1. bagagli e panni sporchi

Angolo autrice:

"Ciao bambine." Così direbbe Wolfe.
Benvenuti e benvenute.

❤️ Vi ringrazio di aver scelto Dovetail, spero che continuiate assieme a me questo viaggio e che, nel frattempo, possiate darmi qualche feedback. Per me sarebbe molto importante.

Siate pazienti con i primi capitoli, anche io capisco come approcciarmi alla storia mentre la scrivo e più lo faccio più entro in sintonia con essa. I personaggi crescono, cambiano, imparano. Altre volte distruggono e combinano guai. I loro rapporti migliorano, peggiorano, cessano di esistere e poi rinascono.

In questo capitolo ci saranno un po' di descrizioni, mi serve per introdurre bene i personaggi (che sono tanti) e un po' di background. Dopo verrà dato molto più  spazio ai dialoghi.

Spero questo libro possa piacervi. Non ho altro che dire: buona lettura. ❤️⭐️

§§§

"Odero, si potero; si non, invitus amabo." Ovidio.

Ti odierò, se potrò; altrimenti ti amerò mio malgrado.

A chi sa chiedere scusa.

"Ebbene si, l'angelo del peccato torna nella città degli angeli.

Capelli biondo grano, occhiali spessi a coprire gli occhi color boscaglia ed un immancabile cipiglio degno di una star di Hollywood: Beccata Blake Broadhurst! Tuta blu, sneakers Dior, uno stuolo di valigie LV ed un auto nera ad attenderla al LAX questo sabato mattina.

Lo chiamano il ritorno del figliol prodigo, in questo caso più che di figlio si parla di sorella.

Era da un po' che non avevamo più notizie da casa Hastings ed ora, proprio dal cielo, da un Jet è piovuta una degli esponenti più chiacchierati del Jet Set californiano..."

Feci ricadere il telefono nella borsa strapiena e calai gli occhiali sul naso. Ero semplicemente stanca di tutte quelle attenzioni.

"Oddio, ma è lei. Allora è vero!" Urlò una ragazzina sui tredici anni mentre cercavo di passare, per quanto fosse possibile, inosservata. Ovviamente la mia missione era fallita. Perché il Beverly Hills News aveva appena fatto saltare la mia copertura.

M'infilai svelta nella berlina nera che mi attendeva fuori l'aeroporto di Los Angeles e sbattei la porta con forza. Prima che il flash della macchinetta fotografica, del paparazzo appostato all'uscita, potesse immortalare la mia, maestralmente dipinta, espressione di sdegno. Avevo alle spalle anni di pratica in cui avevo perfezionato quell'aura d'indifferenza passivo aggressiva, che mi aiutava a non essere infastidita. Il più delle volte funzionava.

Mais si voltò nella mia direzione dal posto di guida, i capelli brizzolati ed un ampissimo sorriso sul viso stanco.

"Non la smetteranno mai signorina." Affermò, mentre ci allontanavamo in direzione Bel Air.

Lo sapevo anche io, oramai ero abituata a farci i conti. Il bene della privacy era l'unico lusso che non potevo permettermi.

"Perché non sai cosa hanno scritto quei mentecatti dello Screaming Truths!" Trillai innervosita.

Mais annuì. "Il pettegolezzo non fa parte di me."

"Sei l'unico che si salva." Dissi, emettendo un sospiro teatrale. "Passiamo per Santa Monica prima di arrivare a Bel Air." Borbottai all'autista fidato che mi scoccò, tramite lo specchietto, un rapido sguardo indagatorio.

"Signorina è sicura? I suoi fratelli..." cercò di concludere la frase, ma sbuffai, appoggiando la schiena al sedile di pelle, interrompendolo prima che potesse continuare oltre. "Ti assicuro che nemmeno i miei fratelli hanno tutta questa voglia di vedermi."

"Altrimenti mi avrebbero cercata durante l'ultimo anno." Pensai senza dar voce a quelle parole che mi annebbiavano la mente.

"Come desidera."

"Non guardarmi così, nessuno ha fretta di tornare casa, se sa che verrà messo sotto processo." Bisbigliai quando mi accorsi dell'occhiata giudicante che mi aveva inflitto.

L'ennesima stilettata di realtà che mi si conficcava addosso da due settimane a quella parte. Tornare a casa per me significava esattamente quello, avevo deciso di sfidare la sorte e fronteggiare a viso aperto la mia famiglia, o almeno quello che ne era rimasto.

Come se avesse capito quello che intendevo, Mais mi regalò un sincero sorriso spento, malinconico forse delle volte che avevo viaggiato nel retro della classe E accompagnata dal mio immancabile spirito vivace.

Una volta arrivati a Santa Monica Bay abbassai il finestrino e sporsi lo sguardo all'esterno, estasiata da quel paesaggio immutato. Il sole splendeva luminoso nel cielo abbandonato dalle nuvole, il mare danzava con la sabbia sulla riva e adulti e bambini godevano di quel microclima paradisiaco.

C'era chi si rilassava sulla spiaggia bevendo i cocktails preparati al Mint, il chiosco lussuoso sulla riva, dove andavo sempre dopo le lezioni a scuola; chi passeggiava sul bagno asciuga a piedi scalzi, ritemprandosi dopo una giornata di impegni, chi invece andava via ancora sporco di granelli polverosi incamminandosi sulla Ocean Front Walk.

Il suono ovattato del telefono mi rapì da quell'attimo di perdizione che stavo vivendo e mi portò bruscamente alla realtà, come Icaro che volò troppo vicino al sole prima di colare a picco nel mare. Allungai la mano e frugai nella borsa ancora con lo sguardo perso, quando le mie mani trovarono il cellulare mi costrinsi a dargli una rapida occhiata.

Il messaggio era da parte di zio Killian, il testo era breve ma recava un ordine perentorio al quale ormai non potevo sottrarmi:

"Sei atterrata da più di un'ora. A casa. Subito."

"La nostra passeggiata sul viale dei ricordi è terminata, Killian sta facendo l'autoritario..." borbottai.

"Signorina, il Signor Hastings ha fatto così tanto per lei ed i suoi fratelli, è normale che voglia vederla di nuovo assieme alla famiglia." Mi ricordò, come se ne avessi avuto davvero bisogno.

Un mugolio fu la mia unica risposta.

Da circa due anni Killian era la persona più simile che avevamo ad una figura genitoriale, mamma e papa non c'erano più.

Una farfalla aveva sbattuto le ali da qualche parte nel mondo, ma l'uragano che si era abbattuto sulle nostre vite, spazzando via tutte le certezze, annientando ogni posto sicuro di nostra conoscenza: era reale.

Emmaline e Hudson Broadhurst avevano esalato l'ultimo fumoso respiro, assieme a Charlotte e Keaton Hastings, il tre settembre di due anni prima. Un incidente stradale dalle circostanze più che sospette, al quale né la polizia, né gli investigatori privati assunti da Killian Hastings erano riusciti a trovare una spiegazione. La strada era vuota, l'impianto frenante della macchina non aveva avuto nessun problema e Keaton, alla guida, non era stato colto da alcun malore improvviso. La rimanente parte delle prove indiziarie era stata spazzata via dal fuoco rovente e bramoso che aveva inghiottito la vettura a seguito dello schianto.

Tutto ciò che sapevo era che la sera mi trovavo con i miei fratelli e i nostri migliori amici nella mia camera da letto, a guardare l'ennesimo film orribile scelto dai più piccoli gemelli Hastings e poi, durante la notte, eravamo stati svegliati da Tata Maria e Tata Victoria, che ci avvisavano che i nostri genitori non c'erano più.

Fummo semplicemente travolti da quel tornando di devastazione e reagimmo in modi diversi, anche i rapporti più solidi riuscirono ad incrinarsi e rompersi come fragile cristallo. Replica perfetta del mondo trasparente e dorato in cui vivevamo, composto d'illusioni che ti avrebbero torturato se ci avessi creduto un po' troppo.

Quando la macchina attraversò l'ultima curva della collina, che ci portava giusto in cima all'altura, fui travolta dalla consapevolezza di essere a casa.

La berlina si fermò di scatto dopo aver attraversato il cancello principale al cui centro torreggiavano due lettere in corsivo, HB: Hastings & Broadhurst. Due famiglie ed una tragedia, quella a cui io avevo preferito voltare le spalle.

"La nostra corsa contro il tempo è terminata." Annunciò Mais.

"Lo vedo, vuoi accompagnarmi fino all'ingresso?" Dondolai la domanda, pur consapevole che la sua risposta sarebbe stata negativa.

"Sta venendo a prenderla la Tata, io mi occuperò del resto dei bagagli, quando arriveranno."

Ed in un battito di ciglia, il cancello si spalancò, rivelando la figura rotonda di Tata Maria alla guida di un Golf Kart di ultimissima generazione.

La mano paffuta si mosse in un saluto vivace ed affettuoso.

"Oh, ragazzina mia. Vieni a farti baciare!" Proferì mentre Mais apriva la portiera per buttarmi nella vasca degli squali.

Lei mi stritolò le ossa aguzze in un abbraccio degno della sua presa mordace.
"Troppo magra, Blake Cordelia. Ci penserò io a te, adesso." Constatò, tastandomi le braccia.

Mio padre aveva insistito per affibbiarmi come primo nome quello di mio nonno, sebbene io fossi una bimba dagli occhioni verdi ed i capelli biondi che meritava un tocco di femminilità in più, così mia madre mi concesse Cordelia come secondo nome.

Anni dopo ringraziai il mio papà per aver insistito, d'altronde in una famiglia tutta al maschile scappava sempre un sorriso quando a presentarsi sotto quelle spoglie ero io.

Sfrecciammo attraverso il viale alberato che portava all'entrata della magione. Condividevo il tetto, i pasti, lo stesso respiro, con ben dieci principi dell'alta società californiana, che poi avessero l'aspetto di criminali era un altro conto. Avevo passato i primi anni di vita a sperare che all'interno del branco potesse aggiungersi un'altra creatura del gentil sesso, ma il mio era stato un caso isolato.

La mia famiglia e quella degli Hastings viveva insieme fin dalla nascita, i nostri genitori erano amici dalla giovane età. Papà Hudson e zio Keaton erano vicini di casa, così una volta cresciuti avevano deciso di unire i due territori di loro proprietà e formare quella che era diventata la villa più grande di tutta Bel Air.

Con una rocambolesca curva a destra, in cui dovetti sorreggermi al sedile per non volare fuori dalla vettura, svoltammo sul sentiero principale.

Piccoli ciottoli bianchi erano stati sparsi per tutto il percorso, rendendo l'ingresso molto più pittoresco di quando lo avevo lasciato.

Oltrepassai il parco macchine, passando per il campo da beach volley e quello da tennis, buttando un occhio languido verso la piscina riscaldata che luccicava in lontananza. Il tutto era abbellito da fiori colorati, tulipani rosa e gialli circondavano le statue bianche e le fontanelle neoclassiche; il prato era verde ed umido e colorava alla perfezione quel quadro magnifico che era casa mia.

Sapevo che se avessimo fatto il giro lungo e fossimo arrivate sul retro, avremmo trovato l'orto botanico e quello biologico accompagnati dal piccolo parco, dove si trovava l'ala esterna della casa; luogo in cui preferivo fare colazione la mattina nelle giornate più miti, vista mare, vista cielo.

Niente di più bello.

Il Kart si arrestò con forza e volammo in avanti sia io che la tata.

"Dovresti imparare a guidare..." borbottai.

Lei mi riprese subito. "Tu l'educazione, ragazzina. Però che puoi farci, con quei bifolchi con cui sei cresciuta, hai dovuto imparare a difenderti." Disse e ci mettemmo a ridere entrambe.

Mi ricomposi e con simulata fierezza bussai alla porta color avorio della villa perlacea, un manto di edera si estendeva su parte della facciata, macchiando vivacemente quella perfezione estetica. Gli concedeva un aspetto più selvaggio, proprio come le persone che ci vivevano dentro.

Nemmeno dovetti bussare, perché Tata Victoria si palesò sull'uscio.

"Bonjour!" Esultò, pizzicandomi una guancia e tirandomi all'interno.

"Bonjour a te, V." Pronunciai, alzando gli occhi al cielo per quel gesto irruento, le tate erano fatte così. Erano state le uniche ad avermi sculacciato da bambina.

Lei storse il naso e premette il bottone sul lato della porta, che avvisava tutti gli abitanti della magione in caso ci fossero ospiti.

"Cosa ho che non va?" Domandai.

Lei mi rispose subito, anche se immaginavo cosa potesse essere: l'abbigliamento.

"Sei troppo sportiva, quante volte ti ho detto che in pubblico ci si aspetta che ti vesta come l'erede del patrimonio della tua famiglia e non come-come..."

"Come una ragazza di diciotto anni?" Le imboccai le parole.

Lei strabuzzò gli occhi. "Esatto! Piaceri e doveri, bambina mia."

E si lo sapevo. L'energia elettrica aveva consacrato la mia famiglia a vertice della piramide sociale. L'HB enterprise forniva elettricità a tutto il paese, da più di tre generazioni. L'ennesimo legame a doppio filo che legava il mio cognome a quello dei famigerati Hastings. L'alta società era un mondo dorato, un coro di voci sinfoniche che avrebbe potuto attirare ogni orecchio. Per questo le note stonate, alla fine, erano le uniche ad avere rilievo. E noi, purtroppo, godevamo nell'esserlo. Andavamo controcorrente e quello ci aveva provocato proprio tutta la fama che odiavamo.

"Questa fase di ribellione è durata fin troppo."

Aveva detto Killian dall'altro capo del telefono, quando aveva deciso di mettere fine alla mia permanenza nel collegio parigino. Si era guadagnato da parte mia solo uno sproloquio infinito, su come quello non fosse un atto sconsiderato attraverso alla mia famiglia, ma rappresentava l'unico modo che conoscevo per rimettermi in sesto.

La mia vita era cambiata drasticamente notte tempo e gli avvoltoi avevano preso a girarci sulla testa, affamati ed in attesa che i giovanissimi eredi della HB Enterprise dichiarassero il fallimento, in tutti i sensi.

"Bentornata, era ora." Sentenziò proprio lui, mentre mi prendeva per il gomito e mi guidava per l'ingresso ovale.

Era il fratello di Keaton Hastings e non aveva nessun legame di sangue con noi Broadhurst, ma aveva comunque deciso di battersi per la nostra tutela, di dirigere la compagnia e mettere a tacere i pettegolezzi più feroci.

Quindi no. Non aveva il mio cuore, ma sicuramente si era guadagnato il mio rispetto e, nella nostra famiglia, quello era di gran lunga più importante.

Sul fondo dell'ovale in cui ci trovavamo si apriva un androne di scale doppie. Diedi una celere occhiata in quella direzione, perché sapevo bene che era lì che si trovavano gli spazi più intimi della casa: camere da letto, libreria, sala studio. Nell'ultima si tenevano i nostri processi.

Da piccoli eravamo bambini dalla fervida immaginazione, i nostri genitori spesso mancavano da casa ed eravamo dieci mocciosi pronti a bisticciare furiosamente anche per l'ultimo panino alla marmellata di visciole. Così avevamo trovato un modo tutto nostro di regolare i conti senza interferenze degli adulti, ci sentivamo grandi, invincibili, intoccabili.

Probabilmente era così che ci vedevano dall'esterno, ma le casualità della vita ci avevano dimostrato ormai più di una volta che anche il diamante più scintillante poteva nascondere una crepa.

Quando Zio Killian si accorse che nessuno sarebbe sceso a breve sembrò pervaso da un senso familiare di irritazione, abbastanza da alzare la voce per più di tre secondi.

"Ragazzi, di-sotto!" Ringhiò dal basso delle scale, se c'era un'altra cosa che apprezzavo di lui era che non si intrometteva per nulla nelle nostre faccende, a meno che non fosse costretto, interveniva solo quando qualcuno di noi l'aveva fatta grossa per davvero.

"Nulla che non mi aspettassi, zio. Te lo avevo detto che non sarebbe stato facile." Lo tranquillizzai.

Rimasi ferma accanto a lui per qualche minuto, fin quando una serie indefinita di passi pesanti e lenti risuonò sul soffitto in lontananza, fino a farsi sempre più forte.
La prima cosa che vidi dall'altezza a cui mi trovavo fu una chioma di capelli dorati identici ai miei.

Un barlume di speranza s'impadronì dei miei occhi quando dal parapetto spuntò il viso inconfondibile del mio fratello gemello: Nathaniel era seguito in ordine di età da Daniel e Dorian. Mia mamma non avuto uno, ma ben due parti gemellari.

Il primogenito, Gabriel, mancava all'appello, era l'unico che avevo sentito nel passato anno e mezzo, l'unico che era venuto più di una volta a Parigi per fare compagnia alla sua sorellina minore. L'unico che avrebbe potuto darmi manforte, però, era due anni più grande di me e in quel momento si trovava al college di New Haven assieme al maggiore degli Hastings: Brooks.

La mia esatta metà sorrise per pochi secondi, prima che una presenza ombrosa gli si riversasse alle spalle, sottomettendomi ad un espressione di ferro che non dava adito a conclusioni diverse se non quella che non fossi la benvenuta in casa mia.

Wolfe Hastings era tutto ciò che dovevo temere davvero, mi odiava fino al midollo e non aveva avuto nessuna remora nel farmelo presente con un unico messaggio scritto di suo pungo, che mi era stato recapitato la seconda settimana che avevo passato al collegio.

La calligrafia era pulita, una coltellata veloce ma letale.

"Non esisti più, non per me."

Poche e semplici parole che avevano reso il mio cuore un pezzo di pietra, stravolgendo la mia realtà una volta di troppo.

Assieme a lui arrivarono anche il resto della truppa degli Hastings: Noel, della mia stessa età, Carter e Cole, i gemelli corvini, l'ultimo acquisto della nostra famiglia allargata.

Era tutto perfetto, prima, come una favola con nove principi ed una principessa, due re e due regine, un impero fondato sulla compagnia più importante di tutto il paese, il regno dissoluto dell'alta società moderna.

Peccato che dopo, quando la fiaba si era trasformata in uno squallore di pettegolezzo, i media avevano banchettato con quello che rimaneva di noi. Ci avevano fatto a brandelli e dipinti come un branco di ragazzini viziati e fuori controllo.
Mocciosi che avevano prematuramente ereditato una delle attività più redditizie dello Stato senza nessuna competenza.

Il comportamento realmente al di fuori delle righe che avevamo avuto a seguito di quella notte era stato solo causa nostra e aveva alimentato il vortice distruttivo della fabbrica del gossip che era diventata la nostra vita.

Mandai giù l'aria e alzai il viso contro quello di Wolfe con orgoglio, era lui il capo branco, nessuno muoveva un dito senza la sua approvazione, ma al contrario di quanto mi aveva scritto io esistevo ancora.

Ed ero proprio nella sua tana.

"Il saluto non si toglie a nessuno." Pronunciai con voce ferma e salii le scale a falcate ampie, senza distogliere il contatto visivo da quel maremoto che aveva negli occhi. Il blu intenso si mescolava di una sfumatura più scura, come il cielo della notte, quando era particolarmente arrabbiato. Il viso costretto ad un'espressione impassibile, che chi lo conosceva bene come me, poteva facilmente decifrare. E la mascella serrata così forte che sarebbe stata in grado di strapparmi un braccio con un solo morso. Gli zigomi affilati mi avrebbero tagliato un polpastrello solo se mi fossi permessa di sfiorarli con la punta del dito.

Quello era il ritratto della rabbia. Ed eravamo tutti molto bene al corrente di quanto Wolfe non riuscisse a controllare gli scatti d'ira.

Tutti noi avevamo un problema dal giorno dell'incidente, tutti noi ci rifiutavamo di affrontarlo.

Arrivai sull'ultimo scalino e mi trovai minuscola davanti alle loro altezze vertiginose, in un anno e mezzo erano cresciuti parecchio. Wolfe e Noel sfioravano il metro e novanta e i miei centosessantacinque centimetri sembravano d'un tratto troppo pochi per fronteggiarli uno per uno, figurarsi tutti insieme.

Nate si voltò rapido verso Wolfe, che rimaneva ancorato alla ringhiera come se l'avesse voluta sradicare per tirarmela addosso.

Quando il mio gemello si accorse che non avrebbe avuto nessun tipo di permesso per rivolgermi la parola, abbassò lo sguardo ed attese che fosse qualcun altro a procedere con l'ingrato compito di guadagnarsi la disapprovazione del capo famiglia.

"Fratello dì qualcosa, così Nate eviterà di mangiarsi la lingua." Ridacchiò Noel, smuovendo i ciuffi castano scuro sulla testa ed attese una risposta, ma lui rimase impassibile con i capelli neri come il buio che gli incrociavano i lineamenti truci ma raffinati.

Dorian e Daniel avanzarono dallo schieramento e mi si posizionarono ai lati delle spalle, il primo mi agguantò il retro della schiena ed un guizzo verde prato gli balenò negli occhi.

"Guarda guarda, gli onori di casa toccano ai più piccoli, sorella." Disse il secondo, pizzicandomi la guancia con vigore. Io sorrisi in modo velato.

"Non sembrate più tanto piccoli." Aggiunsi.

Il volto di Noel si tramutò in una smorfia.
"Che ti aspettavi, sei andata via. Ci hai voltato le spalle ed ora torni qui come se non fosse successo nulla."

Spalancai la bocca, ero preparata a quello, semplicemente viverlo ed immaginarlo erano due cose ben diverse.

Non feci in tempo a rispondere, perché Wolfe si staccò dalla ringhiera e mi venne incontro con passo predatorio. Le spalle più larghe di quanto le ricordassi ed il braccio era stato completante macchiato da inchiostro nero e colorato in alcuni punti.

"Te ne devi andare." Era la sua sentenza.

"No, Wolfe. Aspetta!" Esplose finalmente Nate, passandosi una mano sulla fronte.

Wolfe lo ignorò e continuò a dedicarmi la sua tetra attenzione.

"Te lo dirò solo una volta: vattene. Se te ne vai via oggi stesso lascerò che la tua vita inutile possa continuare senza intoppi. Feste, Socialite, eventi mondani, benefici. Tutto quello che avrai intenzione di fare sarà alla tua portata. Rimani qui e ti prometto che nel giro di poche settimane te ne andrai, strisciando."

Le parole mi colpirono come un secchio d'acqua gelida, il tono duro e roco di una minaccia ben fatta.
Poi mi dedico uno occhiata gelida, venni minacciata da due pozze di letale azzurro. "La scelta è tua."

La persona che mi conosceva meglio sulla faccia della terra, il custode dei miei segreti più intimi, si diceva pronto a rivelarli al mondo interno.

Quello che una volta era stato il mio punto di riferimento era diventato il mio peggior nemico. Ed io non avrei augurato nemmeno all'uomo più detestabile mai esistito di avere Wolfe Hastings pronto a fare fuoco dall'altra parte della barricata.

Mi schiarii la voce e avanzai verso di lui a passo felpato.

"La lontananza, evidentemente, ti ha fatto dimenticare cosa sono stata io per te. La quantità di confessioni a cuore aperto che mi hai fatto, i peccati che mi hai confessato quando nessun altro poteva sentirli. Ricorda chi sono io, Wolfe, di cosa sono capace. Perché ad ogni tua azione ne seguirà una mia. Io non vado proprio da nessuna parte. Essere mio nemico, adesso, è una tua scelta." Tuonai con più decisione di quanto riuscissi a portarmi dentro. Con una forza che non pesavo avrei più trovato dentro di me.

Io non ero niente senza di lui.

Wolfe fendette lo spazio che ci separava con una risata amara, poi si ricompose scuotendo la testa, come se stesse allontanando un pensiero scomodo.

"I traditori non saranno mai ammessi in questa casa." Mi oltrepassò veloce e scese le scale due alla volta.

"Allora sei il primo a doversene andare!" Gli urlai di rimando, prima di sentire il rumore della porta di ingresso che sbatteva prepotente addosso al muro.

Era andato via per davvero.

Mi guardai attorno. I loro sguardi emettevano vibrazioni confuse, un mix letale di disprezzo e dispiacere condito dal sapore di amarezza. Avevo preparato una scaletta mentale di cose da dire, ma sembravano essere cadute tutte insieme nel dimenticatoio assieme a zio Killian che si era eclissato dalla scena appena si era reso conto che non sarebbe stato un incontro pacifico.

Cole mi passò il telefono con un ghigno sbilenco dipinto sulla bocca, gli occhi azzurri tipici degli Hastings s'illuminarono di una sfumatura ancora più chiara.

"Sei su tutti i giornali, non potevi stare attenta almeno? Ci hai costretto a essere bersagliati ancora un volta da tutte queste attenzioni indesiderate. Proprio ora che le cose andranno meglio."

Scattai verso di lui spingendogli il telefono sul petto.  "Non essere ipocrita, Cole. Mi hanno fotografata all'aeroporto, non dipende da me e lo sai."

Intanto Noel prese a leggere in tono canzonato ad alta voce le prime righe dell'articolo dello Screming Truths, ma afferrai il cellulare prima che potessero mettere in piedi uno spettacolo ridicolo. Avevamo capito il punto.

"Basta così." Gli intimai, sequestrando l'apparecchio e facendolo scivolare nella tasca posteriore della mia borsa da viaggio, poi continuai "dobbiamo parlare."

Dorian mi strinse il retro delle spalle e puntò lo sguardo in basso.

"Senti, questa è anche casa tua. Rimani qui quanto vuoi, Wolfe se ne farà una ragione. Non contare su di noi, se hai un problema te la devi cavare con le tue forze, non sarai inclusa nelle riunioni di famiglia. Ti limiterai a fare presenza nelle serate più importanti, quando tornano anche Gabe e Brooks. Per il resto sei sola." Chiarì a voce bassa, mostrando il profilo greco che condivideva con il fratello gemello.

"Sei mio fratello, con tre di voi condivido il sangue" mi voltai verso Nate lo guardai impaurita "con te ho condiviso la pancia..."

Daniel mi interruppe senza darmi la possibilità di continuare.

"Lo eri anche un anno e mezzo fa, quando sei andata via. Non ti è importato allora, oggi non importa a noi." Poi mi diede le spalle e sparì nel corridoio della zona notte.

Ricevetti una stretta sul retro del collo da parte di Noel prima di vederli sparire tutti oltre il corridoio per rintanarsi nelle loro stanze.

Mi avevano lasciata sola assieme ad un mucchio di bagagli e panni sporchi.

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