alla porta del suo studio. Non aggiunge altro, rimane fermo, con le braccia ben stese lungo i fianchi.

E Jae l'osserva, cerca di raddrizzare la schiena, di sembrare abbastanza formale per non essere ancora appellato a topo di fogna.

Quando Gordon si presenta sull'uscio ha un sorriso sinistro stampato in volto. Gli occhi brillano di una strana euforia e la voce è chiara, decisa, letteralmente imperiosa, mentre dice: «Avanti, Steven.»

Jae si schiarisce la voce, batte le palpebre una sola volta e attende di essere notato. Incrocia lo sguardo di Gordon e mormora un: «Posso entrare anch'io?»

Questi trattiene una risatina. Lo fissa, lo scruta, non manca di notare le piccole chiazze di sangue che gli macchiano il pullover, così schiocca la lingua e gli fa cenno di entrare. «Perché no» mormora. Punta gli occhi sul fascicolo che Jae tiene in mano, così aggiunge: «Hai voluto portarmelo di persona, vedo.»

«Esattamente.» Annuisce, poi si ferma a un passo della scrivania cui siede Gordon con nonchalance. Alla sua destra c'è Steven, ma non ha l'aria di un mastino pronto a sbranarlo, anzi: è rilassato, almeno così si dice Jae. Allora non tentenna nell'allungare la cartellina a Gordon. «Questo è tutto ciò che sono riuscito a recuperare nello studio del Dottor Parrish» dice. «C'è una sola cassetta, purtroppo. Probabilmente è un metodo che ha iniziato a usare solo di recente» minimizza e sa di aver mentito – ne ha bruciate ben cinque, dopotutto.

«Credo di no» schiocca. «Forse Benjamin è arrivato prima di te e ha tolto di mezzo delle prove compromettenti» sibila. Fissa Jae negli occhi, poi intreccia le dita e posa il mento sulle stessa. I gomiti ben piantati sulla scrivania e lo sguardo immobile, indagatore. «Ammesso e non concesso che tu abbia portato davvero tutto» dice.

«Ho portato tutto» mente ancora. Ma è calmo, perché l'agitazione dell'omicidio a cui ha assistito sembra essere venuta meno con un paio di calmanti – uno di quelli che il Dottor Parrish gli ha prescritto e che lui non ha mai preso fino a poco prima dell'arrivo di Steven nel parcheggio del Community Psychiatric Center.

«Perfetto, allora» borbotta Gordon. «Benjamin ti ha preceduto...» schiocca. Aggrotta di poco le sopracciglia, ma poi le distende e si lascia sfuggire una risatina asciutta.

«Cosa c'è?» Chiede Jae. Deglutisce a vuoto e vede lo sguardo di Gordon intricato in una pagina a caso del fascicolo di Benjamin.

«Forse è stato il Dottor Parrish a far sparire le prove» schiocca. «Mio fratello avrebbe eliminato anche queste, sennò» aggiunge in un soffio. Poi fa cenno a Steven di abbassare la guardia e lascia che Jae segua il suo sguardo.

«Lavoro» dice Steven. «Si tratta solo di lavoro, non di una questione personale.» E infila di nuovo la pistola nella cinta dei pantaloni, fa sospirare Jae.

«Volevate uccidermi per aver portato a termine un lavoro?» Domanda laconico. «Mi sembra assurdo e per di più ingiusto. Non ho fatto altro che prendere il fascicolo e nasconderlo per portarlo qui assieme alla cassetta...» Schiocca la lingua, poi torna a guardare Gordon. «Mi è stato assicurato che le mie registrazioni sono state fatte sparire dalla segretaria del Dottor Parrish» dice. «È vero o no?»

«Verissimo» replica Gordon. Guarda appena Jae, poi puntella una guancia sul pugno chiuso della mano sinistra. «Non ho bisogno di mettere in mezzo la polizia per liberarmi di un traditore... Steven basta e avanza.» batte le palpebre una sola volta e continua a osservare Jae negli occhi. «Ma non sei un traditore, giusto?»

«No.»

«Allora puoi gioire delle mie congratulazioni.» Ghigna. «Ottimo lavoro, Jae.»

«È la prima volta che mi chiama per nome» constata a mezza bocca.

«È la prima volta che noto dei risultati» replica istantaneamente Gordon. Infila il fascicolo di Benjamin nel cassetto con il Revolver di Drake Dragon e sorride. «Puoi restare un po', se vuoi. Fatti una doccia, indossa dei vestiti puliti...» dice. «E saluta Richard, mi raccomando.»

«Richard?» Balbetta. «Suo figlio, dice?»

«Mio figlio, sì.» Annuisce, poi fa segno a Steven di lasciare lo studio e si rilassa contro lo schienale della poltrona quando sente chiudere la porta. «Lo hai più visto a Liberty Avenue?» Chiede.

«No, non l'ho visto.»

«Non è uscito di casa, ha fatto il bravo per ben due settimane» schiocca subito, trattenendo una risata cinica. «Ma si è anche rifiutato di uscire dalla propria stanza ogni qualvolta sa che sono nei paraggi, perciò ho intenzione di fargli un piccolo regalo.»

«Quale regalo?» Jae non riesce a seguire il nesso del discorso di Gordon e batte le palpebre un paio di volte. Ha l'aria assorta, forse perfino assonnata.

«Quando mi hai chiamato per avvisare che sarebbe arrivato qui con un taxi...» inizia. «Devo averti fatto un paio di domande, vero?»

«Credo di sì» mormora.

«Cosa ti ho chiesto, Jae?» Lo vede tentennare, cercare il ricordo che gli sfugge, così sospira e dice: «Ti ho chiesto se sembrava interessato, se aveva cercato di attaccare bottone con te.»

«Già, mi ricordo» ammette infine. Sente la gola asciutta e quasi non riesce a parlare.

«Ora devo farti un'altra domanda: piaci molto a quelli come te?»

«Che domanda è?»

«Rispondi e basta» lo ammonisce. Restringe lo sguardo e lo gela sul posto, mentre nota un leggero rossore farsi largo sulle sue guance. Sa che è imbarazzato, ma non ritratta, anzi: «Hai gli occhi chiari, i capelli lunghi, dei lineamenti delicati... Non male, direi.» Attende in silenzio, ma non ottiene ancora una risposta. Allora si alza dalla poltrona, fa il giro della scrivania e lo raggiunge, lo afferra per il mento, lo costringe a schiudere le labbra. Dice: «Parla, cazzo! Piaci o no alla gente come te?»

«Dipende» sillaba. «Dipende dai fottuti gusti delle fottute persone.» Restringe lo sguardo, irritato e frastornato. Allora deglutisce, lo sfida con aria assente e sibila: «Ho assistito all'omicidio del Dottor Adam Parrich, ho recuperato un fascicolo privato per conto suo, Signor Dragon... Credevo di dovermi occupare d'informazioni, non di suo figlio.»

«Di tutto» schiocca Gordon. «Tutto ciò che ti chiedo» scandisce. «Fattelo entrare in quella testa bacata, Jae: sei soltanto un topo di fogna e se ti azzardi a contraddirmi sei fottuto.» Lo vede vacillare sul posto e ghigna, lasciandogli il mento con uno scatto fulmineo. «Non lascio in giro prove compromettenti, ormai dovresti averlo capito» sibila, riferendosi ovviamente all'operato di Steven nei confronti di Adam Parrish. «O sei con me o sei contro di me» dice. «A te la scelta.»

«E lei vuole che risponda adesso.»

«Non è ovvio?» Ridacchia ancora e incrocia le braccia al petto. «Steven è fuori dalla porta, aspetta solo un mio cenno per entrare e farti fuori.» Sorride con fare beffardo, poi aggiunge: «Credevi forse che ti avrei fatto portare qui senza alcuna ragione, Jae? Rifletti un attimo, pensaci... Non è stato Steven a dirti di seguirlo?»

«Ho capito» sillaba.

«La risposta?» Gli ricorda. Alza la voce e perfino il mento. La sfida nello sguardo e le labbra piegate con superiorità.


Dinanzi allo specchio del soggiorno, Jae ha un aspetto diverso – a detta sua assurdo. Indossa dei vestiti eleganti, forse ancora più formali di quelli che riempiono il suo armadio di Broad Street, e un'espressione vacua, informe. Non sa se sia dovuta o meno all'effetto degli psicofarmaci che gli ha prescritto il Dottor Parrish, ma di certo non se ne compiace. Riesce a reggersi sulle proprie gambe per scommessa e benedice la forza di gravità, il baricentro, perfino le setole del grosso tappeto cui punta i piedi. E attende, sì. Non sa bene cosa, ma conosce il motivo: l'imposizione di Gordon Dragon. Di tanto in tanto rabbrividisce e perde il conto dei minuti. Poi batte le palpebre, vede correre Benjamin lungo il corridoio e serra i denti. Resta in silenzio, con il respiro lento e modulato, con le palpebre sollevate e immobili. Infine deglutisce. La salivazione è densa, fastidiosa, simile a quella che gl'impasta la bocca dopo aver fumato una canna.

«Jae...» La voce di Richard lo riscuote appena. «Quando sei arrivato?» Domanda. Il tono incerto e il dubbio latente. Ricorda le parole di suo padre e storce appena le labbra. «Non ti facevo il tipo da giacca e cravatta» mormora. Ghigna appena e l'osserva.

«Neanch'io» ammette. Evita di rispondere alla sua domanda e scuote appena la testa. «Posso sedermi?»

«Sei fatto?» Richard trattiene a stento una risata, poi schiocca la lingua e gl'indica il divano alle sue spalle. Continua a guardarlo, non se lo fa sfuggire neppure un istante. Vede la sua espressione stanca, assonnata, e poi il debole battere delle palpebre.

«Grazie» dice. Accenna un sorriso che pare una smorfia e si mette a sedere con un tonfo. Allor riflette, annuisce e dice una piccola bugia – una tra tante: «Sì, ho fumato un po' d'erba con degli amici.»

«E da quando in qua ti presenti a casa mia di sera così benvestito?» Richard si avvicina, sospira, infine si siede accanto a lui. Le gambe ben piantate sul tappeto e gli avambracci posati sulle ginocchia. Si sbilancia in avanti e guarda di traverso Jae. Mormora: «Mi pare che l'ultima volta sia stato tu a farmi tornare a casa sano e salvo... Vuoi un passaggio?» Gli vede scuotere la testa e serra le labbra. «È stato mio padre a chiederti di venire?» Sbotta d'un tratto. È irritato, dubbioso. «Ti ha pagato per farmi divertite, Jae?»

Non sa bene come rispondere. La verità è a portata di mano, sulla punta della lingua, ma non osa pronunciarla. Scuote ancora la testa e si schiarisce la voce. Dice: «Non mi ha pagato nessuno.» E ridacchia, chissà come riesce a lasciarsi andare. «Pensi davvero che qualcuno si farebbe pagare per andare a letto con te?» Non riesce a trattenersi, ma stenta a credere che questa sia davvero la propria voce. «Richard Dragon – o Rich, come vuoi che ti chiami? – sappi che sei un bel tipo. Contorto, capriccioso, ma pur sempre un bel tipo... Interessante, sì.»

«Stai parlando a ruota libera, Jae» constata. Arrossisce appena, forse perché nessuno si è mai azzardato a dirgli le cose tanto chiaramente, e al contempo solleva un sopracciglio. Non nasconde la propria perplessità, ma Jae è talmente fuori fase da non accorgersene.

«Forse» borbotta.

«Sei fatto?» Chiede ancora, distogliendo lo sguardo e lasciandosi andare a un sospiro. «Ti sei davvero fumato qualcosa prima di venire qui?» Indaga. «Sai, sento solo il profumo dell'Acqua di Colonia di zio Ben, nessuna traccia d'erba.» E schiocca la lingua, si fa due conti a mente, capisce il motivo della presenza di Jae in salotto. «Ammesso e non concesso che io ti piaccia davvero, Jae, devi sapere che non mi piace andare a letto con la gente strafatta.»

«Già, a te piace rimorchiare da ubriaco.» Ridacchia. «Gente lucida per un ubriaco troppo carino...»

«Potrei scoparti su questo stesso divano, Jae» scandisce. «Non provocarmi.»

«Sembra una provocazione?» Incalza con fare divertito. Si sbilancia all'indietro e sospira contro lo schienale morbido. «Che strano, eppure sto dicendo solo la verità.»

«Tu dici?» Ironizza. Solleva un angolo delle labbra in quello che sembra un ghigno di scherno. «Domani mattina non saresti della stessa opinione, temo.»

«Ho sonno» borbotta Jae. «Quella deve essere roba potente» soffia infine, sorridendo tra sé e sé. Gli occhi chiusi e le immagini confuse delle strane espressione del Dottor Parrish che gli guizzano dinanzi – oh, dopotutto ha decretato di avere incubi trascendentali e problemi d'insonnia, cosa può aspettarsi di diverso da quelle medicine?

«Lo vedo» schiocca. Inclina appena il capo da un lato e storce le labbra in una smorfia di fastidio. «Steven è venuto a bussarmi in camera per avvisarmi di un ospite improvviso... Vedendoti, però, sembra tutto fuorché un'improvvisata.» Sposta lo sguardo sullo specchio, infine lo abbassa e osserva l'intreccio del grande tappeto russo. «Da quanto lavori per mio padre?»

«Una ventina di giorni» si lascia sfuggire.

«Quindi mi hai fatto tornare a casa con il taxi affinché non me ne accorgessi» sibila. «Astuto, ma non abbastanza.» Si schiarisce ancora la voce e congiunge le mani tra le ginocchia. Sospira, poi gli lancia un'occhiata veloce e domanda: «Chase che fine ha fatto?»

«Se non lo sai tu...» soffia. «Mi ha tagliato fuori dalla sua vita da un paio di settimane.»

«Quindi il fatto che tu abbia iniziato a lavorare per mio padre è pressoché un miracolo» schiocca. «In caso contrario non avrei avuto modo d'incontrarti ancora.» Non dice altro, non subito. E si solleva in piedi, sospira. «Se davvero hai intenzione di vederti con me, sappi che sono una persona esigente.»

«Non mi dire» sbotta Jae, nuovamente divertito. Socchiude gli occhi e lo guarda. Non è così fuori fase come sembra, in fondo. La testa ragiona, saetta in tutte le direzioni. «Ho una mezza idea in proposito» sussurra.

«Vale a dire?» Richard solleva un sopracciglio, sembra incredulo.

«Ti ricordo qualcuno» Con questa insinuazione lo vede impallidire.

«No, nessuno» mente.

«Bugiardo.» Si sistema bene sul divano e lo guarda. È un po' stralunato, ma comunque presente. Non è la prima volta che si lascia andare a discorsi simili con qualcuno in uno stato alterato, perciò non ci fa caso. «Lo sai che riesco a leggerti in faccia quello che pensi?»

«E cosa sto pensando?» Lo rimbecca Richard.

«Che vorresti essere provocato abbastanza per avvicinarti» dice. «Ma che sei stranamente combattuto a causa del fatto che a chiedermi di vederti è stato tuo padre – sia mai che Richard Dragon si faccia gestire l'intimità da terzi» ironizza infine. «Legittimo, senz'altro legittimo.» Fa spallucce, poi sospira. «Ma hai voglia di scopare davvero, perciò 'fanculo Gordon Dragon, no?»

«Mi provochi intenzionalmente, Jae?» Ride e scuote subito la testa. Poi posa un ginocchio sul divano e lo fa aderire alla coscia di Jae fino a sentirlo mugolare appena. «Strafatto e sensibile» mormora. «Che provocazione...» Si umetta le labbra, allunga una mano per strattonarlo dalla cravatta. Sente il suo respiro sul viso e lo scruta negli occhi. «Io cedo facilmente alle provocazioni.»

«Ora ti riconosco, Richard Dragon.» Ghigna. «O devo chiamarti Rich? Sai, non l'ho ancora capito...»

«Chiamami come cazzo ti pare» sibila, avventandosi sulle sue labbra. E le morde appena, le assaggia lentamente, penetra con la lingua fino a sentirlo fremere. Piacere e aspettativa, qualcosa che scivola fino a Richard e lo costringe a staccarsi con il respiro corto. «Ma non adesso» soffia. Deglutisce, si allontana, infine esce di corsa dal soggiorno e lascia Jae di stucco, impietrito.

«Non adesso» echeggia piano. «Per me va bene, Rich.»

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