3.2

12 maggio - Mi sia concesso di iniziare con fatti - fatti nudi e crudi, verificati con libri e cifre alla mano e a proposito dei quali non può sussistere dubbio. Non devo confonderli con esperienze che si fondano sulla mia sola osservazione o sul mio ricordo. 

Ieri sera, quando il Conte è venuto da me, ha cominciato a pormi domande su questioni legali e sul modo di condurre certe transazioni. Avevo trascorso un'uggiosa giornata sui libri e, al puro scopo di distrarre la mente, sono riandato a materie sulle quali ho passato i miei bravi esami alla Lincolns Inn. Le domande del Conte seguivano un certo metodo, e cercherò dunque di trascriverle nel loro ordine, essere al corrente del quale potrebbe anche rivelarmisi utile, non so come né quando. 

Tanto per cominciare, mi ha chiesto se in Inghilterra si può avere uno o più legali. La mia risposta è suonata che, chi lo desideri, può averne anche una dozzina, ma che non sarebbe saggio averne più di uno per una certa transazione, dal momento che a uno solo alla volta è lecito intervenire e un cambiamento indubbiamente danneggerebbe i propri interessi. Ne è sembrato affatto convinto, e ha proseguito domandandomi se ostavano difficoltà d'ordine pratico all'assumerne uno che si occupasse, a esempio, degli aspetti bancari, e un altro di spedizioni, nel caso fosse necessario un ausilio locale in luogo distante dalla residenza del procuratore incaricato delle operazioni bancarie. L'ho pregato di spiegarsi meglio, onde non correre il rischio di metterlo fuori strada, e lui:

"Vi farò un esempio. Il nostro comune amico, il signor Peter Hawkins, all'ombra della vostra bella cattedrale di Exeter, che è lontana da Londra, acquista, per conto mio e per vostro tramite, una residenza a Londra. Benone! Ora, concedetemi di dirvi francamente, onde non troviate strano che abbia sollecitato gli uffici di una persona così lontana da Londra anziché di qualcuno che vi risieda, che ero mosso dall'intento di evitare che interessi locali pregiudicassero o intralciassero i miei desideri; e siccome un procuratore residente a Londra potrebbe fors'anche avere scopi suoi personali o di amici da favorire, ecco che il mio agente me lo son cercato tanto lontano: un agente le cui fatiche fossero a mio esclusivo beneficio. Ora, supponiamo che io, che di affari ne ho tanti, desideri spedire merci, diciamo, a Newcastle o a Durham, a Harwich o a Dover: ebbene, non sarei agevolato se potessi affidare l'incarico a un agente in uno di questi porti?" Gli ho risposto che senza dubbio sarebbe così, e che d'altra parte noi procuratori abbiamo un sistema di reciproci collegamenti, ragion per cui qualsiasi operazione può essere eseguita in loco su istruzioni di qualsiasi legale. Così il cliente, affidandosi alle mani di un'unica persona, può contare su un servizio completo senza altre preoccupazioni.

"Ma" ha replicato il Conte "potrei essere anche libero di agire personalmente. Non è così?"

"Certamente" è stata la mia risposta, e ho soggiunto che "molti uomini d'affari spesso lo fanno, qualora non vogliano che l'insieme delle loro transazioni sia noto ad altri."

"Bene!" ha commentato il Conte, e poi è passato a interrogarmi sui mezzi atti a compiere consegne e alle pratiche necessarie, nonché sulle difficoltà d'ogni genere che potrebbero insorgere, ma contro le quali sia possibile premunirsi. Gli ho delucidato tutti questi aspetti meglio che potevo, e indubbiamente mi ha dato l'impressione che sarebbe stato un procuratore abilissimo, nulla essendoci che non prendesse in considerazione o non prevedesse. 

Per essere un uomo che non ha mai messo piede in Inghilterra, e che evidentemente non ha una grande esperienza d'affari, devo dire che dimostra un'intelligenza e un acume straordinari. 

Soddisfatta la sua curiosità circa i problemi intavolati, e dopo che gli ho convalidato le mie risposte nei limiti del possibile, con il ricorso ai libri disponibili, all'improvviso eccolo alzarsi in piedi e domandare:

"Avete scritto di nuovo al nostro amico Peter Hawkins o a qualcun altro, dopo quella prima lettera?" È stato col cuore alquanto pesante che ho risposto di no, non avendo avuto sino a quel momento l'occasione di spedire missive a chicchessia. "E allora, scrivete adesso, mio giovane amico" mi ha esortato posandomi una greve mano sulla spalla.

"Scrivete al nostro amico o a chi volete e ditegli, se non vi dispiace, che vi tratterrete con me ancora per un mese."

"Volete che resti qua così a lungo?" ho domandato, e al pensiero mi son sentito gelare il cuore.

"Lo desidero moltissimo, e non ammetterò dinieghi. Quando il vostro principale, datore di lavoro o quel che volete, mi ha annunciato che avrebbe mandato qualcuno al suo posto, era sottinteso che solo delle mie esigenze si dovesse tener conto. Non ho posto limiti. Non è forse così?"

Che potevo fare, se non chinare il capo in segno di assenso? Ero lì per fare gli interessi del signor Hawkins, non certo i miei, ed era a lui, non a me, che dovevo pensare; e poi mentre parlava, negli occhi e nell'atteggiamento del Conte Dracula c'era alcunché che mi ricordava essere io un prigioniero e che, anche volendolo, non avevo scelta. Nel mio cenno, il Conte ha letto la sua vittoria, il suo predominio nel turbamento del mio volto, e infatti non ha esitato un istante a farne uso, sia pure con quei suoi modi cortesi, irresistibili:

"Vi prego, mio buon amico, di non parlare, nelle vostre lettere, di null'altro che d'affari. Senza dubbio, i vostri amici saranno lieti di apprendere che state bene e che desiderate tornare a casa a rivederli. Non è così?" E, dicendolo, mi ha porto tre fogli di carta e altrettante buste. Erano di quelle sottilissime, destinate all'estero, e a guardarle per poi volgere gli occhi a lui e notarne il sorriso tranquillo e i lunghi canini acuminati sporgenti sul rosso labbro inferiore, ho capito, con la stessa chiarezza che se l'avesse detto, di dover stare attento a ciò che scrivevo, perché non avrebbe mancato di leggerlo. 

Ho deciso pertanto di scrivere, al momento, solo di cose ufficiali, ma segretamente di rivelare per iscritto ogni cosa al signor Hawkins, e anche a Mina, alla quale potevo farlo in stenografia, in forma cioè illeggibile per il Conte. 

Scritte le mie due lettere, me ne sono rimasto tranquillamente a sedere leggendo un libro mentre il Conte prendeva appunti consultando, per farlo, certi libri che aveva sul tavolo. Quindi ha preso le mie due missive, le ha unite alle sue, ha riposto il servizio da scrittoio, dopodiché, non appena l'uscio gli si è chiuso alle spalle, mi sono chinato a guardare le lettere, che stavano capovolte sul tavolo. E non ho provato rimorso alcuno perché, date le circostanze, ho sentito di dovermi difendere con ogni mezzo.

Una delle lettere era indirizzata a Samuel F. Billington al numero 7 del Crescent, Whitby, un'altra a Herr Leutner, Varna; la terza alla ditta Coutts &Co., Londra, e la quarta ai signori Clopstock & Billreuth, banchieri, Budapest. La seconda e la quarta non erano sigillate. 

Stavo per sfilarle dalla busta, quando ho visto la maniglia della porta muoversi. Mi son lasciato ricadere nella poltrona, appena in tempo a rimettere le missive al loro posto e a riprendere il libro prima che il Conte, tenendo in mano un'altra lettera, rientrasse nella stanza. Ha preso quelle sul tavolo, le ha accuratamente sigillate, quindi mi ha detto:

"Spero che vorrete perdonarmi, ma questa sera ho molte faccende da sbrigare in privato. Spero che troverete tutto quanto fa al caso vostro." Sull'uscio si è voltato, e dopo una breve pausa ha soggiunto:

"Mi sia concesso di darvi un consiglio, mio giovane amico, anzi di avvertirvi in tutta serietà che, se lasciaste queste stanze, non avreste la possibilità di dormire in nessun'altra parte del castello. È vetusto, contiene molte memorie e riserva brutti sogni a coloro che si mettono a dormire mossi da imprudenza. In guardia, dunque! Se ora o in un altro momento vi cogliesse il sonno, o lo sentiste arrivare, affrettatevi a tornare nella vostra camera o in queste stanze, dove dormirete in pace. 

Ma se foste imprudente, allora..." Ha concluso il discorso in modo da farmi rabbrividire: con il gesto di chi si lava le mani. Ho capito perfettamente; avevo un unico dubbio, e cioè se i miei sogni sarebbero stati più terribili dell'orrenda, innaturale rete di cupezza e mistero che sembra serrarmisi attorno.

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Più tardi - Confermo le ultime parole scritte, ma adesso non ho dubbi. Non avrò più paura di dormire dove che sia, purché lontano da lui. Ho messo il crocifisso a capo del mio letto, e penso che così il mio riposo sarà senza brutti sogni; e ve lo lascerò.

Quando il Conte se n'è andato, sono tornato in camera mia. Di lì a poco, non udendo alcun rumore, sono uscito e ho imboccato la scala di pietra che portava al punto da cui potevo spaziare con lo sguardo verso sud. Da quell'ampia distesa, per quanto mi fosse inaccessibile, mi veniva un senso di libertà se la paragonavo all'angusta oscurità del cortile. E d'altro canto distogliere lo sguardo da questo mi faceva sentire vieppiù in un carcere, e mi dava il desiderio di una boccata d'aria fresca sia pure notturna. 

Comincio ad avere la sensazione che questo vegliare nottetempo produca effetti negativi su di me: i miei nervi stanno andando a pezzi. Sussulto alla vista della mia stessa ombra, e sono tormentato da ogni sorta di orribili fantasie. Dio sa se in questo maledetto castello non esistono motivi di terrore! Spingevo lo sguardo per la splendida distesa bagnata dal morbido raggio argenteo della luna sì che sembrava giorno, e nella dolce luce le alture distanti era come se si stemperassero, e le ombre delle vallate e delle gole apparivano di nero velluto. Bastava la bellezza a ridarmi animo, c'era pace e conforto in ogni respiro che traevo. 

Mentre mi sporgevo dalla finestra, il mio sguardo è stato attratto da qualcosa che si muoveva un piano sotto al mio e verso sinistra, là dove pensavo che, stando alla disposizione delle stanze, si dovessero trovare le finestre di quella del Conte. La finestra alla quale mi affacciavo era alta e profonda, con il davanzale di pietra che, per quanto logorato dal tempo, era ancora intero; da lungo tempo però mancavano gli infissi. Tenendomi al riparo dello stipite, ho guardato con maggior attenzione.

Quella che avevo scorto era la testa del Conte che si sporgeva dalla finestra. Non ne vedevo il volto, ma lo riconoscevo dal collo e dal movimento di spalle e braccia. E comunque, non avrei potuto sbagliarmi sulle mani che avevo avuto tante occasioni di studiare. 

Dapprima ne sono stato interessato e alquanto divertito, poiché è straordinario come un prigioniero possa distrarsi con un nonnulla. Ma questa mia prima impressione si è tramutata in ripugnanza e in terrore, allorché ho visto l'uomo tutto quanto uscire lentamente dalla finestra, e prendere a strisciare giù per il muro del castello, al di sopra dello spaventevole abisso, a "faccia in giù", il mantello aperto a guisa di due grandi ali. 

Dapprima non sono riuscito a credere ai miei occhi. Ho pensato che fosse un miraggio prodotto dalla luce della luna, un bizzarro gioco di ombre; ma ho continuato a guardare: non m'ingannavo. Vedevo le dita delle mani e dei piedi aggrapparsi ai margini delle pietre, messi a nudo dagli anni che avevano asportato la malta, e così il Conte, servendosi di ogni aggetto e irregolarità, muoveva verso il basso con notevole rapidità, esattamente come una lucertola su un muro.

Che razza d'uomo è questi, o che specie di creatura è sotto sembianze umane? Il terrore di questo luogo orribile mi sovrasta; sono in preda alla paura, a una paura schiacciante, e per me non c'è scampo; sono accerchiato da terrori ai quali non oso neppure pensare... 

Immagine capitolo: ancora il Castello di Bran, adesso l'atmosfera è quella giusta.

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