Fiamma

Lo sguardo fisso sulla luce della candela, intrappolato nel guizzare lento della fiamma. Non si muove di un millimetro, non segue la scia della cera che cola inesorabile per tutta la lunghezza. È immobile, statico, quasi assente. E Keane sembra sorpreso dalla propria costanza, perché mai – neppure una volta – ha pensato di poter vivere qualcosa di simile. L'attesa che uccide, l'attesa che soffoca. No, non ha mai creduto di poter arrivare a tanto e soprattutto per qualcuno come Richard Dragon. Ha ancora in testa le parole di sua madre: Non metterti in mezzo. E poi quelle aspre, ciniche e pungenti del suo pensiero fisso: Questa volta mi accontento di poco.

«Basta così» ordina. Fa battere le palpebre a Keane e gli permette finalmente di distogliere lo sguardo. Ridacchia appena, divertito, e poi schiocca le dita.

«Cosa significa, Richard?» Domanda appena. È stordito, confuso. Gli occhi arrossati, lucidi. «Perché mi hai chiesto di fare una cosa del genere?» La voce piatta, per nulla divertita o imperiosa come quella di Richard. Lo vede fare spallucce, distogliendo a fatica lo sguardo dalla fiamma ancora accesa – riesce a percepirne il calore sul viso, dietro le palpebre che continua a battere come ali di farfalla. Una lacrima gli sfugge, forse due. Una per ogni guancia, sì. E lui deglutisce, attende in silenzio, si aspetta una risposta che non tarda più di qualche secondo – eppure ha come la sensazione che siano appena trascorsi secoli.

«Concentrazione» dice piano, sorridendo beffardo. Il volto illuminato dalla luce della candela e i denti bianchi che spiccano al di là delle labbra tese. «Herman Hesse disse: Quando un uomo rivolge tutta la sua volontà verso una data cosa, finisce sempre per raggiungerla. Trovi che abbia ragione?» E lo guarda ancora. Il gomito posato sul tavolo, l'aria divertita.

«Volevi farmi raggiungere una fiamma?» Domanda appena, forse crucciato – non lo sa, non se ne rende conto.

«Volevo insegnarti a giocare con il fuoco senza scottarti» schiocca in tutta risposta. «È facile, dopotutto... Basta concentrarsi, focalizzarsi, delimitare il proprio margine d'azione e capire fin dove è possibile spingersi. Il limite del dolore è invalicabile, ovviamente, ma a volte si riesce a superare anche quello e si diventa pazzi.» Fa spallucce, laconico, e ricomincia a parlare solo dopo esseri alzato dalla sedia: «Ponendo in essere che quella fiamma sia io, Keane, cosa credi di aver capito?» Lo vede trasalire e sorride.

«Come?» Lo guarda, lo vede raggiungere lo schienale della propria sedia, infine sospira. La fiamma vacilla dinanzi ai suoi occhi e lo fa deglutire.

«Parlami di quella fiamma, Keane» soffia vicino al suo orecchio. «Solo di lei, perché poi capirai me.»

«È volubile, oscilla. Basta un movimento d'aria per farle cambiare direzione, per poterla spegnere. Sa bruciare tanto la carta quanto vestiti, tessuti, cellule. E la pelle, gli occhi. Guardarla a lungo fa male...» Si ferma un attimo, sente la gola arsa e le dita di Richard sul proprio collo. «Quando chiudo gli occhi continuo a vederla, è un'immagine nitida e diversa, fatta di colori opposti. Ovunque mi volti, lei c'è.»

«Io sono quella fiamma, Keane» dice. È serio, convinto, per nulla intimorito o insoddisfatto. Trova che quella descrizione gli calzi a pennello, perciò sorride. «Ricorda cosa hai detto al riguardo di quella fiamma e pensa a me.» Lo sente deglutire ancora, così si sprona in avanti, supera le sue spalle e soffia. «Riesci a vederla nel buio?» Chiede piano. Immagina che Keane stia aprendo gli occhi, che continui a vacillare in un'immagine potenziale della fiamma. Quando annuisce, allora, ghigna sul suo collo. «Lo immaginavo» sussurra. «Io ci sono anche quando non mi vedi, ci sono e posso fare male, posso bruciare.»

«Più che un insegnamento sembra una minaccia» borbotta Keane. Lo sente ridacchiare vicino al proprio orecchio e chiude gli occhi. Dietro le palpebre, l'immagine della fiamma continua a tormentarlo.

«Può anche darsi che lo sia» replica divertito. «Può scaldare e bruciare, quindi è proprio come me – è proprio come un Dragon.» Azzanna il lobo del suo orecchio in un moto di divertimento e lo sente trattenere un'esclamazione, un gemito, perfino un grugnito. Non sa se sia o meno infastidito, ma è questo che lo affascina tanto: l'indefinito. «Ripetimi ancora fin quando sarai solo, Keane...» ordina mellifluo. Ed è vero che la mela non cade mai troppo lontana dall'albero, perché nelle sue imposizioni c'è la vena subdola di Gordon Dragon, checché ne dica Richard stesso.

«Fino alle tre o giù di lì» soffia. «Sono usciti per cena e hanno deciso di andare a teatro.»

«Non ti piace il teatro?» Domanda piano. Le mani ancora attorno al collo, sui primi bottoni slacciati della camicia di Keane. «O sono io a piacerti più del teatro?»

«Continuo a vedere la fiamma» divaga.

Ma per Richard è ben più di una risposta. Così gli scosta il colletto, e in uno scatto è lì, a respirargli sulla spalla nuda. Si affanna piano sulla pelle, la morde appena, volubile e incostante, poi la sugge e risale verso l'orecchio. A metà strada si ferma, preme la lingua, succhia forte e lo sente mugolare. «Questi sono i segni della fiamma» sussurra. È certo di averlo marchiato, di avergli lasciato un bel succhiotto rosso. E ghigna, tira la sedia verso di sé, la sente stridere sul pavimento di marmo.

«Richard...» lo chiama piano, tuttavia non lo ferma quando questi artiglia la sua camicia. Trattiene il fiato, anzi, e socchiude le palpebre nel sentire i bottoni che saltano e tintinnano sul pavimento.

«Sì?» Una domanda leggera, flebile, come l'oscillazione della fiamma che lui stesso ha imposto a Keane. Lo sente respirare forte, con affanno, e morde ancora il suo orecchio. Vorace come una bestia, infine, fa scivolare i palmi aperti sul suo petto. È sempre alle sue spalle, sempre pronto a controllare la situazione, quando Keane mormora un:

«Niente.»

E allora stringe forte un capezzolo, lo fa grugnire a denti stretti. È certo di vederlo arrossire nel riverbero delle luci del giardino che filtrano attraverso le tende chiuse, ma non dice niente. «Alzati» ordina infine. Lo vede tentennare, segue la sua sagoma nel buio, dopodiché sposta la sedia con un calcio che nessuno rimprovera.

E questa si allontana, gracchia sul pavimento, infine incontra un bottone e capitola in terra con un tonfo secco.

Keane trattiene il fiato, percepisce il tocco delle dita di Richard sull'addome, poi sul bordo dei pantaloni. E il tintinnio della cinta, quello della zip che, dente dopo dente, lo abbandona assieme alla flanella per finire in terra. «Richard, stiamo in salone» gli ricorda piano, in un soffio. E reclina la testa, sente la sua fronte fra le scapole. Chiude gli occhi e vede ancora l'immagine nitida di una fiamma già spenta. Deglutisce e lo sente ridacchiare piano, mentre le sue mani scendono e gli carezzano l'inguine con la punta delle dita.

«Lo so, è ovvio che lo so» borbotta. Serra i denti, poi, e lo sprona in avanti senza incontrare alcuna resistenza. «A te interessa il dove e il quando?» Chiede piano. «A Railroad Street ti saresti fatto inculare in un bagno, diamine...» Schiocca la lingua, percependo un leggero fastidio invadergli le membra.

«Richard!» Solleva la voce, pare indignato.

«Modera le parole, Richard» dice. Lo canzona, si rimprovera prima che possa essere lui a farlo. Allora sbuffa piano, gli abbassa la biancheria e gli solleva la camicia fino a metà schiena. Lì soffia appena, lascia una scia umida con la punta della lingua e soffia di nuovo. Lo sente rabbrividire, mugolare. Con il sesso esposto, caldo e pulsante che freme tra le sue dita, allora, sorride. «Sei così carino che mi risulta difficile pensarti ancora vergine» ammette.

«Lo sono» balbetta l'interpellato. E serra i denti, chiude gli occhi, si lascia cullare dall'immagine fissa della fiamma spenta. È verde, gialla, poi rossa e ancora viola. È tutto e niente, proprio come Richard – non fa che ripeterselo.

«Lo so che lo sei» mormora di rimando. «Solo un verginello si sarebbe fatto raggirare in quel modo per un'occhiata languida.» Detto questo, senza nemmeno ascoltare le proteste di Keane sull'appellativo, tira fuori dalla giacca una boccetta di lubrificante. «Ti piacciono le fragole?» Domanda sottovoce. Nessuna risposta, perciò fa spallucce e apre la boccetta con un rumore secco.

«Cosa fai?» Chiede, forse troppo ingenuamente.

«Ti tolgo un impiccio» minimizza. Smette di carezzargli l'erezione e posa un palmo sulla sua schiena. Lo fa rabbrividire, infine raschia appena con le unghie e si compiace del mugolio mal trattenuto che gli sfugge.

«E l'impiccio sarebbe...» Non termina la frase, si morde le labbra. Quando il liquido freddo gli scivola tra le natiche, rabbrividisce e indurisce i muscoli delle gambe di rimando fino a far sbuffare Richard. «Non lo chiamerei impiccio» scandisce.

«Quando un uomo rivolge tutta la sua volontà verso una data cosa, finisce sempre per raggiungerla» cita di nuovo. Lo sente sospirare e vede nella penombra come le sue dita premano ai margini del tavolo. «Da bravo, Keane, concentrati» dice.

«Concentrarmi su cosa?» Domanda in un sussulto. Sente le dita di Richard carezzargli l'apertura tra le natiche e s'imporpora dalla vergogna.

«Sulle sensazioni, diamine! Su di me, sul pensiero che hai di me...» schiocca. «Sono o non sono come quella fiamma?» Lo provoca appena.

«Lo sei, dannazione.» E si maledice per averlo detto, per non avergli impedito di accendere la candela al centro del tavolo, per aver permesso all'odore della cera d'invadergli le narici tanto quanto quello del lubrificante alla fragola.

«Bene» scandisce. Penetra piano, lentamente. Un movimento fluido, poi circolare, infine prepotente e seguito da una trazione improvvisa. Sorride compiaciuto, frapponendosi con un secondo dito e poi con un terzo. Quando lo sente grugnire a denti stretti, allora, gli dà un piccolo pizzicotto sulla coscia. «Rilassa i muscoli, concentrati» dice. E non aggiunge altro, procede nello stesso modo, alternando a presenza delle dita e rilassando il difficoltoso ingresso. Chissà come, poi, solleva la testa verso la parete ombrosa e sospira. Non è eccitato Keane, ma dall'idea d'incarnare la figura dell'insegnante rigoroso e perverso. Così serra i denti, socchiude le palpebre, si ricorda di Benjamin e della sbronza plateale cui si è appigliato per strappargli il primo bacio. E Grugnisce a sua volta, infastidito.

«Richard...» balbetta Keane.

«Sei stretto» sibila, minimizza. Volge la sua attenzione su un particolare ovvio e imbarazzante per chiudergli subito la bocca. E poi si morde le labbra, chiude gli occhi, abbassa i pantaloni per spalmarsi il lubrificante sull'erezione dalla dubbia origine. Con gli occhi fissi sulla parete, infine, lo prende. Un'unica spinta, un solo grugnito. Poi il silenzio. Niente pace, solo il fischio sordo della coscienza.

«Fa male» borbotta.

«Rilassa i muscoli» echeggia Richard. Sposta entrambe le mani sui suoi fianchi e retrocede appena. Ondeggia, riaffonda, poi si ritrae e, perso nei propri pensieri, sembra distanziarsi dal salotto, da Keane, da ogni cosa. La casa non esiste, le mura non esistono, c'è solo il piacere vischioso che profuma di fragole. Nessun gemito, nessun ansito, nemmeno il nome che affiora alle labbra di Keane e che gli gorgheggia in gola a ogni spinta. Il vuoto, il silenzio. Richard sembra sordo, distante, automaticamente contrito e perso nei ricordi.

Continua a chiedersi se è così che ha fatto sesso la prima volta, se è davvero in soggiorno o in salotto, se è in camera, sotto le lenzuola, o in un locale di Liberty Avenue. Perché sì, la sbronza se la ricorda bene e si ricorda altrettanto bene il bacio vorace di Benjamin, ma non ha memoria del posto e forse non serve nemmeno averne – oh, in fondo si tratta di suo zio, il dannato amante del dannato Zackary.

Quando viene, stranamente, sembra tornare al mondo. La bolla in cui si è rinchiuso, esplode. I suono del proprio orgasmo è un gemito parallelo al grugnito lieve, mozzato, che fluisce dalle labbra di Keane.

«Richard...» lo chiama ancora, a bassa voce. Il respiro mozzato, fisso sul tavolo, e gli occhi chiusi, serrati come saracinesche.

Questi si affretta a carezzargli un fianco, ma lo fa solo per controllare il suo stato d'eccitazione. Quando raggiunge il suo sesso lo trova bagnato e morbido, tant'è che batte le palpebre e, confuso, si chiede come abbia fatto a venire in quel modo. Schiocca la lingua, scivolando via dal suo corpo, e sospira. «Sistemi tu, vero?» Domanda atono. Cerca dei fazzoletti, infine si arrende all'idea di usare quello di stoffa che gli spunta dal taschino della giacca. E si pulisce le mani, si asciuga il sesso. Tiene le labbra strette, i denti serrati. Non ricorda un solo attimo di quell'andirivieni frenetico e si sente un idiota, un completo scemo.

«Sistemo io» mormora Keane. La gola arsa, la testa su di giri. Fatica a tornare in piedi e ignora perfino il modo blando di Richard di lasciargli la boccetta di lubrificante alla fragola a qualche centimetro dalla candela spenta.

«Perfetto» soffia. «Io vado, allora...»

«Sono le dieci, Richard» borbotta. Posa le mani sul tavolo e si solleva a fatica. Sente i muscoli delle gambe cedere, tuttavia non tentenna e fa leva sui palmi per non cadere in terra come un cretino. «I miei tornano più tardi...» inizia, venendo subito interrotto dalla stizza di Richard:

«Non m'importa.» Non dice altro, perlomeno non subito. Si sistema i pantaloni in vita e infila il fazzoletto sporco nella tasca interna della giacca. Allora l'allaccia di nuovo e raddrizza le spalle. Accende la luce senza pensarci due volte e cerca il proprio riflesso nello specchio più vicino. «Ho da fare, verginello...» mormora. «Non posso restare a farti compagnia, non mi piacciono le coccole.» Schiocca la lingua, si guarda le dita, poi sistema i revers, la camicia, e si schiarisce la voce. «Non ti dispiace, vero?» Gli lancia un'occhiata attraverso il riflesso dello specchio e si sente stranamente colpevole – odia sentirsi colpevole e odia certi sguardi da cucciolo abbandonato che tanta gente continua a lanciargli quando mette la parola fine a una scopata.

«No, certo» dice. Breve e conciso nella sua bugia. Distoglie gli occhi da Richard e prega in silenzio che lui possa fare altrettanto.

«È stato bello» mente. «Facciamolo più spesso, d'accordo?» E sorride, si stringe nelle spalle. Non lo guarda nemmeno, ma esce dal salotto e raggiunge l'ingresso. La nausea sembra salirgli in gola con prepotenza. «Facciamolo più spesso, d'accordo?» Echeggia piano, tra sé e sé. «Che cazzo mi è saltato in testa?» Si morde le labbra, deglutisce un paio di volte, infine serra i denti e trattiene il conato con un respiro profondo. «È stato bello...» dice ancora. «Ma che cazzo dico? Vaneggio?» Afferra un fiore dall'aiuola più vicina e lo tira via con forza. Neanche si accorge di aver estirpato una rosa con mezzo arbusto, tuttavia inizia a fare i conti con le spine qualche passo più avanti, non appena raggiunto il cancello. «Vaffanculo, Rich» sibila a se stesso. Con il pollice inizia a far saltare le spine, poi preme le dita alla lunghezza giusta e taglia l'arbusto per gettarlo lungo il marciapiede. Osserva la rosa con aria assorta, infine la indossa come fiore all'occhiello e infila le mani in tasca.

«Rich, quando sei scemo da uno a dieci?»

«Dodici?» ironizza. Quando si rende conto di non essere il proprietario della voce che ha posto la domanda, però, si ferma. Sussulta e guarda alla sua destra in fretta e furia. Il cuore in gola e le orecchie nuovamente presenti al mondo. «Zia...» soffia.

«Ti do un passaggio fino a casa?» Domanda. «O stavi andando da qualche parte?» Adele posa un gomito sul finestrino abbassato e storce di poco le labbra. In volto ha l'espressione di chi la sa lunga e fa arrossire Richard di vergogna. «Non vado di fretta, comunque. Posso darti un passaggio ovunque tu voglia, Rich.»

«Grazie...» Si guarda attorno, sembra dubbioso, infine accetta l'offerta di Adele e sospira. Apre lo sportello della Lamborghini, si siede sul sedile accanto al suo e aggancia subito la cintura di sicurezza – con Adele al volante è pressoché un obbligo. «Perché mi hai chiesto quanto sono scemo?»

«Il fatto che tu me lo stia chiedendo è altrettanto stupido, Rich.» Adele sospira. Mette in moto la Lamborghini e sorvola con un'alzata di spalle. Dice: «Allora, andiamo a Liberti Avenue?» E ghigna divertita, lo pungola con un'occhiata di traverso, ridacchia. «Dove ti porto, scemo?»

«Prima d'intasarmi con mille domande, zia, potresti anche rispondere...»

«Ti sei fatto il cugino di tua moglie, Rich, non serva che sia io a spiegarti il perché della mia domanda» dice sbrigativamente. Gesticola con la mano sinistra, poi la posa di nuovo sul volante e scuote la testa. Gli occhi fissi sulla strada illuminata dai lampioni e il sospiro rassegnato sulla punta della lingua. «Avrei dovuto tenerti d'occhio al posto di Steven, ma non ho voglia di fare la spiona con Gordon» borbotta. «Sono abituata alle scappatelle di Ben, dopotutto, e delle tue m'interessa poco e niente...» Schiocca la lingua, svolta sua sponte a Walnut Street e poi aggiunge: «Ti ha detto bene che Steven è impegnato con la faccenda dell'appalto, Rich.»

«Steven è impegnato con cosa?» Sembra incredulo. Riesce perfino a superare tutte le altre farneticazioni di Adele. Strabuzza gli occhi e socchiude e labbra.

«Ha accompagnato Gordon a una qualche cena con un qualche pezzo grosso di Pittsburgh» fa evasiva – tipico. «Non so perché abbia dato a me l'onere di tenerti d'occhio, ma è segno evidente che scarseggi di personale.» Schiocca la lingua, forse allude a qualcosa.

Richard non se ne accorge, perciò grugnisce e basta. Chiede: «Dove mi porti, zietta?»

«A Liberty Avenue?» Batte le palpebre una sola volta, facendo rombare il motore della Lamborghini su Emerson Street. «A casa c'è Tera, ti annoieresti a sentire le sue chiacchiere con Cassandra – ricostruzione unghie, arredamento d'interni, cose a caso. E Ben non è ancora rientrato, probabilmente è fuori a fare baldoria con qualche tipo della Liberty...»

«Mi porti nella tana del lupo?» Ridacchia. «C'è qualcosa che non va nella famiglia Dragon, zietta... Sembra che solo Gordon Dragon sia uscito per il verso giusto.»

«O quello sbagliato, chissà» borbotta lei in tutta risposta. «Ad ogni modo sappi che non racconterò niente, che non ti ho visto entrare in quella casa e che ti ho perso di vista poco dopo l'incrocio con Maryland Avenue.»

«Sei tutta matta» ridacchia Richard.

«O sana» lo contraddice ancora. Allora allunga una mano per frenare quella di Richard in prossimità dello stereo. «Se lo accendi parte la connessione GPS» dice. «Ho fatto di tutto per isolare la mia Lamborghini, Rich, non fare cazzate!»

«Scusa.» Solleva le mani in segno di resa, dopodiché arriccia le labbra in una strana smorfia e osserva Adele con un cipiglio confuso. «Devo ancora capire da che parte stai, zietta» soffia allora. «Per le mie nozze non hai detto una parola, per quello che ho fatto alle Hawaii ai finto d'incazzarti e poi mi hai detto che sono un genio...» Aggrotta le sopracciglia, sbuffa, non riesce a trovare il nesso delle sue azioni. «Mi segui in silenzio e mi dai un passaggio a Liberty Avenue per quale motivo? Se non fai il gioco di papà, allora che cavolo stai facendo?»

«Segreto professionale» dice. Non aggiunge altro, anzi: svolta a sinistra e fa schiantare la guancia di Richard sul finestrino. «Ma devo chiederti un piacere, Rich...» sussurra.

«Che piacere?» Borbotta.

«Fai in modo che i nostri segreti rimangano soltanto nostri, d'accordo?» Gli lancia un'occhiata veloce e lo vede annuire con riluttanza.

«Non so cosa diavolo stai facendo, zietta, ma non mi dispiace affatto coprirti.» Ghigna beffardo.

«Io copro te e tu copri me. È perfetto, non credi?» Ironizza. Il sorriso ben stampato in faccia e gli occhi attenti, vigili, che puntano fuori dal quartiere residenziale di Shadyside.

«Perfetto.» E Richard annuisce. Non ha voglia di sondare il terreno, non adesso e tantomeno più tardi. La verità è che l'idea di andare a Liberty Avenue lo attira particolarmente dall'ora del brunch.

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