Amico

Chase è seduto sul divano del salone dei Dragon e non sa bene come ci sia finito. Ricorda a malapena di essere passato davanti al Freeze e di aver tirato dritto – come se quell'insegna azzurra possa davvero ferire gli occhi di qualcuno – per non sentire l'eco delle parole di Jae, per non fare i conti con il suo appuntamento mancato o con la tazza di tè verde che gli ha rovesciato sui pantaloni. Poi la Jaguar di Richard, il suo saluto bonario, quasi beffardo, e Liberty Avenue che sfreccia, che si dissolve nel nulla, che lascia spazio a Shadyside.

«Non mi hai detto una parola per tutto il tragitto, Chase» lo rimprovera Richard. Serve un bicchiere di Whiskey a entrambi e poi si lascia andare mollemente accanto a lui. Lo guarda negli occhi, lo stuzzica con l'ennesimo sorrisetto sornione e sorseggia l'alcolico senza pensarci due volte. «Il gatto ti ha mangiato la lingua?» Chiede.

«Pensavo che foste in lutto» borbotta l'interpellato. E sospira si sistema gli occhiali sulla sommità del naso. Osserva il salone tutt'attorno a sé e lo scopre immacolato, quasi raggiante. Pare che non esista sera nella residenza più assurda del circondario, perlomeno così si dice.

«Il lutto?» Echeggia Richard. Batte le palpebre, quasi strabuzza gli occhi e rischia di strozzarsi con il fumo di una sigaretta appena accesa. «E perché mai? La gente muore di continuo: basta un soffio di vento per far crollare una tegola in testa a un ragazzino in bicicletta, una scossa del sottosuolo per far crollare un palazzo... C'è mai qualcuno in lutto, Chase? Hai mai visto qualcuno piangere davanti al telegiornale?» Ridacchia, poi sorseggia altro Whiskey e allunga la mano con la sigaretta sul bracciolo.

«Richard.» Chase lo chiama con il nome completo e gli fa roteare gli occhi dalla noia, tuttavia continua: «Ti sembra il caso di dire una cosa del genere? Cazzo, ho visto uscire tuo padre in un sacco nero questa mattina! È finito in televisione, sui giornali...»

Richard scuote appena la mano con la sigaretta, disegna cerchi di fumo per tutta la stanza e spinge Chase ad allontanarsi un po', giusto qualche centimetro – la distanza di un posto a sedere che non viene occupato da nessuno. «Hai ragione» schiocca. Lo vede sospirare e sa che nemmeno lui sembra convinto del tono adottato. Così prova a imbrunirsi, a restringere lo sguardo e ad arricciare le labbra in una smorfia strana, inconcepibile. «Percepisco una certa nostalgia» dice. «È un ricordo lontano, fugace... Manca qualcosa, qualcuno, ma quasi non mi sovviene il nome.»

Chase sospira, sente puzza di bruciato lontano un miglio. Non incalza, non indaga, guarda semplicemente il fondo del bicchiere di Whiskey e serra i denti. Borbotta un: «È tutto perfetto.» E sa che Richard rincarerà la dose.

Come da programma, infatti, questi annuisce e sposta il ginocchio sul posto a sedere che lo divide da Chase. La sigaretta stretta tra le labbra, il Whiskey che ondeggia nel bicchiere mezzo pieno e lo sguardo lucido, animato. «È troppo perfetto» commenta piano. Arriccia il naso, finge una stizza inesistente e lo vede arricciare il naso a una nuova zaffata di fumo. «Surreale, aggiungerei.» E torna a sedere composto, posando il capo sulla spalla vicina di Chase che subito sospira.

«Decisamente surreale.»

«Hai presente la quiete prima della tempesta? Io l'ho vissuta per due settimane e non è affatto bella – giuro: asfissiante, fastidiosa, logorante.» Schiocca la lingua, poi torna ritto con le spalle e allunga una mano per far voltare perfino Chase – detesta quando questi fissa un punto imprecisato per non affrontare la situazione, per sentirsi estraneo da un mondo che ormai lo ha inghiottito da anni.

«Allora la tempesta non è così brutta come sembra» ironizza, sollevando un sopracciglio. Poi s'imbrunisce, deglutisce, nota il guizzo di perplessità che ristagna in fondo agli occhi di Richard e non riesce a frenare la lingua. Dice: «Forse è solo l'occhio del ciclone.»

L'interpellato si guarda attorno, si concentra sulla porta vetrata chiusa e torna ad aspirare fumo dalla sigaretta. Schiaccia il filtro tra i denti, mostra una certa irritazione, un nervosismo senza arte né parte, infine borbotta: «Chissà.»

«E ti piace vivere nel dubbio?» Indaga Chase. «Se mi hai portato fin qui per parlare e non hai voluto entrare in qualche locale di Liberty Avenue...»

Richard lo interrompe, lo frena sul nascere e nega la continuità della frase di Chase con un: «Non sono preoccupato. Non c'è niente che non vada in questo momento.» E arriccia le labbra in una strana smorfia, scola il Whiskey d'un colpo, si alza dal divano per servirsene ancora. «Ne vuoi un altro po'?» Chiede, sollevando di poco la voce.

«Non ho ancora finito il primo bicchiere» si lamenta in un soffio.

Richard ridacchia, torna a sedere sul divano e quasi rovescia il Whiskey sul tappeto. Tira un sospiro di sollievo quando questo gli sporca appena il polsino della camicia e poi si lecca le dita con fare assorto. «Non vuoi festeggiare?» Domanda. Solleva un sopracciglio, infine tracanna metà del bicchiere e vede l'espressione di Chase farsi più cupa del solito, quasi inquisitoria.

«Cosa c'è da festeggiare, Richard?» Lo rimbecca.

Allora sbuffa, schiocca la lingua, incrocia le gambe con fare sgraziato e posa un gomito sul bracciolo del divano. Distante da Chase per un paio di sedute, dice: «Non essere arrabbiato con me.» E arriccia le labbra in una smorfia fintamente sconfortata, dispiaciuta, quasi infantile. «Rilassati e goditi la festa...»

«Ma non c'è alcuna festa, Rich.» Chase sospira. Lo sguardo puntato sul Whiskey e le gambe appena divaricate. Tiene gli avambracci sulle ginocchia e così, curvo in avanti, sembra quasi alto la metà.

Richard sorride, si avvicina sornione e stringe ancora la sigaretta tra le labbra. Aspira, infine la spegne nel posacenere a un passo da lì. Guarda Chase negli occhi – non senza essersi un po' piegato, ovviamente – e con la testa inclinata mormora: «È una festa privata, mia e tua.»

«Dovuta a cosa?» Schiocca l'interpellato. «Alla morte di Gordon?» E inizia a capire il senso della quiete prima della tempesta. Torna indietro nel tempo, immagina di passeggiare per Liberty Avenue con il peso di una domanda a cui non ha una risposta: Lo hanno ucciso loro o è caduto dalle scale come dicono?

«Precisamente.» Richard annuisce, si compiace di aver decretato l'inizio di una piccola festa a due e allunga la mano con il bicchiere di Whiskey per batterlo contro quello di Chase. «E alla fine del mio fottuto coprifuoco – zio Ade non ha intenzione di relegarmi in casa, è un così bravo ragazzo...» soffia.

«Chi?» Chase batte le palpebre, solleva finalmente lo sguardo e fa prendere a Richard una postura migliore. Lo guarda, lo vede mollemente adagiato contro lo schienale del divano.

«Adelio, il Figlio Nobile» spiega. Sa che basta questo a far intendere a Chase di chi sta parlando. È ovvio che si riferisca ad Adele ed è ovvio che lui non oserà mettere bocca sulla questione. «Ah, Chase...» scatta. Solleva un indice, fa ondeggiare appena il Whiskey nel proprio bicchiere e pare come illuminarsi di una strana idea improvvisa. Mente, tuttavia, mentre dice: «Quasi dimenticavo di chiedertelo, diamine – che sciocco, eh?»

E l'interpellato sospira, si sente preso in giro – sotto tiro. «Ma di cosa stai parlando?» Domanda sommessamente. È confuso, spaesato, e non si preoccupa di nasconderlo agli occhi di colui che crede suo amico. Poi lo vede sorridere, percepisce la malizia che trasuda quell'espressione e quasi trasalisce sul posto. Deglutisce a vuoto, indugia.

Le parole di Richard fluiscono via con naturalezza, senza intoppi – morbide, melliflue: «Facciamo uno scambio, ti va?»

Chase batte le palpebre, ormai pare che abbia perso il conto delle volte che si è sorpreso da quando ha messo piede nella residenza dei Dragon per volere di Richard. Chiede: «Uno scambio?» La voce gli trema appena, mentre lo vede avvicinarsi. Per un attimo teme il peggio e aggrotta le sopracciglia. Posa perfino una mano sullo schienale del divano e si volta a guardarlo scompostamente. «Cosa dovremmo scambiarci, di grazia?»

«Io ti cedo zio Ben, tu mi cedi Jae.» Semplice, conciso, quasi lapidario, Richard vuota il sacco e con esso il bicchiere di Whiskey. E forse è questo a fargli girare un po' la testa, questo e tutti gli altri drink che si è scolato dall'ora di pranzo assieme a zia Olly. Ma non ci pensa, non per più di qualche istante.

«Jae è libero, non è di proprietà di nessuno.»

«Anche zio Ben» conferma Richard. E serra i denti, ricorda le sue parole di quel primo pomeriggio di fuoco. Se si concentra riesce quasi a percepirne il respiro sul viso e la presa sulla camicia. Così abbassa di poco le palpebre, si perde nei meandri del nulla e poi si riscuote all'improvviso, perché la bolla di tranquillità esplode assieme a Chase:

«Cazzate, Rich!» Si alza dal divano, lo fissa dall'alto e lo scopre perplesso, confuso, quasi crucciato. E non si sofferma sull'assurdità delle parole di Richard, no, bensì su ciò che già sa e che gli serra il petto in una morsa asfissiante da ore. «Benji ha fatto licenziare Zack dal Karma-Log per farlo assumere in una società di sorveglianza e tenerselo stretto quando aprirà la nuova ala dello Shadyside Hospital» sputa tutto d'un fiato, facendo socchiudere le labbra a Richard.

Dapprima boccheggia, non sa cosa dire, poi percepisce la propria voce chiedere: «E tu come lo sai questo?» Si sente lontano, quasi estraneo al contesto e al salone, al divano, a Chase che continua a guardarlo con fare altezzoso – no, stizzito.

«Voci di corridoio» sillaba, minimizza. Distoglie lo sguardo da Richard, ma lo sente ancora addosso, sulle sue spalle, fin quando la voce di questi non lo raggiunge in un ringhio malfermo:

«No, Chase, sei un fottuto infiltrato...» Ed è il turno di Richard, questo. Si alza con il fiato corto, scruta le spalle dell'amico con le labbra socchiuse e la mandibola che ha quasi voglia di staccarsi e rotolare giù, sul pavimento. «Un topo, per dirla alla Gordon.» E s'infastidisce da solo, mentre sibila queste parole. Nominare suo padre lo imbestialisce almeno quanto sentirlo nominare da terzi – o forse di più, chissà.

Chase prende un bel respiro e si volta a guardarlo. Solleva le mani in segno di resa e poi posa il bicchiere di Whiskey sul tavolino. «Non sono un cazzo d'infiltrato, Richard» dichiara candidamente. E non lo vede convinto, anzi. In un attimo ricorda tutti i dettagli che Jae gli ha instillato inconsciamente nel cervello e non può fare a meno di notare il suo cipiglio increspato dalla riluttanza, dall'orrore, dal disgusto. Poi le labbra piegate in una smorfia indegna, non catalogabile. Allora sbotta: «Cristo, ci conosciamo da anni! Ti pare questo il momento per farti venire certi dubbi esistenziali?» Schiocca la lingua, chiude gli occhi e scuote la testa. Non può crederci, non vuole crederci. Continua a dirsi: È impossibile, non sta succedendo davvero. Richard è ubriaco, è andato, è partito. Così sospira, cambia discorso e incrocia le braccia al petto. Dice: «E comunque no, non si scambiano le persone – è un'usanza morta dai tempi della schiavitù, temo.» Forse usa troppo cinismo, forse si lascia andare a un ghigno di scherno e forse ancora schiocca la lingua con fare laconico, stizzito. La verità è che sentir pronunciare il nome di Jae da Richard lo manda in bestia almeno quanto il fatto che questi pensi di poter barattare Benjamin.

«Peccato» soffia. Fa spallucce, torna quasi tranquillo e dimentica la faccenda del topo. Sembra che la tesi di Chase abbia fatto centro e che l'ebbrezza di Richard abbia giocato la sua parte, perché questi continua sulla sua scia e chiede: «Ma Jae me lo cedi lo stesso?»

La risposta di Chase, tuttavia, è un sibilo. Una parola, una minaccia, un ringhio mal trattenuto: «Vaffanculo.» E non aggiunge altro, si limita a restringere lo sguardo, a scrutare quello di Richard nella speranza che rinsavisca da un momento all'altro. Ma non succede, anzi.

Richard si lagna subito e con fare pedante, infantile: «Sembra che ti abbia chiesto la luna, Chase.»

«Non devi chiederlo a me, devi chiederlo a lui» taglia corto. Abbassa lo sguardo, chiude il discorso – quantomeno ci spera.

«Ti dà fastidio sentirlo nominare?» La domanda di Richard arriva a bruciapelo, tanto che questi può vedere gli occhi di Chase sgranarsi. E allora ridacchia, avvicina il bicchiere di Whiskey alle labbra, lo scola solo dopo aver detto: «Interessante...»

Chase pare quasi perdere la pazienza, perché soffia soltanto uno: «Smettila.» E non un nome, non un nomignolo, non un continuo ipotetico. Una parola e basta, un suono che impone il silenzio a un Richard Dragon fuori controllo.

«Ha detto che è stato a casa tua per due settimane...» continua noncurante, posando il bicchiere accanto a quello di Chase. «Avrete scopato come dannati.» E lo guarda, gli gira attorno, si ferma alle sue spalle per posarvi le mani sopra e allungare il viso verso l'orecchio vicino. «Cosa gli piace?» Chiede.

«Basta, cazzo!» Alza la voce, eppure è convinto di averlo solo borbottato.

Perciò Richard ridacchia, gli sistema il colletto della giacca e si allontana di un passo. «Tasto dolente?» Indaga. È certo che la storia con Jae sia chiusa da un pezzo, altrimenti quest'ultimo non si sarebbe lasciato andare tanto facilmente alla proposta di Gordon.

E Chase è scottato, è complice del suo stesso atteggiamento, è fuori di sé. Sente la rabbia assalirgli il cervello e non può fermarla, non sa come fare e forse non vuole neppure farlo. Dice: «Non puoi semplicemente chiedere e pretendere.» Poi guarda Richard negli occhi, lo fronteggia, gli si avvicina di un passo e lo vede retrocedere verso il tavolino. «Chiedi e pretendi, chiedi e pretendi, chiedi e pretendi...» inizia. Sembra un disco rotto. «Chiedi a me, pretendi da me... Cazzo, lo fai da una vita!» Alza la voce, quasi sbraita. Digrigna i denti come una bestia ferita e continua: «Ne ho piene le palle del tuo atteggiamento, Richard!»

«Modera i toni.» L'interpellato non dice altro. Lo scruta ed è algido, freddo, distante. Forse complice dell'ebbrezza, forse ancora assoggettato alla concezione di essere l'unico erede, il figlio prediletto e sbagliato di Gordon Dragon. e allora se ne rende conto: non è più così.

«Ti dà così fastidio sentirti dire no, Richard?» La voce di Chase diventa una lama, lo pugnala volontariamente. Assieme a questa, un'occhiataccia dietro le lenti della montatura a giorno un po' calata sul naso dritto.

«Terribilmente» ammette in un soffio. È assente, monocorde, distante. Forse raggiunge quell'Iperuranio che ha decantato a pranzo, chissà. O forse no, forse cala negl'inferi assieme al ricordo di suo padre e al Crack del suo collo storto da Steven.

«Benvenuto nel regno dei comuni mortali: il No è una parola molto in voga ultimamente» schiocca Chase, ironico e cinico al punto giusto. Lo vede indurire i muscoli del viso e non bada ai propri, no. Non sa nemmeno di essere paonazzo di rabbia, non sa che le vene del suo collo si sono come ingigantite nell'indignazione che lo porta a spronarsi verso Richard senza il minimo accenno di pericolo.

«Sei troppo su di giri, Chase» constata. Ancora il tono basso, neutro, glaciale. E lo sguardo freddo, distante. Richard lascia cadere le braccia lungo i fianchi, non si mostra più restio ad ascoltarlo e, anzi, fa un passo in avanti. Tuttavia non lo vede retrocedere e serra i denti.

Allora Chase inizia a elencare la sua personale sequela di negazioni: «No, non farò nessuno scambio con te. No, le persone non si barattano. No, non sono affari tuoi di quello che ho fatto con Jae. No, non me ne frega un cazzo del tuo cognome. No, Richard, no

E lui rimane impietrito, basito, come stralunato. Sembra che uno tsunami lo abbia colpito in pieno, che Gordon Dragon si sia rialzato dalla propria bara per scattare dalla camera mortuaria fino alla residenza. Le parole di Chase sono uno schiaffo, un manrovescio mentale. E lo fanno sentire piccolo, insignificante, troppo conscio di essere un comune mortale. «Esci» sillaba. Non dice altro, non subito. Lo vede impallidire di colpo e non sa neppure che espressione abbia montato. Lo guarda e basta, lo vede retrocedere di un passo, poi continua: «Esci da casa mia e torna a piedi in quel lurido buco di Liberty Avenue dove ti fai scopare come una puttana dal primo stronzo ubriaco che passa!» Alza la voce, urla, forse diventa paonazzo a sua volta – non diverso dal Chase di poco prima, non diverso da suo padre. «Non me ne frega un cazzo di come ci arrivi, non lo voglio nemmeno sapere: esci» sibila, urla, non ne ha la più pallida idea. E sgrana gli occhi, solleva le palpebre fino a sentire la carezza delle ciglia sulla pelle tesa. «Esci e basta, cazzo! Prima che ti faccia prendere aria a quel cervello sovraccarico che ti ritrovi!» Non si chiede con cosa, non sa nemmeno se ci sia una pistola carica attaccata sotto il tavolo. Lo dice e basta, lo minaccia a gran voce.

Chase rimane in silenzio. Lo scruta e lo fronteggia a voce bassa. Chiede: «Ti piace l'occhio del ciclone, Richard?» Restringe appena lo sguardo, si sistema gli occhiali sulla sommità del naso e afferra con rabbia il cappotto abbandonato sullo schienale di una sedia vicina. «Goditelo finché dura, perché in un attimo rischi di schiantarti al suolo e spappolarti la testa.» Anche Chase lo minaccia. Schiocca la lingua e solleva il mento con stizza, mentre s'infila il cappotto. «Non un muscolo, non un osso, non un pensiero: fine» sibila.

«Io sancisco la fine e l'inizio di un discorso, Chase, non tu» lo rimbecca a gran voce Richard.

«Bentornato nel regno dei comuni mortali: tutti hanno libertà di espressione...» sputa. Arriccia il naso, apre le porte vetrate del salone e solleva una mano per mostrare gloriosamente il proprio dito medio. «Te e le tue pretese del cazzo potete benissimo andare a farvi fottere.»

Richard boccheggia, forse sarebbe meglio dire che sbuffa come un toro pronto alla corrida. Dice: «Giuro che questa...»

E Chase lo blocca, lo interrompe, ridacchia. Chiede: «Cosa?» Lo guarda con fare canzonatorio ed echeggia la possibile minaccia con noncuranza: «Me la farai pagare, Richard? Mi farai inseguire da qualche stronzo leccaculo e pestare a sangue? Oppure mi farai fuori e mi butterai nell'Ohio?»

E Richard non risponde. Lo fissa per una manciata di secondi, mentre il silenzio gli gratta nelle orecchie e lo rende sordo, impotente, ancora complice di quel Bang! soffiato da Gordon Dragon nel suo studio. Allora si fa viva la sequela di E se solo avessi detto questo, se solo avessi fatto quest'altro, se solo avessi agito e non pensato. La porta dell'ingresso sbatte con un tonfo esagerato, lo fa sobbalzare e ringhiare a denti stretti. L'unica certezza di Richard è quella di avere appena perso un amico. «'Fanculo» borbotta. «Non ho bisogno di te.» E vorrebbe continuare la frase, vorrebbe dire: Io sono Richard Dragon, cazzo! Non lo fa, perché non è a lui che spetta il primato di capofamiglia – no, lui è solo un mezzo, una firma, un fottuto errore di calcolo. «Merda...» ringhia.

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