Errori
Zackary è in silenzio da quasi un paio d'ore. Non sa bene il motivo, ma è come se il mutismo di Benjamin lo abbia in qualche modo contagiato. E il chiedere come mai non pronunci una sola parola è fuori discussione – oh, sembra fin troppo evidente che abbia litigato con Richard! Tuttavia il fastidio inizia a martellarlo quando, uscito dall'ufficio di Milton MacLaine, lo vede scattare in piedi dalla poltroncina grigia per incamminarsi verso la porta d'ingresso. Vorrebbe chiedergli qualcosa, qualsiasi cosa, o forse – molto più probabilmente – vorrebbe sentirgli domandare qualcosa sul colloquio appena concluso. Così serra i denti, indurisce i muscoli del viso, s'impone il silenzio per tutta la durata del tragitto in ascensore. È al piano terra, però, che sente il cuore in gola e scatta poco prima dell'apertura delle porte di metallo. Le blocca con un gesto secco, con un pugno irritato sul tasto di emergenza. Ferma l'abitacolo e il mondo intero.
«Cosa diavolo...» Benjamin borbotta solo questo, si volta a guardarlo e lo scopre terribilmente teso. Aggrotta le sopracciglia e deglutisce. Sente la gola secca, la rabbia ancora brulicante nelle vene. Annerito fino nell'anima, allora, si lascia andare a un ringhio basso e cerca di spostare la mano di Zackary dalla sequela di pulsanti per uscire dall'ascensore. Non ci riesce.
«Lo so già» sillaba. «Odi gli spazi chiusi, soffri di claustrofobia.» Indurisce lo sguardo e si piazza dinanzi ai numeri illuminati per proibirgli di uscire, di sfuggire al suo sguardo e a quello che crede sia una sorta di terzo grado – e sbaglia, sì, ne è consapevole, ma non riesce a fermarsi. Lo vede annaspare, impallidire, allentarsi la cravatta. «Perché cazzo non mi parli, Ben?» Chiede.
«Spostati, Zack» gl'intima a mezza bocca. «Devo uscire, cazzo...»
«Prima rispondimi» replica, pare irremovibile. Lo sguardo fisso, indagatore e inquisitore. Sembra volerlo mettere all'angolo, farlo sentire alle strette più di quanto non faccia già la sua strana fobia. «Dimmi perché non mi parli.»
«Ti sto parlando» boccheggia. Alza la voce, gli si getta addosso e lo allontana con uno spintone brusco per premere più volte il pulsante d'allarme. «Cazzo, cazzo...» borbotta. Sente l'aria mancare nel petto, ma è solo colpa di quello che il Dottor Parrish ha sempre definito come attacco di panico. E chiude gli occhi, si morde le labbra, batte un pugno sulla parete di metallo. «Zack, che cazzo hai fatto?»
«Tu cos'hai fatto?» Mormora. Inizia a sentirsi in colpa e quasi vorrebbe scusarsi. Lo guarda con fare dispiaciuto, rintanato contro il vetro dell'ascensore, e non ha il coraggio di muovere un muscolo. Sa di aver fatto un'idiozia, sa di averlo spaventato come faceva Gordon quando ancora era un ragazzino, tuttavia è tardi per tornare indietro, perciò incalza: «Cosa è successo quando mi hai lasciato nel portico, Ben?»
E lui non ragiona, scatta ancora con un pugno sulla parete. «Ti sei fatto scopare da Richard!» Ringhia, annaspa, si concentra sul proprio tarlo e non sulla domanda di Zackary. Non riesce a trattenere la verità, tantomeno a mandarla giù come un amaro boccone – no, non adesso e non mentre il panico s'impossessa di lui fino ad annebbiargli il cervello. Apre gli occhi, sa che sono lucidi e che sono infuocati almeno la metà della propria voce. Allora lo guarda, grida: «Quando? Quando è successo? Perché lo hai fatto? Perché non me lo hai detto?»
«Prima che ci mettessimo insieme» soffia. «Ero fatto, non ricordo quasi niente di quella dannata notte.»
«Ma non me lo hai mai detto!»
«Non volevo dirtelo perché avresti reagito così!» Anche lui alza la voce. Stringe le mani in due pugni ben saldi lungo i fianchi e quasi scivola in terra quando Benjamin gli si avvicina. Guarda i suoi occhi fiammanti, sente il suo respiro accelerato e ha come l'impressione di poterlo vedere esplodere da un momento all'altro. Deglutisce a vuoto, poi continua: «Non ti saresti mai avvicinato a me se lo avessi saputo. Avresti mandato a puttane tutte le serate trascorse assieme e mi avresti lasciato al Karma-Log come niente fosse. Io non sarei stato niente per te, non mi avresti mai conosciuto e non ti saresti nemmeno sforzato di farlo... Mi avresti trattato come una puttana, Ben.»
«Non è vero» mormora. Ha gli occhi pieni di lacrime e la voce mozzata in gola, adesso. Retrocede di un passo, torna ad accanirsi sul pulsante d'emergenza e infine tira un sospiro di sollievo quando vede le porte di metallo aprirsi alla sua sinistra. Con il fiato corto, finalmente, esce dall'ascensore e si piega appena. I palmi premuti sulle ginocchia, la bocca spalancata, le vene del collo gonfie e il volto paonazzo. Sa di essere ridotto a uno straccio, sa di essersela vista brutta e sa anche che la colpa di tutto questo è imputabile a Zackary. Tuttavia non riesca a voltarsi per prenderlo a pugni e si accascia in terra, puntellato sui calcagni, mentre sente il rumore sei suoi passi farsi vicino. «Stronzo» lo apostrofa soltanto.
«Non volevo farti questo, Ben.» Anche lui ha la voce strozzata e la testa su di giri. «Io non volevo chiuderti là dentro, davvero...» mente – forse dice la verità, non lo sa neppure lui. Quando prova ad allungare una mano sulla sua spalla lo vede sobbalzare e la ritira come scottato. Si umetta le labbra e dice: «Scusami.»
«Scusami?» Echeggia. Ha come voglia di ridere, mentre l'aria gli riempie i polmoni e gli occhi lacrimano appena. «Non sai fare altro che chiedere scusa, Zack» sputa. «Scusa per non aver saputo allontanare Rich, scusa per essermi fatto beccare dalla gente di Gordon, scusa se non ho potuto chiamarti per dirti che stavo bene, scusa se non ti ho mai detto di averlo preso nel culo da tuo nipote...» lo canzona in un moto d'ira.
Zackary boccheggia. Apre le labbra, poi le chiude. Non trova le parole giuste, non sa come replicare e neppure se sia giusto farlo. Cosa potrebbe dire, in fondo? Scusa, Ben, non volevo mentirti. Altre scuse, altre parole in grado d'indispettirlo. Serra i denti, deglutisce a vuoto e si guarda attorno. L'androne vuoto, la videocamera di sorveglianza, il portone chiuso a pochi passi da loro. Prova l'impulso irrefrenabile di darsela a gambe, ma chissà perché non riesce a muovere un solo passo. E allora lo dice lo stesso: «Scusa.»
«Non me ne faccio niente delle tue scuse del cazzo, Zack.»
E l'interpellato si morde le labbra, solleva lo sguardo verso il soffitto, deglutisce a fatica. Mormora: «Va bene, ho capito.» Lo sorpassa senza più guardarlo, mentre si sente stringere il petto in una morsa fastidiosa, inquietante. Poi si ferma, percepisce la stretta delle sue dita sul jeans e quasi sospira di sollievo.
«Non andartene» dice. La voce bassa, ridotta a un rantolo. Sembra quasi una supplica, non un ordine. «Ho solo bisogno di smaltire la rabbia, non andartene» continua.
«E vuoi smaltirla in terra?» Schiocca Zackary. Lo guarda ancora dall'alto e si sente terribilmente in colpa, perciò si china accanto a lui e gli solleva il viso. Occhi negli occhi, mormora: «Io ti amo, Ben... Mettitelo in testa.»
«Non chiudermi più in un ascensore» balbetta. E non risponde, lo vede serrare i denti, poi soffia: «E non trattarmi come un cretino, non farlo mai più.»
«Non ti ho trattato come un cretino» precisa subito, aggrottando le sopracciglia.
«Non mi hai detto di Rich, avresti dovuto farlo.»
«È un ragazzino dispettoso, è viziato» sibila con rabbia. «Lui non è interessato a me almeno quanto io non sono interessato a lui. Perché avrei dovuto dirtelo?»
«Per rispetto.» Sa di non poterlo biasimare, sa che le proprie parole sono più ipocrite di lui, ma non riesce a frenare la lingua e dice: «Non devi nascondermi niente, Zack...»
«Va bene.» Annuisce.
E Benjamin serra i denti, sospira, si tira in piedi a fatica, cercando di guardarsi attorno senza sentire le gambe tremare, vacillare. Sa di essere il primo a nascondere il segreto e sa che Zackary ha ragione nel definire Richard come un dispettoso ragazzino viziato – oh, se lo sa! Potrebbe perfino aggiungere del suo, potrebbe liberarsi da un peso insostenibile e sentirsi meno ipocrita, tuttavia la lingua pare come gonfiarsi in gola, annodarsi, pesare. E non dice niente, non pronuncia una sillaba, perché spiegare a Zackary il motivo che spinge Richard a tormentarlo è fuori discussione.
Se il regno del terrore di Gordon Dragon poteva definirsi concluso, quello dell'anarchia sfrenata di Adele Dragon aveva appena visto la luce – e nel modo più assurdo possibile, per giunta!
Le grida di Richard non erano passate inosservate alla tavolata, meno che mai a Jae che, quasi colpevole, aveva sentito lo stomaco chiudersi all'improvviso in una morsa salda, ferrea. E a Richard sembrava piuttosto chiaro come il salmone che questi avesse ingurgitato continuasse a fargli su e giù per lo stomaco: bastava guardarlo bene, immaginare il pizzicore del vino bianco lungo l'esofago, per avere un quadro completo della situazione.
«Lo sapevo» dice di soppiatto, facendogli battere le palpebre.
«Cosa?» Richard aggrotta subito le sopracciglia, si mette sulla difensiva e deglutisce a stento. «Che zio Ben se la fa con lo spogliarellista?» E incrocia perfino le braccia, si mostra restio alla conversazione, ridacchia aspramente per non ascoltare la risposta.
«No.» Jae scuote la testa. Si guarda attorno e benedice l'aria fresca del portico, perché sostenere un conversazione simile in salone lo renderebbe a dir poco inquieto. «Parlo di te e tuo zio» accenna. Poi si blocca, perché l'occhiataccia di Richard lo frena. Tuttavia ingoia il rospo e continua. Chiede: «Hai presente il fascicolo del Dottor Parrish?» Lo vede annuire a denti stretti, poi sente la sua voce uscire bassa, quasi in un rantolo:
«Quindi lo ha saputo anche mio padre...»
«No.» Jae scuote ancora la testa, sospira e stende appena le gambe in avanti. Mollemente seduto sulla poltroncina di vimini, solleva lo sguardo sulle travi lignee del portico. «Ho eliminato le prove, perfino le cassette...» dice.
«Encomiabile» commenta sarcastico Richard. Non sa se ringraziarlo per non aver macchiato il suo nome a un passo dalla morte di Gordon Dragon o biasimarlo per un lavoro compiuto a metà. Schiocca la lingua, allora, e aggiunge: «Ade lo sa?»
Annuisce appena e sbuffa. «Non per causa mia, è ovvio» dice. «Lo hai gridato così forte che sarebbe stato impossibile non sentirti...» Arriccia le labbra, serra le dita sui braccioli in vimini della poltroncina, infine mormora: «L'ho confermato solo in quel momento e solo perché me lo ha chiesto.» Gli sente schioccare la lingua e a stento si trattiene dal roteare gli occhi per il fastidio. «Ad ogni modo vi ho coperti per non creare guai» soffia. «E non credo di aver sbagliato a farlo.»
«Considerando come sono andate le cose, Jae, direi proprio di no» borbotta Richard. «Ma tu non ne sapevi niente, nessuno di noi sapeva niente: Ade ha agito di testa sua, non ha fatto parola con nessuno del suo piano...»
«Lo so» schiocca.
E Richard attende, lo scruta, sembra quasi indagare sulla veridicità delle sue parole. Non sente, altro, perciò incalza: «Perché lo hai fatto? Perché non hai dato a mio padre il fascicolo completo?»
«Quando ci siamo incontrati a Liberty Avenue eri ubriaco come una spugna» dice. Inizia a raccontare la sua verità dei fatti e lo sente ridere, perfino schioccare la lingua. Così sposta lo sguardo su di lui e gli vede passare una mano sul viso, tra i capelli.
«Non dirmelo...» borbotta.
«Hai cercato di agganciarmi al Freeze, mi hai rincorso fuori e chissà perché mi hai paragonato a tuo zio.» Deglutisce, si blocca, infine sospira e fa spallucce. «Ti sei lamentato come un ragazzino prima che ti mettessi sul taxi per farti tornare a casa, sai? Non sapevi se farti chiamare Rich o Richard. Probabilmente non sapevi neppure chi io fossi...»
«Lo sapevo, eccome se lo sapevo» sbuffa impacciato. Le guance appena arrossate e gonfie, le braccia ancora serrate al petto. Guarda Jae e s'indispettisce. «Non ero così ubriaco come credi.»
«Mi hai chiamato zio Ben» gli ricorda con fare laconico. «E ci ho messo un po' per capire bene la situazione, non volevo giungere a conclusioni affrettate... Poi ho avuto quell'incarico da Gordon e ho letto il fascicolo di Benjamin prima ancora di decidermi se consegnarlo o meno.»
«Assurdo» commenta Richard, lasciandosi andare a una risatina divertita. «Lo hai fatto davvero? Sai che se lo avesse scoperto ti avrebbe fatto fuori, vero?»
Jae deglutisce, annuisce a fatica e poi si lascia andare a un sospiro. I muscoli della schiena rilassati contro la poltroncina in vimini. Dice: «Se avesse letto quel fascicolo per intero avrebbe fatto la pelle a Benjamin, forse anche a te – non so quanto potesse definirsi un buon padre.»
«Poco» interviene Richard con un'alzata di spalle. «Quindi ci hai protetti?» Nel dirlo suona strano anche a lui, ma non trova un termine più adatto e lo vede tentennare nel rispondere:
«Più o meno...»
«E zio Ben ha anche cercato di attaccarti» schiocca. «Non lo trovi assurdo?»
«Lo trovo plausibile» commenta piano. «Non sa che ho tolto io quelle pagine dal fascicolo e non sa che mi sono liberato delle cassette del Dottor Parrish, perciò voleva solo farmi capire che conosceva ciò che conoscevo io...» Si ferma di nuovo, pondera, sente le parole contorcersi in una sorta di scioglilingua ripetitivo, perciò sorvola con un semplice: «Mi ha bollato come pericolo, ecco tutto, e voleva che ne fossi cosciente.»
«Un così bravo ragazzo che lavora per delle persone così cattive...» ironizza. «Non è il posto per te, questo.» E dirlo gli costa, lo fa irrigidire, serrare i denti.
«Tutt'altro: mi piace stare qui» lo contraddice.
«Ti piaccio io, Jae?» Domanda Richard, particolarmente interessato e con un ghigno ben stampato in faccia.
«Se non altro è un buono spunto per un romanzo» continua l'interpellato, mostrandosi non poco evasivo. E lo sente ridere, perciò deglutisce, distoglie lo sguardo, si focalizza di nuovo sulle travi di legno.
«Giusto, sei uno scrittore famoso in cerca di spunti narrativi interessanti» lo canzona bonariamente, non mancando di ridacchiare. Si alza dalla poltroncina di vimini per sistemarsi la giacca lungo le braccia e spolverarsi appena i pantaloni da una polvere invisibile. «Pare che Zia Olly ti aiuterà a diventare ciò che desideri» dice.
«Così sembra» minimizza Jae. Fa spallucce, poi aggrotta appena le sopracciglia e sente i passi di Richard farsi più vicini. Quando si volta, per poco non sobbalza sul posto. Dapprima osserva le sue dita ferme, strette sul braccio che posa sul bracciolo, poi il suo viso. E lo scopre vicino, terribilmente vicino. Deglutisce. «Cosa c'è?» Domanda, forse balbetta. Non se ne rende conto, sa solo che Richard sta sorridendo con fare malizioso e che le sue labbra si avvicinano per rubargli un bacio leggero, quasi dispettoso.
«Mio padre ti ha chiesto di tenermi in casa per un po'» soffia. «Hai intenzione di farlo o no?» Gli vede battere le palpebre e quasi sbotta a ridere. «Sì o no?» Chiede ancora.
«Non hai più il coprifuoco, puoi girare per Liberty Avenue quanto ti pare» replica a mezza bocca.
«Quindi non ti piaccio affatto» constata piano, arricciando il naso con fare curioso, quasi meditabondo. «Ieri sera ti saresti concesso sul divano, Jae...» gli ricorda.
«Ordini superiori» schiocca. «Non sono il tipo che mischia il lavoro con la vita privata» aggiunge convinto.
«Ma se ti sei seduto a tavola!» Richard si allontana appena. Allaccia un bottone della giacca, poi infila le mani in tasca e solleva un sopracciglio. «Non dire che anche quello era un ordine superiore, ti prego...»
«Non lo era?» Jae corruga le sopracciglia e gli vede scuotere la testa.
«Ade non è come Gordon, non sarà mai come Gordon...» soffia. «È mille volte meglio di lui, davvero. Voleva solo essere gentile, credimi.» Si ferma un attimo, ci pensa, poi annuisce alle sue stesse parole e aggiunge: «Non ti avrebbe lasciato qui se non si fosse fidato di te.»
«Perché parli di lei al maschile?» Chiede all'improvviso. «Gordon non lo ha mai fatto...»
E viene subito interrotto dalla spiegazione blanda di Richard: «Problemi di gender, credo...»
Jae si trattiene dallo schioccare la lingua e dire: Fin lì ci arrivavo da solo. Tuttavia arriccia appena le labbra, incrocia lo sguardo eloquente di Richard e sospira di rimando. «Devo appellarla al maschile?» Chiede.
Richard annuisce. Dice: «Se ti piace stare qui è la cosa più saggia da fare – mai indispettire i propri superiori, non è forse questa la regola di un lavoro qualsiasi?»
«Ogni lavoro ha le sue regole» commenta Jae, sollevando un sopracciglio. «Ma di base è uso e costume non infastidire un superiore, sì» conviene infine.
«Se lavori per i Dragon, Jae, allora anch'io sono un tuo superiore» soffia sardonico, forse anche malizioso. Lascia scivolare un indice sotto al suo mento e gli vede aggrottare le sopracciglia. Così scuote la testa, si allontana, ride sommessamente. «Scherzo, ovviamente...» mormora mellifluo. «non sei costretto a venire a letto con me.»
«Dici?» Schiocca in tutta risposta. Osserva la sua espressione sprezzante, il cipiglio capriccioso e il modo di fare troppo sicuro di sé. Allora annuisce, ghigna, lo provoca a sua volta. «Ne sono lieto: non mi piacciono i ragazzetti viziati.»
«Modera i toni, Jae» lo rimprovera. Grugnisce, indurisce lo sguardo, lo scruta con quello che sembra un fare ferito, toccato nell'orgoglio. E si accende subito, va in fiamme. Come una mina pronta a esplodere, lo fissa negli occhi di ghiaccio. «Non prenderti tante libertà con il sottoscritto, non ti conviene...»
«Altrimenti?» Jae sospira, si alza in piedi e lo fronteggia con noncuranza. Le mani in tasca e l'espressione assorta, lievemente divertita.
«Altrimenti ti faccio fuori» dice, mente, deglutisce. Non sa quanto Jae sia esperto del linguaggio non verbale e si fregia dell'anonimato della propria voce ferma, sicura, che echeggia ancora delle note di Nisi Dominus e dello sparo di Adele.
Jae non muta espressione. È freddo come il ghiaccio, monocorde, mentre mormora: «Oh, che paura.»
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top