28. peter ha perso wendy. W
Angolo autrice.
Ciao a tutte, a tutti. Scusate per l'assenza.
Ho avuto un periodo molto complicato, prima per la fine della sessione, poi per problemi di salute (ora tutto bene) e quando sono stata meglio e più libera è subentrato una specie di blocco creativo.
Questo non è il capitolo con cui sarei voluta rientrare dopo un mese, essendo un salto nel passato lo trovo forse un po'ingiusto, ma a livello di trama era necessario secondo me per far capire che Wolfe non è pazzo.
Wolfe aveva bisogno di esprimere il dolore della perdita nel momento in cui l'ha vissuta, perché non si fidi di Blake, perché la odi così tanto. Dal mio punto di vista e da quello di Wolfe, infatti, non si tratta di ciò che Blake abbia fatto, ma del terremoto di emozioni che ha scaturito dentro di lui dentro di lui.
Qui infatti non leggerete quello che è successo davvero, quello molto a breve ce lo diranno Blake e Noel, ma ci sono le emozioni di Wolfe. Vedrete dalla finestra di in una casa spezzata una famiglia allo sbando, addolorata, persa.
Spero il capitolo renda,
ancora scusa.
E grazie Taylor Swift!
§§§
Alice: "Prima di fare colazione penso a sei cose impossibili..."
Contale Alice:
1. C'e una pozione che ti fa rimpicciolire; 2. E una torta che ti fa ingrandire; 3. Gli animali parlano; 4. I gatti evaporano;
5. Esiste un Paese delle Meraviglie;
6. Posso uccidere il Ciciarampa!
Due anni e mezzo prima:
Guardavo l'acqua scorrere dal rubinetto della cucina, mi ero perso fra le gocce limpide che s'infrangevano nel lavandino. Scandivano il tempo del silenzio, tra dolore e mesti rimpianti, rimescolati gli uni negli altri in una poltiglia scura e maleodorante.
L'unico altro suono erano le mie dita, tamburellavano lente sul ripiano in marmo, come se la soluzione a tutta la merda che c'era caduta addosso avesse potuto trovarsi in quegli insignificanti e piccoli rumori.
Perché questo c'era casa mia, in quel periodo: silenzi assordanti alternati a grida e pianti spezzati, rotti.
Come tutti noi.
Un pacchetto di sonniferi mi scivolò sotto il naso, assieme ad un bicchiere di spremuta d'arancia.
Scossi la testa. "Quella merda io non la prendo."
Tata Victoria costrinse le labbra in una smorfia e mi appoggiò la mano sulla spalla. "Wolfe, tesoro. Devi almeno provare a dormire per qualche ora."
"Dormirò quando si saranno sistemate le cose." Le spiegai per l'ennesima volta.
Lei mi sorrise, le guance appena colorate di un rosa pesca che la rendeva più viva di tutti noi, ma anche i suoi occhi erano cerchiati di viola e tristezza.
"Non si sistemeranno..." cominciò a dire.
La interrupi. "Staremo a vedere."
Erano passati esattamente tre mesi da quel giorno ed in quel lasso di tempo anche il resto era stato mandato a puttane. Incredibile come le cose fosse cambiate nottetempo, come io non avessi potuto fare niente per rimediare.
Le porte a vetri del portico si spalancarono, Brooks e Gabe comparvero sulla soglia scuri in viso, portando in spalla mio fratello minore.
"Ma che cazzo?" Sbottai, raggiungendoli a passi svelti, frenetici.
Brooks buttò il culo di Noel sullo sgabello e la testa di mio fratello volò all'indietro, il viso livido, gli occhi iniettati di sangue ed ora chiusi.
"Lo abbiamo trovato ubriaco fradicio nella county line." Snocciolò Gabriel, lo sguardo di chi ne aveva le palle piene di dover stare appresso alle nostre bravate.
Strinsi la mascella e cercai di non aggredire io stesso mio fratello. "Alle tre di pomeriggio eh, No'?"
Lui rimase ammutolito per un'attimo e poi infranse quella lieve barriera di silenzio che si era appena ricreata. La ruppe con una risata isterica, scuotendo le spalle in sussulti violenti, le lacrime gli spuntarono ai lati degli occhi e scivolarono sulle guance peste, finendo direttamente nella bocca. Gocce salate gli impastavano la lingua, riempiendo la gola, impedendo a qualsiasi tipo di parola di prendere forma.
Uno spettacolo raccapricciante, né il primo né l'ultimo al quale avevo assistito in quel periodo.
"Lascia stare, è completamente andato." Borbottò Gabe.
"Lo hanno visto?" Domandai sconfitto, un'altra volta. A quel punto avrei dovuto farci l'abitudine al sapore della perdita e invece no, non mi adattavo mai a quel genere di sensazione. Il mio corpo si ribellava a quello che la mia mente aveva già capito.
O almeno era quello che mi aveva detto lo psichiatra qualche settimana prima.
Cazzate.
Brooks annuì e voltò il telefono verso di me. "Secondo te? Le foto sono ovunque, siamo dovuti entrare dall'ingresso di servizio perché quello principale è un tappeto di paparazzi ed emittenti televisive."
Gabe continuò. "Killian è ancora a San Diego, dobbiamo vedercela da soli."
"Come s-sempre. Da quanto non è a casa?" Una pausa, un singhiozzo. "Tre settimane?" Biascicò Noel, sorseggiando la spremuta che avevo ignorato e così deglutiva sale ed arancia, lividi che seppellivano speranze, verità scomode al posto di bugie dorate.
Vita vera.
Lo zio non si faceva vedere spesso, aveva messo qualche firma qua e là per assumere la tutela dei Broadhurst, aveva strapagato una pol di avvocati e commercialisti per svolgere la questione dell'eredità in tempo lampo e poi si era dileguato, andando via così come era apparso.
Soli.
Ecco come eravamo.
"E non è tutto." Tuonò Brooks, appoggiando l'anca al ripiano in marmo, tirò il telefono fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni e dopo poco girò lo schermo verso di me. "Il tuo bel faccino da super modello è spiccicato su tutte le prime pagine dei giornali locali. Ti hanno beccato a parlare con Francis e hanno tirato da soli le somme."
"Mi fanno fare la figura del drogato." Realizzai in tono piatto. Piatto era tutto ciò che conoscevo, tutto ciò che riusciva a tenermi vivo. A parte Bee.
Brooks fece spallucce. "Se parli con uno spacciatore è normale che lo pensino."
Gabe sbottò, la mano andò a scontrarsi sul ripiano freddo. "Ti droghi?"
"Mi prendi per il culo?" Fui io ad alzare la voce, almeno la parte di me che si era obbligata ad assumere un ruolo che non mi spettava di diritto, quello di capo branco. Posizione che non avevo mai voluto e che, in qualche modo, era scivolata sulla mia testa come una corona di chiodi e vetro. Fragile e dolorosa.
"Gli ho detto che se ci teneva alle dita delle mani avrebbe dovuto tenerle lontane dal Fire."
Entrambi mi guardarono con sospetto, poi cedettero.
"Skippy sta facendo un casino." Constatò Brooks.
Io alzai le spalle. "Non dirlo a me, che sto cercando di risolverlo il casino."
"Li hai scoperti i veri nomi di Tom e Dom?" Chiese mio fratello maggiore.
"Non ancora, sembrano dei fantasmi. L'investigatore non riesce a trovare un cazzo di niente che ci possa essere utile." Spiegai.
E poi il silenzio ci rivestì di nuovo, come una coperta di fumo e ghiaccio.
Soli e rotti.
Era diventato troppo difficile avere controllo sulla mia rabbia, sulla mia testa manomessa e su quegli attacchi di luce rossa che mi annebbiavano la vista. Era stato chiaro sin dalla nascita che ero stato io ad ereditare il carattere di papà, un marchio, una corona, una condanna.
La mamma su di me aveva sempre avuto un effetto calmante, mi distendeva. Ero tranquillo.
Anche Bee lo aveva, c'era così tanta pace quando l'avevo attorno.
E nella mia testa la pace non c'era mai, a parte di sera, quando le luci venivano spente.
Ecco, Bee era la mia notte.
Una lunga notte piena di stelle.
Passi leggeri si avvicinarono a noi, mi voltai di scatto per riempirmi gli occhi dell'unica cosa bella che avevo la fortuna di stringere fra le dita.
Occhi color smeraldo, spalancati e luccicanti come la gemma più preziosa del mondo, i capelli come fili intrecciati di grano scuro e raccolti in una coda di cavallo altissima, un fiocco bianco, color innocenza, a fermare la cascata d'oro sulla base della nuca.
La regina indiscussa del Jet Set, del Beau Soleil, della nostra casa.
Indossava la divisa blu reale della scuola, giacca stretta sulle spalle, blusa bianca con le maniche a sbuffo, la gonna a pieghe poco più corta di quanto prevedesse il regolamento, i mocassini blu e piccoli gioielli preziosi: un paio di orecchini, due bracciali, un anello per ciascuna mano.
Strinse la bocca a cuore ed alzò un sopracciglio, lo sguardo fisso su di me e l'espressione di chi, quelle foto, non solo le aveva viste, ma non riusciva a dimenticarle.
Misi le mani avanti. "Non è come sembra."
"Io non ho detto niente." Il tono freddo, appuntito sulle consonanti.
Sorrisi a metà, piegando appena la testa per studiarla meglio. "Non c'è bisogno."
Si voltò verso il fratello, aggrottando ancora di più le sopracciglia folte. "Tu non gli dici niente?"
"Ne stavamo parlando giusto adesso." Disse, mettendosi diritto, quasi sull'attenti di fronte alla sua unica debolezza: la sorellina.
Blake ci girò attorno, riducendo gli occhi a due fessure quando caddero su Noel. In una manciata di secondi gli strinse le dita sulle guance, l'espressione di Noel si trasformò in quella di un pesce rosso boccheggiante.
"Sei un cretino completo." Riversò l'insulto come se avesse detto la cosa più brutta del mondo, poi lo annusò al pari di un segugio infernale. "Puzzi di tequila." Constatò, alzando un sopracciglio e schioccò la lingua sul palato prima di costringere il viso in una smorfia di disappunto. "Perfino tequila scadente."
Lui sghignazzò. "S-s-ei incompetente, s-sorellina." Singhiozzò ancora, ridendo. "Non è tequila, ma Gin."
Lo schioccò risuonò prima che potessi accorgermi dello schiaffo. Lo aveva colpito in pieno viso, l'impronta della mano che si stava già formando sulla guancia livida di mio fratello.
Blake cadde indietro quando Noel la spinse per le spalle, ma lei, troppo furba per tutti noi, lo trascinò per terra assieme al suo corpo disteso e gli infilò le dita fra i capelli, tirandoli all'indietro con ferocia.
"Stronzo ubriaco!" Strillò prima di graffiarli le spalle.
Lui l'allontanò con una gomitata e poi cercò di avere la meglio bloccandole le mani, gesto che gli costò solo una ginocchiata nello stomaco.
Guardai Gabe e Brooks che osservavano la scena, rimanevano immobili mentre i loro stessi fratelli se le davano di santa ragione sul pavimento. Nulla di nuovo per nessuno di noi, nemmeno per Blake che era cresciuta con nove mostri dalle mani dure.
Le sapeva dare e ricevere come una vera Broadhurst.
Quando riuscì a salirgli sopra, lui inveì contro di lei. "S-sei s-solo." Singhiozzò. "Una bacchettona frustrata." Noel rise di gusto quando lei lo tempestò di pugni sul petto, poi con un gesto brusco mio fratello ribaltò la situazione. "Fatti una scopata, s-s-sorellina."
Quello per me fu abbastanza per mettere la sentenza.
"Basta così." Snocciolai le due parole e si fermarono di scatto, le teste entrambe girate verso di me.
Bee aprì la bocca, l'espressione da bambina a cui era stato detto che non poteva mangiare altro gelato. "Ma..."
"Ma niente. Basta così."
Si rialzarono in piedi, i vestiti stropicciati e le pelli arrossate appena. Mi avvicinai alla bambina a passi felpati e le sfilai del tutto il fiocco bianco che si era quasi sciolto, lasciando il via libera a ciuffi di capelli ribelli che le cadevano sulla fronte.
Misi il nastrino in tasca e le pizzicai una guancia. "Datti una calmata."
"Cazzo, sei diventata Tyson Fury?" Grugnì mio fratello, massaggiandosi lo stomaco.
Lei, come una vipera, gli rimandò un'occhiataccia. "Zotico di un Hastings"
"Da che pulpito." Rimbeccò lui.
"Ho detto di darci un taglio." Poi feci un cenno a Brooks. "Portalo a darsi una ripulita e rimboccagli le coperte, dopo puoi chiudere la porta, girare la chiave e buttarla da qualche parte."
Lui borbottò. "Agli ordini." E trascinò Noel fuori dalla cucina, rumore di passi e piedi che strisciavano sul marmo freddo, la porta che sbatteva, un urlo poco più tardi, un altro a seguire, poi un pianto rotto.
Musica teatrale per le nostre orecchie.
Gabe si era dileguato, Bee ancora con i piedi inchiodati al pavimento, io che mi stringevo l'attaccatura del naso con tutte le dita della mano.
E la sua di mano, piccolina e delicata, fresca e pacifica, che mi donava conforto tracciando un piccolo cerchio sullo zigomo sinistro. Aprii appena gli occhi per vederla arruffata e triste proprio davanti a me.
Smeraldo e pace mi entrarono negli occhi, così presi il primo vero respiro della giornata. Uno lungo e pieno, di lei, del suo profumo dolce come lo zucchero, del balsamo al cocco e della sua pelle.
"Oggi non sei venuto, avevi promesso." Disse corrucciata, le labbra carnose più strette, gli occhi spalancati ed i capelli mossi dalla lotta con quello stronzo ribelle di mio fratello.
Sospirai e piegai la testa su un lato. "Lo so, mi farò perdonare."
"Lo hai detto anche l'ultima volta, eppure non lo hai fatto." Mi fece notare.
E si, avevo già pronunciato quella frase alla prima occasione in cui mi aveva chiesto di esserci per lei ed io non avevo potuto farle da spalla. Le avevo comprato i dolci alla crema della Lucilla's Backery e mi aveva perdonato, affondando il naso nella crema pasticciera.
Presentazioni didattiche che in qualità di presiedete del corpo studentesco doveva tenere ogni mese davanti a quei fossili del consiglio d'amministrazione, roba da niente in realtà, ma per una fanatica del controllo come la bambina erano tutto.
Soprattutto considerando che negli ultimi mesi il cda non c'era andato leggero con noi.
"Mi dispiace." Spicciolai le parole, usando le ultime monete nel mio salvadanaio. Una volta finite avrei dovuto trovare qualcos'altro per chiedere scusa.
Bee strinse le spalle e gli occhi, affilati come spade di vetro, si fecero largo fra i brandelli dell'anima rinchiusa dietro la facciata di ghiaccio e acciaio.
E poi mi abbracciò.
Pelle morbida sulle mie ferite e ciocche di capelli come una coperta di piume che posava sulle mie mani, appoggiate sulla sua schiena per ricambiare l'abbraccio.
Un bacio sulla guancia al gusto di fragola e compassione, ma io la sua compassione non la volevo e non l'avrei mai voluta.
M'irrigidii.
Lei se ne accorse.
"Hai novità?" M'interrogò delicata, studiando la situazione per capire quanto poteva spingersi oltre, a quanti passi fossi dal crollo totale.
Le alzai il mento con due dita e mi avvicinai ancora. "Ne avrò presto, sia dalla polizia che dall'investigatore."
"Presto significa non ancora." Rimuginò pensierosa. "Sono passati tre mesi, ormai avrebbero dovuto capire cosa ha causato l'incidente..."
Infransi le sue parole per rimpiazzarle con le mie. "Bee, c'è la possibilità che non lo scopriremo mai."
"E quindi? Cosa dovremmo fare? Arrenderci così, senza avere risposte?" Balbettò veloce, una parola sull'altra, scuoteva la testa negando a se stessa proprio quelle domande che le uscivano dalla bocca. Mi guardò perplessa, sconvolta. "Loro lo farebbero?"
Ed io rimasi interdetto per un secondo.
Cazzo non lo sapevo.
Mentii, a me stesso, a lei. "Si, lo farebbero."
§§§
Mezzanotte, un te con la vodka.
Mezza sigaretta.
La tv accesa in sottofondo, l'ennesimo programma scandalistico con le nostre facce in seconda serata. In prima, al telegiornale, un ulteriore servizio sulla scomparsa dei magnati dell'energia elettrica.
Previsioni per la terza?
Disastri.
Il presagio fu un rombo di motore, ruote che stridevano nel viale, sgommando sulla curva prima di scendere al cancello e i letti e le sedie vuote o la caccia ai fantasmi all'ora della cena.
Ed il silenzio, ancora una volta, regnava sovrano. Intangibile presenza costante, come un'ombra di fumo velenoso che prendeva le sembianze dei nostri dolori, mutava la forma per ognuno di noi, ma rimaneva lì. Osservava, studiava, giudicava. Emetteva la sentenza della spaccatura della nostra famiglia.
Pezzi di persone alla deriva, presi dallo sconforto, alcuni troppo piccoli perfino per rendersi davvero conto del fuoco che gli bruciava la pelle fino in profondità.
I gemelli erano come automi, senza parole, senza pensieri. Rabbia scorreva vorace al posto del sangue.
Le tre di notte,
l'ora delle streghe, tre dita di vodka.
Tre messaggi persi, incontrollati, il telefono per terra e foschia color lavanda nel cielo tra il nero e il viola.
Dorian scese dalle scale, gli occhi vitrei, persi.
"Sei qui." Decretò a bassa voce, quasi incredulo.
Strinsi la mascella ed alzai un sopracciglio. "Dove dovrei essere?"
"A quest'ora non ci sei mai, uscite ogni notte. Non credere che non me ne sia accorto. So dove andate, a scuola ne parlano tutti." Spiegò con amarezza, il tono stanco quanto il viso.
Annuii, consapevole delle voci che girassero sul Fire. Era diventata l'attrazione di punta di tutti i rampolli di Beverly Hills.
"Non hai nessuna domanda?" Avanzai cauto.
Lui alzò le spalle. "Non me ne fotte un cazzo di sapere perché adoriate farvi prendere a pugni in faccia."
"Non è questo." Lo corressi, eppure poteva sembrarlo.
Dorian sorrise amaramente, un occhio immerso nella notte, uno nella foschia più delicata. "No, infatti. Si tratta di darli, i pugni."
Anche io sorrisi, in modo distorto, contorto, come tutti noi. "Quasi." Poi gli accennai una verità. "Come tutte le cose, sta finendo. La situazione ora è abbastanza tesa, ma ci sono stati dei progressi." Pensai alla corruzione, alla droga, ai combattimenti truccati e poi le minacce o le botte da uomini grandi e più grossi, più crudeli. Allo Skid Row, quello vero. Alla criminalità che era entrata di gran passo in un posto che reputavo sicuro e poi si era appostata direttamente al cancello di casa mia.
Non l'avrei fatta entrare.
"In che senso?" Domandò con un punta di curiosità che non gli vedevo sul viso da mesi. Un briciolo di emozione.
Si dissolse veloce così come era arrivata. "Lascia stare. Tuo fratello piuttosto..."
"Non voglio parlare di lui." Ringhiò ed io vidi di nuovo la nostra compagna iraconda, anche lei invisibile.
Indurii il tono, per sembrare intransigente. "Non vuoi parlare nemmeno con lui se per questo, ma è il tuo fottuto gemello. Quindi risolvete i cazzi che avete fra di voi, di qualsiasi cosa si tratti."
"Non sai nemmeno di che diavolo stai parlando." Mi accusò.
Io alzai le spalle. "Puoi sempre spigarmelo se credi che non lo sappia."
"E perché dovrei?" Sputò fuori dai denti.
"Perché te lo sto chiedendo io, gentilmente. Non fartelo ordinare." Misi enfasi sulla seconda parte della frase, abbassai la voce, irrigidii gli occhi. Persi il confine tra amico, fratello, capo, padre. Mi dissolsi in quella linea sottile.
Dorian sbuffò e si rigirò i pollici nella mani. "L'orologio di mamma. Lo ha lasciato a me e so che sicuramente si è sbagliata quando ha scritto il testamento, perché ha sempre detto che sarebbe stato di Dylan, lo desiderava lui. Però c'era scritto il mio nome su quel foglio ed io di lei non ho più niente."
"Lo hai tenuto tu." Conclusi per lui, e si: lo sapevo.
Annuì e socchiuse gli occhi, vergognandosi in parte di quel gesto codardo.
"Dorian." Lo richiamai ed attesi di avere la sua attenzione. "Tu avrai sempre qualcosa di lei."
Si appoggiò alla parete, accanto alla televisione, mi dedicò un'occhiata tralice, pungente. "Cosa?"
"Il tuo gemello, tutti i tuoi fratelli." Spiegai. "Tua sorella."
"Quello che è rimasto di mia sorella, vorrai dire." E ancora i suoi occhi si strinsero, come se avessero potuto vedere dove io non avevo visto e forse, con il senno di poi, lo avevano davvero fatto.
Ricambiai l'occhiata. "Tua sorella sta bene."
"Cazzate. Blake strilla a tutte le albe, non so che cazzo sogni ma è straziante. Poi è tipo, paranoica, si guarda attorno tutta sospettosa, è diventata diffidente. Ci hai fatto caso, o sei troppo impegnato o dare i tuoi fottuti pugni?" Mi accusò ancora di qualcosa che nemmeno ritenevo possibile, figurarsi esserne a conoscenza.
Si, i terrori erano un problema, ma io non me ne ero perso nemmeno uno. Dormivo con lei, se rientravo tardi, mi addormentavo sulla sua poltrona o in camera mia, con la porta aperta, e poi correvo come un disperato e inventavo un modo, ogni dannata volta, per riportarla alla ragione senza svegliarla di botto.
E vederla contorcersi nel letto, spasmodica e delirante, era davvero una tortura per gli occhi, per il cuore. Quel viso dolente, gli occhi chiusi, i colpi dati al cuscino, alcuni a me, nel tentativo di staccarsi da quel sogno paralizzante.
A volte me lo diceva chi, cosa, aveva visto nell'incubo, altre non ne voleva nemmeno parlare oppure non si ricordava.
Se fosse dipeso da me avrei assunto la forma dei sogni ed avrei terrorizzato i suoi incubi io stesso.
Non era possibile.
"Questa volta sei tu a non sapere di cosa stai parlando." Lo avvisai.
"Wolfe, la stiamo perdendo. Hai visto come ci guarda? Le facciamo pena, noi a lei. Ogni tanto la schifiamo. Quando io e Noel torniamo a casa meno coscienti che altro, lo vedo come cambia l'espressione sul suo viso. Io vedo come ti guarda quando tu non te ne accorgi, quanto soffre a vederci ridotti così." Spiegò e avrebbe dovuto aprirmi una finestra, ma io la richiusi.
Quasi sorrisi. "Ah si. E tu che fai al riguardo?"
"Io ci ho parlato, almeno. Mi ha spiegato che non ce la fa più, che voleva risolvere i vostri problemi e poi andare avanti. Mi ha pregato di smetterla di infilarmi nei guai e darmi una ripulita."
Sorrisi del tutto, vittorioso. "E lo hai fatto?"
Rimase in silenzio e mi crogiolai sul podio dei perdenti, perché avevo ragione, ma di cosa poi? Del fatto che fosse stato una merda tanto quanto me? Avrei dovuto fare un applauso alla mia presunzione, forse un paio o un intero coro.
"Tua sorella sta bene, starà bene. Fidati." Lo dissi per tranquillizzare più me che lui.
E Dorian annuì. "Di questo non mi preoccupo. Queen Bee vince sempre, ma a scapito di chi?"
La risposta sarebbe arrivata dopo: di tutti noi.
Le undici di mattina.
Il sole alto nel cielo,
era un inganno.
La bugia prediletta che quella sfumatura oro e color mare concede al risveglio, sorridendo. Un risolino come presa in giro, perché alla fine la notte arriva per tutti.
Per questo mi ero innamorato della sera. Il buio non ti mentiva, ma ti cullava; era calma l'atmosfera, le ombre erano casa ed io diventavo libero dal peso che avevo sul petto.
Respiravo.
"Non la trovo da nessuna parte." Spiegai senza calma a Brooks. "Anche Noel è sparito, il telefono è staccato. Ho chiamato tutti gli ospedali della zona e hanno giurato di non aver preso in carico persone con il loro nome."
Mio fratello maggiore mi dedicò un mezzo sospiro ed un'alzata di spalle. "Non capisco perché ti preoccupi tanto, non è una novità che qualcuno di voi sparisca per qualche ora."
"Tua sorella non sparisce per qualche ora senza dirmi dove va." Avrei voluto aggiungere anche un -senza di me- però mi bloccai, non era quello il punto.
Bee non usciva di casa senza avvisare ed invece, quella volta, ero entrato nella sua camera per vegliare sui suoi sogni ed avevo trovato il letto vuoto.
Freddo.
Ancora fatto.
E poi ricordai di non aver sentito solo due piedi scendere dalle scale, ma anche un altro paio di passi seguiva i primi, più leggeri e delicati, volavano sul pavimento al punto tale da aver ingannato il mio stesso udito.
Era uscita con Noel e non erano ancora tornati, spiegazioni diverse non erano plausibili.
Avevo chiamato Cheryl e Veronica, ma anche quella pista si era dissolta così come l'ipotesi che potesse essere da una di loro si era formata nella mia mente. Charles e Oliver non erano una strada percorribile.
Cazzo se non mi avrebbero avvisato se l'avessero vista aggirarsi da qualche parte.
"Dove l'hai cercata?" Domandò Cole dall'altro lato della libreria, dove avevo convocato un'adunanza d'urgenza.
Strinsi la mascella e lo stomaco fece lo stesso. "Ovunque. Ho fatto il giro di mezza Los Angeles in tre ore."
Dorian mi riprese. "E l'altra mezza?"
"Per Blake Los Angels si ferma tra Bel Air e Hollywood." Puntualizzò Carter, tra i pochi che assecondavano la mia preoccupazione.
Ma il primo scosse la testa. "Si, ma se stiamo supponendo che sia con Noel, allora..."
"Allora è come cercare un ago in un pagliaio." Concluse il secondo.
Il maggiore dei Broadhurst si alzò dalla poltrona e buttò lo sguardo al di fuori della finestra, era rimasto a meditare nel silenzio fino a quel momento. "Facciamo una chiamata alle forze dell'ordine, vediamo cosa succede se aggiungiamo i loro occhi ad i nostri."
"Pensi che non l'abbia già fatto?" Sbottai, controllando il telefono per la centesima volta mentre partiva la settantatreesima chiamata della mattina. Suonava libero, a vuoto, senza risposta. "Che cazzo." Borbottai, calciando la scrivania da sotto il tavolo.
"Si può sapere cosa non hai già fatto?" Provò a sdrammatizzare Carter.
Lo ignorai e ripresi a chiamare: una due, altre tre volte, mentre attorno a me la piaga di silenzio iniziava ad infrangersi, sostituita da borbottii e voci gravi e poi più forti. Un brusio di sottofondo crescente, ronzava nelle orecchie come api attorno all'alveare.
Tre quarti d'ora dopo ero uscito di casa, di nuovo, pronto a immergermi in un altro giro perlustrativo della città.
E la mia preoccupazione montava come panna e poi s'inacidiva con il passare di ogni minuto, corrodeva la stomaco, risaliva per la gola, inaspriva le mie parole quando si avviluppava sulla lingua e appestava i miei pensieri con immagini macabre, violente, colorate di rosso e morte o di blu e tristezza.
Il cuore in tumulto, un crescendo di battiti veloci, sempre più forti e così incontrollati da sentirne il rumore nelle orecchie.
Bum-Bum-Bum.
Correvano veloci, in competizione l'uno con l'altro per tagliare un traguardo che non arrivava mai, che si spostava ogni volta cento metri più lontano, poi duecento, trecento. Mille miglia di battiti persi, respiri rubati.
Alla svolta per Brentwood le mie mani salde che avevano stretto le sue, tremavano.
Piccole scosse, poi altre.
E il mio respiro controllato, che avevo spesso sincronizzato ed unito al suo, si era spezzato o il mio petto d'acciaio e ferro, traballava incerto sulle curve della strada.
Ed ora, ora, tutto s'infrangeva ad una pazza velocità, curvando come un pilata di formula in pista, ma fallendo, sfracellandomi per terra con la sola idea di averla in qualche modo persa.
Di non essere stato abbastanza attento a lei.
Buchi nell'acqua, ovunque io andassi solo buchi nell'acqua. Si richiudevano così come si formavano, piccole speranze condannate a morte, l'emissione della sentenza e l'esecuzione della pena erano sincronizzate con una forte presa di coscienza: non l'avrei trovata.
Il telefono squillò e la voce di Gabe si materializzo in viva voce nell'abitacolo della Range Rover.
"Wolfe, è calma piatta anche al Mint's, Dorian e Cole hanno perlustrato la zona del Beau Soleil, Brooks è andato verso Hollywood alla pasticceria, Carter e Daniel hanno fatto il giro dei locali e tu hai controllato nello Skid Row. A questo punto possiamo solo aspettare che tornino." Disse trafelato.
Fermai la macchina al lato della strada e presi un respiro, si spezzò a metà. "Nate?"
"Ha deciso di rimanere a casa nell'eventualità in cui fossero tornati." Rispose subito.
Tamburellai le dita sul volante e mi guardai intorno, come se avessi potuto trovare la risposta a tutte le mie domande solamente guardando le macchine sfrecciare per le vie alberate.
Non mi arresi. "Vai tu, io faccio un terzo giro."
"Wolfe..." provò ad ammonirmi, ma io buttai giù il telefono e continuai per la mia strada.
Le sette di sera,
i sette vizi capitali e sette spade sulla testa pronte a calare al tramontar del sole.
Sette vite come i gatti, quattro già usate, la fine della quinta e l'inizio della sesta mi abbracciarono nel momento in cui attraversai a spalle basse il portone di casa.
Otto di noi erano in soggiorno, alcuni in piedi ed immobili o dediti ad una danza di passi storti e nervosi, altri seduti, le dita strette attorno ai braccioli in pelle bianca dei divani o con le mani nei capelli, a stropicciare le guance e gli occhi.
Si voltarono all'unisono.
"Cazzo, fratello. Ti stiamo chiedendo di tornare a casa da ore." Sbottò Brooks scuro in viso, il tono grave e preoccupato, gli occhi cerchiati e stanchi. Mi chiesi come dovessero sembrare i miei a quell'ora.
Nate lo riprese. "Brooks, vacci piano."
"Lo so." Mormorò mio fratello maggiore. "Solo che sarebbe dovuto tornare prima, tutto qui." Sospirò, scoccando un'occhiata a Gabriel dall'altra parte della stanza.
Il più grande dei Broadhurst aveva il viso voltato fuori dalla finestra, le mani nelle tasche e le gambe rigide, ma calme. Girò appena la testa e studiò il mio aspetto trasandato.
"Brooks ha ragione, saresti dovuto tornare quando te lo abbiamo chiesto."
Scossi la testa, forse alzai la voce. "Vali poco più di niente se non combatti per le persone che ami e tu te ne sei lavato le mani dopo appena tre ore."
"Bada a come parli, Wolfe." Ringhiò fra i denti, ma rimangiò le parole successive.
Piegai la testa, il peso della corona, della giornata. "Bada a chi minacci dal alto del tuo trono di carta pesta, è fragile, è finto. Non porta il peso di nessuna responsabilità." Non come le mie spalle, che ultimamente si erano fatte carico del castello di marmo e lacrime in cui vivevamo.
Nate fermò la discussione sul nascere. "Cazzo basta!" Strillò, catturando la mia attenzione. "Tuo fratello è tornato a casa."
Il tempo s'interruppe ed io realizzai la frase e poi anche qualcos'altro: non aveva menzionato la sorella.
"Bee?"
Nessuno rispose.
Il silenzio velenoso si frappose fra tutti noi.
Io mi ripetei. "Bee?"
"Anche zio Killian è a casa." Disse Brooks. "Vuole parlarti nello studio."
La mia vista si annebbiò, confusione e incredulità misti a paura e poi rabbia, pura e cieca. I piedi con il pilota automatico viaggiarono per il salone, arrivarono al corridoio, sorpassarono lo studio, pestarono gli scalini che portavano al piano di sopra e marciarono attraverso la porta della camera di mio fratello, seguiti da altri passi veloci. Un branco in movimento.
E le mani, maledette mani, si agganciarono alle spalle di Noel, steso sul letto più fatto che vigile. Lo scossero, lo stritolarono.
"Che cosa è successo?" Parlò la bocca e la sua si strinse e si piegò.
E poi ancora, la mia lingua chiese ed accusò. "Cosa le hanno fatto?" Lo ripetei, forse cento volte o mille e uno.
Le mie domande trovarono risposta poco dopo, preoccupazione montata e smontata da una frase contorta, quanto me, quanto lei.
"Cosa lei ha fatto a noi." Disse Dorian, una voce vicina, percepita come se fosse stata lontanissima.
Mi voltai, il mondo colorato di viola e blu, più scuro, poi più chiaro, immagini confuse, il cuore nella gola voleva scappare. La bocca la sua via di fuga.
"Cosa?" Chiesi. "Cosa?" Sembravo forse un disperato.
E poi tre semplici parole, le disse Nate a bassa voce in un sussurro a malapena udibile.
"É andata via."
§§§
In sette giorni,
Un unico bisbiglio mi svuotò di ogni parola.
Le inghiottii tutte, le parole e ogni sospiro, qualsiasi piccolo sguardo, l'innocenza, la dolcezza, tutto l'amore che possedevo e che mi era rimasto.
Le bustine di zucchero delle mie emozioni perse sul pavimento, schiacciate dalle ruote delle sue valige, dalle suole dei mocassini vintage, dalla soffocante assenza.
C'era tanto vuoto dentro di me, vorace ed affamato mangiò un pezzo del mio cuore.
Tradito e offeso, senza orgoglio né ragione, appresi la verità. Non stavamo giocando a nascondino, non sarebbe sbucata alle mie spalle mentre la cercavo.
Quella era una tana libera tutti
ed io avevo perso.
Parigi, così aveva detto zio Killian.
Abbiamo risolto al Fire, così aveva detto Noel.
Eppure nulla più importava.
Avevo inseguito le ombre per albe e tramonti, perseguitato dall'idea di lei e da tutti gli "e se?" a cui potevo pensare.
Tormentato e ingannato dai miei stessi sensi, non avevo visto, sentito, o toccato o amato,
abbastanza.
L'avevo amata nella notte e quando non mi guardava, l'avevo amata con ogni piccolo gesto e con quelli più grandi, ma non le avevo detto quanto l'amassi, cosa volessi davvero.
Troppo presto, mi dicevo,
ora era troppo tardi.
Il mio orgoglio avrebbe mangiato tutto il resto, il dolore avrebbe ammattito la metà del cuore che mi era rimasta e per quante volte i miei sogni avessero provato a cambiare il finale di quella favola, alla fine, il nero macchiava il rosa pallido dell'amore innocente.
Azzannava ogni "c'era una volta", divorava tutti gli "e vissero tutti felici e contenti."
Proprio lei che aveva rammendato tutte le mie cicatrici ora le aveva squarciate senza rimorso, amore o tenerezza e cura alcuna, lasciandomi con i cocci rotti del mio cuore, battiti sanguinolenti e paura.
Tanta paura che in sette giorni marciva e prendeva le sembianze del mostro rabbia, poi di quello vendetta, fino a tessersi sulla mia pelle, creare un'altra maschera: ultima e definitiva. Belva odio occupò lo spazio del cuore che lei aveva lasciato.
Imparare a vivere per la seconda volta senza qualcuno di essenziale era una tortura che non mi meritavo di ricevere, che nessuno di noi, meritava di ricevere.
Le stelle polari della mia vita erano scomparse, la mamma, papà,
la bambina.
Avevo un branco però, uno vero, alle spalle; si strinsero a cerchio attorno a me, spalleggiarono la mia bestia e alimentarono la loro.
Cambiammo tutti in quei giorni, perdemmo definitivamente la dolcezza e ci trasformammo in qualcos'altro, in quello che dicevano i tabloid o forse perfino peggio.
Scrissi un biglietto il settimo giorno e lo feci recapitare nella sua nuova camera da letto, in Francia, a migliaia e migliaia di chilometri da me, da noi, dal posto che era nata per occupare: il mio petto.
Lei: la regina bianca, divenne quella rossa dei cuori spezzati. Io, il ciciarampa spinto d'Ira.
Sarebbe arrivato il giorno in cui saremmo stati di nuovo viso a viso, un mostro contro l'altro, due lati dello stesso specchio, due metà dello stesso e massacrato cuore.
L'avrei maledetta per un vita intera. Colpevole di avermi marchiato, abbandonato, corrotto al punto tale da non sapere come fare a sopravvivere senza di lei. Nemmeno l'acqua al sapone sarebbe riuscita a cancellare la sua pelle dalla mia, nemmeno un milione d'immagini a scacciare i suoi occhi dai miei, delle sue mani nelle mie. Parole vuote erano quelle che le mie orecchie riascoltavano in replay, i ricordi impilati alla rinfusa come episodi di una serie tv che conoscevo a memoria. Ne vedevo uno, un altro, poi mi dicevo "ancora l'ultimo."
Ma finiva sempre allo stesso modo:
Peter aveva perso Wendy
...Pareri?❤️🔥🐺
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