XVIII. Say You Won't Let Go
Sedere da solo sulla stessa panca il cui legno racconta gli scorci di vita che si sono raccontati a vicenda a distanza di pochi giorni è come trovarsi in una dimensione totalmente opposta, parallela a quella in cui vive.
Osserva da dietro le vetrate il tempo scorrere imperterrito, incurante della sua esistenza, del suo dolore, del modo in cui lo affoga in quella tazza di caffè estremamente zuccherato che tormenta con il vorticare del cucchiaino.
Scorge il cielo da cui è fuggito in quei frangenti, sotto il quale non avrebbe mai desiderato trovarsi, del quale non avrebbe mai voluto sentire il peso addosso, nel quale non avrebbe mai voluto percepire il suo profumo.
Quell'aroma delicato di angoscia e malinconia, mista alla disarmante bellezza martoriata di chi ha disputato le peggiori guerre contro la vita, e infine si è lasciato vincere.
Ha tentato, nel lento scandire dei minuti, ad abituarsi alla sua assenza, a vivere il grumoso e denso scoccare dei secondi come travi di legno che necessitano di assestarsi per trovare una stabilità, nonostante il loro continuo scricchiolio.
Inutile dire che non ci è riuscito. Che lei è ancora avviluppata alla sua cassa toracica, radicata come piante rampicanti e calcificata all'interno delle sue ossa, disciolta nel suo sangue come un veleno che lentamente lo uccide nella sua discesa verso l'abisso, facendo sì che il suo cuore si gonfi fino a schiacciare i polmoni, fino ad esplodere e non lasciare nient'altro che cascate di cruore nero.
È troppo occupato a battere il piede della gamba buona sul pavimento a tempo con il turbinio del mulinello creato nella tazza dalla piccola posata d'acciaio per accorgersi del cameriere che circospetto gli si avvicina tastando compulsivamente qualcosa nella tasca del suo grembiule.
Non appena quest'ultimo giunge in prossimità del tavolino, fa scivolare furtivamente sotto il palmo della sua mano l'oggetto misterioso. Lo sguardo di Daniel si abbassa inespressivo sulla busta di carta bianca che il ragazzo gli porge come se si trattasse di un segreto di Stato.
Vorrebbe chiedergli di cosa si tratta ma l'altro lo precede anticipandolo, «Qualche giorno fa, la ragazza che era con lei - quella sulla sedia a rotelle -» precisa «ha lasciato qui questa busta e mi ha chiesto se potessi ridargliela quando l'avrei rivista». Il giovane non ottiene alcuna risposta, e probabilmente mettendo insieme i pezzi egli stesso si rende conto della visibile confusione nelle iridi color nocciola di Daniel, per cui decide di lasciarlo solo.
Non può evitare di chiedersi come abbia fatto Althea a far arrivare la busta a quel cameriere. È certo che non si sia allontanata neppure per un secondo, ma in fondo, quella sua aura di magia dalla quale Daniel è totalmente incantato, sembra rendere tutto possibile, anche oltre l'immaginabile.
Esita. Ha un groppo in gola troppo difficile da mangiare giù, lo divora dall'interno, morde con le sue fauci angoli bui che neppure sapeva di possedere. Lui che ha sempre affrontato tutto di pancia, di petto, si ritrova a pensare che forse non desidera leggere quelle che si prospettano come le ultime parole di Althea.
Preferirebbe custodirne il ricordo attraverso la mente, attraverso i petali dei loro discorsi delicati e delle spine dei loro litigi, attraverso la linfa delle gioie e dei dolori che hanno condiviso, ma è consapevole che in qualsiasi circostanza, se lei avesse anche un solo respiro da esalare, lui desiderebbe ascoltarlo, per cui sforzandosi di essere delicato passa con un dito in mezzo alla chiusura della busta rimuovendo la colla.
Si accorge immediatamente che essa racchiude diverse pagine, tutte scritte a mano, intrise dello stesso profumo delle sue mani incrostate dal sangue e dai diavoli che le pizzicano la carne. Lo stesso profumo di cui i suoi sensi si sono beati mentre le baciava le ferite, e le faceva sue.
Inspira profondamente, poi si immerge nella lettura sentendo le due estremità del cuore tirare come una fune, sentendo le arterie sfilacciarsi in un mosaico distruttivo come l'eruzione di un vulcano.
"Caro Daniel,
Se leggi questa lettera probabilmente siamo già lontani, più di quanto credi, o forse sono talmente vicina da stare seduta di fianco a te, solo che tu non puoi più vedermi."
Neanche sei righe, e già sente lo scrosciare di mille acquazzoni precipitare dentro il petto, battere impetuosi alla stregua contro le flebili vetrate della sua anima, spaccando la superficie con i loro pugni fatti di gocce di ricordi.
Il suo nome impresso sulla carta leggermente ingiallita, che riporta le proprie cicatrici tra una parola e l'altra, fatte di lembi più sottili, logorate dall'evaporare delle lacrime di Althea, ormai asciutte ma di cui le macchie sono ancora vivide, come se ci stesse piangendo sopra lì di fronte a lui.
"Avrei tanto voluto fare le cose per bene, scrivere una lettera d'addio ma sono solo capace di dirti arrivederci, perché sai che sono sempre stata realista ai limiti dell'esasperazione, ma tu mi hai insegnato che il vero amore è in grado di rimanere unito anche oltre la morte, come gli anelli di una catena indistruttibile."
E il peggio è percepire la lontananza, sentirla distante anni luce, prendere un altro respiro con la consapevolezza che probabilmente a distanza di chilometri lei ha già deciso di non farlo più. Di chiudere il proprio fiato nella loro bolla e lasciarlo imprigionato lì per sempre, mentre tutto dentro di lei si ferma.
Il peggio, è sentire quegli anelli sempre più stretti, fino all'asfissia, tanto da non potersi rompere neppure sotto i colpi del più forte dei flagelli. Sentirsi eternamente legato a qualcosa che non tornerà, ma che vivrà per sempre ramificato in boccioli polverizzati dentro di sé.
"Ci sono cose che la mia indole introversa e taciturna non è mai stata in grado di rivelare, in particolare, non ho mai fatto in tempo a dirti grazie. Grazie, per ogni singolo momento, per ogni boccata d'aria, ogni ventata di felicità che hai portato nella mia vita. Grazie, per ogni raggio di Sole, perché nel buio in cui abitava la mia solitudine regnava il gelo da troppo tempo. Grazie, per aver resistito alle mie tempeste, agli tsunami provocati dai miei repentini cambi d'umore, alla nebbia dei miei silenzi, all'uragano delle mie crisi. Grazie, per aver preservato le mie mani dalle mie stesse torture, per aver leccato le mie ferite mentre io non ne trovavo più la forza. Grazie, per avermi riassemblata ogni volta che cadevo a pezzi, senza mai arrenderti, senza mai perdere la pazienza nonostante la stanchezza, nonostante anche i tuoi di cocci da raccogliere. Grazie, per essere la persona meravigliosa che sei."
Preme le dita contro le palpebre oscurando il mondo intero, all'infuori di lei. Perché è ancora lì, arrampicata lungo i vasi sanguigni, che lo guarda nel più enigmatico caleidoscopio dei suoi occhi.
Gli urla di correre da lei, ma la sua voce prega di lasciarla andare. La voragine che gli crea nello stomaco la vede emergere, aggrappata all'ultimo residuo di vita, ma il fondo verso il quale penzolano le sue gambe inerti lo implora di lasciarla precipitare.
Eppure, sente la corda ancora stretta tra le sue mani. C'è ancora qualcosa da tirare su, e anche se le fibre di quella fune minacciano di cedere sente l'altra estremità tirare forte, e non verso il basso.
"Perché tu sei diverso, Daniel, perché tu mi hai amata quando ero già una disgrazia. Non ci sei stato ai tempi della gloria, ai tempi in cui la vita appariva complicata ma era una passeggiata di salute in confronto a ciò che avrei vissuto dopo. Ci sei stato quando intorno a me c'era solo buio, quando la luce non era nient'altro che un lontano ricordo. Sei stato tu la mia luce, tutti i miei Soli. Hai tenuto sulle tue spalle tutti i miei giorni, per quanto oscuri fossero, per quanto forti fossero le urla dentro di me visibili attraverso i miei occhi, non te n'è mai importato niente di farti male, di uscirne integro."
A farsi nitido nella sua mente è il tonfo sordo proveniente dal bagno che aveva sentito quella sera, steso sul letto della loro camera d'albergo a Tokyo.
Sente i propri passi lasciare impronte sulla sua pelle, sono sporchi del catrame in cui è impantanato, è la paura, lo assale.
Il fruscio della porta scorrevole che scivola tra le sue dita che fremono. Poi i contorni traballanti di quella creatura ferita, rotta, disintegrata. Un disegno perfetto, colorato tutto fuori dai margini, scarabocchiato a tal punto da coprire le linee originali.
Sommerse da tratti estranei, violenti, tanto da bucare il foglio, ma non da cancellarle.
I bordi caotici delle sue labbra, intersecate alle sue, perfettamente incastrate ai suoi tagli malamente seghettati, ferite cauterizzate e squarci ricuciti ad occhi chiusi con il filo di spago d'oro che lega le estremità delle loro anime.
Mi hai amata quando ero una disgrazia.
Se solo si fosse resa conto che Daniel non avrebbe saputo osservare alcun capolavoro senza paragonarlo a lei, senza valutarlo come estremamente infimo ed esecrabile in confronto a quell'apocalittico connubio di insostenibile tormento e dissacrante amore.
Perché Althea è sempre stata il suo angelo caduto, dalla prima volta che i loro occhi si sono scontrati con la delicatezza di un terremoto.
Il suo angelo dalle ali spezzate, che l'ha trascinato con sé durante la sua caduta verso gli inferi. Ma la verità è che a Daniel persino le fiamme dell'inferno parrebbero confortevoli se ci fosse lei a bruciare al suo fianco.
"Avrei voluto che questa lettera contenesse qualcosa di più concreto, delle scuse forse, ma te ne ho rifilate fin troppe, mentre io passavo le notti a creare immensi grovigli e tu ti impegnarvi a districarne i nodi. Sei stato l'unica medicina in grado di curare la mia anima avvelenata, ma quando sei arrivato era già troppo tardi. Vivo oramai da interminabili mesi in una sfera il cui vetro indossa le crepe del tempo. Basterebbe una goccia di pioggia per spazzarmi via, ed io non voglio rompermi, Daniel, perché sarebbe impossibile rimettermi insieme."
E' costretto a fermarsi per diversi istanti prima di poter riprendere. Le parole cominciavano a vorticare come ali di farfalle morte cullate dalle onde del mare. Si sente annegare, avvolto da tutti quei colori che senza di lei che ne avrebbe riconosciuto tutte le sfumature appaiono grigi come non mai, privi di ogni vitalità.
Si guarda intorno alienato, chiedendosi come tutti coloro che lo circondano possano rimanere così indifferenti respirando quella stessa aria che giunge eccessivamente rarefatta ai suoi polmoni che pulsano disperati implorandone un filo di più.
Deve strizzare le palpebre più volte e trangugia di botto l'intero bicchiere d'acqua che il cameriere gli aveva servito insieme al caffè per togliersi di dosso la sensazione di precipitare ancora nel vuoto.
Si dice che la sensazione di cadere che proviamo quando siamo in procinto di addormentarci sia perché un angelo si è accorto che il momento della nostra morte è ancora lontano, per cui ha deciso di salvarci.
Daniel vorrebbe ripescare dal suo stomaco in preda ai gorgoglii la speranza che quello sia proprio il suo angelo, e che abbia deciso di salvare anche sé stessa e non solo lui.
Tasta accuratamente la consistenza della carta tra i suoi polpastrelli, aggrappandosi voracemente alla sensazione di poter sentire le sue dita stringerlo attraverso quel tocco.
E' una città in fiamme, di grattacieli a pezzi e persone ridotte in cenere, briciole d'amore schiantate violentemente al suolo spinte lungo l'asfalto dal fango di quella pioggia corrosiva che inconsapevolmente fugge dalle sue iridi, bagnando il foglio esattamente nello stesso punto in cui le lacrime di Althea avevano fatto lo stesso.
"Non posseggo giustificazioni a mia discolpa, sono un'egoista, ho pensato solamente a porre fine al mio dolore, ma ti imploro di perdonarmi, non sarei stata in grado di sopportare l'idea di aver condannato anche la tua vita al mio eterno grigiore. Sei nato per splendere, Daniel, poiché possiedi l'innata capacità di donare luce e vita persino ai fiori recisi come me. Con te ho vissuto i momenti migliori di tutta la mia vita, non dimenticherò mai il nostro giro sulla ruota panoramica, non dimenticherò mai una sola delle tue parole, ma tu dimenticami, provaci quantomeno. Dimenticami, perché non ti ho portato altro che dolore, e questo è l'unico vero rimorso che mi porto nella tomba. Dimenticami, perché per andare avanti a volte è necessario tagliare il filo che ci lega ai ricordi, ed io sono quello che pesa più di tutti, e rischia di fare da zavorra a tutti gli altri trascinandoli a fondo."
Sarebbe stato talmente facile, si dice, se fosse stato in grado di odiarla, di provare rancore verso di lei e verso le sue scelte, ma la consapevolezza che tutta la rabbia che prova è indirizzata a senso unico verso se stesso lo uccide ancor di più.
Perché non sarebbe sufficiente regalarle tutte le stelle del cielo, perché ognuna di esse porta il suo nome. Non sarebbe sufficiente racchiudere tra le mani l'Universo intero e trasferirlo tra le sue, niente, neanche tutto l'amore filato tra le radici del mondo l'avrebbe convinta a restare.
Ce l'ha con se stesso, perché non è stato abbastanza.
Ha trovato in lei ogni tassello mancante di sé ma non è mai stato completo a tal punto da non farla entrare come parte integrante, non è riuscito a riservarle un posto di fianco al suo cuore, ha dovuto farcela entrare tutta, ogni perla della sua pelle, ogni sfumatura del caleidoscopio delle sue iridi.
Ha lasciato che si prendesse tutto e che fuggisse via lasciandolo lì, nudo di ogni cosa, di lei, del Daniel che era una volta, di quello in cui l'ha trasformato, di quello che sarebbe rimasto. Ma non è stato in grado di tenerla ancorata ai suoi mutevoli fondali, e adesso lui è una nave vuota che non potrà mai più attraccare in nessun porto.
"Non credevo che sarei mai riuscita ad amare a tal punto una persona, ad innamorarmi davvero, a sperimentare il senso più puro di amore, eppure tu ne hai assunto le sembianze, di te ne era intriso il profumo, in te ne era racchiuso il sapore. Ne sei diventato definizione, significato, apoteosi. A te devo tutto di questi ultimi mesi, ogni scorcio di pura gioia, ogni sorriso del mio cuore malridotto, ogni fitta allo stomaco, tutto."
Se solo sapesse, quante notti insonni passate ad appuntare idee su quel maledetto quaderno, tutte quelle ore spese nella speranza che decidesse di rimanere al suo fianco, ma in particolar modo nel tentativo disperato di farla innamorare di lui.
Se solo sapesse, quanto ha desiderato sentire quelle parole uscire dalla sua bocca. Quanto ha desiderato che abbattesse le sue barriere, che si liberasse da quei meccanismi di difesa inconsci per abbandonarsi totalmente a tutto ciò che avrebbero potuto essere insieme.
Si è illuso fino alla fine, mentre immaginava di svegliarsi al suo fianco tutti i giorni e spettinarle quelle onde perfette fino ad arruffarne ogni ciocca, perdersi nei suoi occhi cangianti e assonnati fino a conoscere il perimetro delle borse violacee che ne tracciano il contorno.
Se solo a lei fosse bastato quanto le ha dimostrato di amarla per ritrovare la voglia di vivere.
"Ero e sono innamorata della passione che metti in tutto ciò che fai, della maniera che hai di affrontare le difficoltà e riderci sopra, come se il dolore fosse una sfida e a te sia necessario solo trovare il modo giusto di risolvere l'enigma per poterla oltrepassare."
Peccato che per una sfida come lei non esiste il modo giusto. Per una come Althea, che è un groviglio di nodi raggomitolato tra le spine non sempre è possibile trovare una soluzione, specialmente se lei stessa non desidera sciogliere il più grande di essi, il più stretto di tutti, quello più doloroso.
Impiega tutte le sue forze per prendere un altro dei mille respiri profondi che si disperdono invisibili nell'aria, poi le ripete ad alta voce, mentre nella mente risuona la sua.
"Ero innamorata del tuo amore per la vita, ma nella mia da amare mi eri rimasto solamente tu."
Le sue labbra tracciano ogni sillaba, si bloccano ad ogni parola sentendone il sapore scorrere lungo le vene, miscelarsi al sangue impregnandolo di inchiostro nero.
E' in grado di strappargli il cuore dal petto, sigillarlo dentro un cassetto di cui solo lei possiede la chiave che ha tutta l'intenzione di distruggere.
"Ti chiedo ancora infinitamente perdono.
Per sempre tua.
Althea."
Si porta il foglio vicino al volto e prima di leggere le ultime righe si abbandona ad inspirare l'odore della carta bagnata dalla sua amarezza e da quella di Althea, quel misto di lacrime e lavanda invade ai suoi sensi. Stringe i lembi di quel foglio tra i pugni corrucciando il volto in un'espressione afflitta, poi manda giù il magone e si costringe a scorrere con lo sguardo lungo lo scritto.
"P.S. Nella speranza che disordinato come sei tu non li abbia ancora lavati, controlla la tasca posteriore dei pantaloni che indossavi l'ultima volta che ci siamo visti. Mi hai fatto mille doni, è il momento di regalarti ciò che possiedo di più prezioso, la mia esatta metà."
Mille ingranaggi scattano nella sua mente, si incastrano provocando un frastuono assordante che lo spinge a scattare in piedi.
Neppure presta attenzione al fatto che nonostante il movimento brusco la sua gamba non percepisce l'ombra di una di quelle fitte di dolore che fino a poche settimane prima lo scuotevano d'improvviso.
Fruga compulsivamente sul fondo delle sue tasche tirando fuori delle monete che neppure conta e abbandona sul tavolino per pagare il suo caffè, e mentre il suono metallico degli spiccioli che roteano sul tavolo lasciano uno strascico soffuso alle sue spalle abbandona il locale.
Solleva una mano verso l'alto in prossimità del marciapiede ed immediatamente un taxi inchioda di fronte a lui. Sale frettolosamente dettando all'autista l'indirizzo del palazzo in cui abita, intimandogli di fare il più in fretta possibile.
Il Sole dai raggi insolitamente privi di inibizione carezza delicatamente le sue nocche sbiancate a forza di stringere le proprie ginocchia mosse da un tremore incessante.
Si strofina il volto abbandonandosi con le spalle contro lo schienale del sedile e quell'intervallo tra fasci di luce e corde di buio che lo avvolgono non fa altro che mandarlo ancor più nel panico.
Non si spiega quel miscuglio di sensazioni, è come trovarsi a mollo in un minestrone di angoscia, ansia, gioia e pura confusione. La morsa alla bocca dello stomaco è lancinante, quasi da doversi piegare in due.
È quella maledetta stronza della speranza, ha lasciato i suoi residui dentro di lui, è un cancro apparentemente sconfitto ma che si annida per ricomparire in forma di metastasi in tutto il corpo.
Lo soffoca, il costante pensiero di essere in qualche modo ancora in tempo.
Il tassista accosta pochi minuti più tardi e dopo avergli sbattuto sul palmo della mano il suo compenso Daniel per poco non si tuffa fuori dallo sportello.
Per l'ennesima volta, di fronte alla scelta fra scale e ascensore si pente amaramente di non aver comprato un appartamento a pianterreno.
Si ritrova a fare su e giù lungo il perimetro del montacarichi rimuginando sul fatto che avrebbe fatto dieci volte più in fretta arrampicandosi per le cinque rampe che poco prima guardava come una scalata sul K2.
Finalmente le porte automatiche si aprono e con quel suo ormai solamente accennato passo claudicato si dirige spedito verso la porta di rimpetto a quella che sul campanello vanta il cognome Verstappen.
Armeggiando maldestramente come suo solito con le chiavi di casa pochi istanti dopo si getta ufficialmente nella ricerca degli indumenti indossati quel giorno, gettati alla rinfusa nella cesta dei panni sporchi proprio come lei aveva pronosticato.
Quando finalmente dopo uno smistamento disperato di stoffe dai mille colori stringe tra le mani i pantaloni di cui lei ha scritto nella lettera.
Li rigira da capo a piedi, scuotendoli come se dovesse risvegliarli da un sonno eterno e nel momento in cui un bagliore particolare cattura i suoi occhi, si rende conto di averli posati sul dettaglio giusto quella sera sulla terrazza del club in cui l'aveva portata.
Il ciondolo di ametista.
La sua esatta metà.
Un modo per fargli capire che gli affida tutto l'amore che possiede, tutto ciò che è in grado di provare ora è suo, e da lui dipende tutto, il dolore, la felicità, la forza che dovrà impiegare per rialzarsi e sostenere anche le gambe di Tecla come ha fatto con quelle di Althea.
Raccogliere i cocci da terra e plasmare il proprio cuore di una forma nuova che intersecato tra le sue crepe nasconde il suo volto, come un collante che gli permetterà di non infrangersi più, neanche tra milioni di anni quando ad implodere sarà la loro stella.
Ma Daniel teme di aver perso i suoi margini, di essere fuggito troppo presto inconsapevole di cosa avrebbe comportato arrendersi. Alienato da se stesso si era appollaiato sull'idea di averla lontana per sempre e non di non averla più.
No, quello non sarà il loro ultimo giorno sotto lo stesso cielo. Non potrà mai, non fino a quando Daniel terrà ancora la sua stretta salda sulla corda legata alla vita di Althea.
Non si tratta più di una sfida, è il round finale.
Ed è allora che digita sullo schermo del suo cellulare quello che in un momento del genere è l'unico numero amico, l'unico di cui può essere sicuro che non gli volterà mai le spalle e che al terzo squillo risponde senza remore.
«Max, ho bisogno di un passaggio all'aeroporto, non posso ancora guidare veloce» esordisce, «Me la vado a riprendere».
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