XVII. Mind Over Matter
Duecento quarantatre giorni, trentaquattro settimane, cinquemila ottocento trentadue ore, circa trentacinquemila secondi in cui non ha fatto altro che convincersi che avrebbe potuto rimandare quel che sarebbe accaduto. Invece adesso di ore ne mancano quarantotto e quella che le sta seduta di fianco nella sua Alfa Romeo d'epoca è l'esatta metà di se stessa a cui dovrà dire addio.
La guarda e non riesce a non pensare a quanto sia bella, di una bellezza talmente scarna, malinconica, micidiale che tentare di competere sarebbe una sfida persa in partenza, anche per lei che è la sua copia. Lo ha sempre pensato Tecla, che Althea fosse più bella di lei. Più bella, più intelligente, più sveglia, più agile, più furba. Più tutto, Althea è sempre stata più tutto.
Seppur possa essere dato per scontato il contrario, Tecla non è mai stata invidiosa di sua sorella. Gelosa forse, gelosa sì, di chiunque le si avvicinasse, sin da bambine, inizialmente persino di Daniel. Ha sempre temuto che la sua colonna portante crollasse per via dei colpi esterni. Non l'ha mai voluta tutta per sé, ha solo desiderato proteggerla, ogni istante della sua vita, perché se Althea fosse crollata Tecla l'avrebbe seguita senza esitare.
E ora, se ripensa a tutto il tempo sprecato senza di lei non può che reprimere i conati di vomito verso sé stessa. È molto peggio dei sensi di colpa, è sapere che la più grande porzione del tuo cuore sta morendo e dovrai sopravvivere con una misera briciola per il resto dei tuoi giorni.
Che cos'è lei, senza Althea? Quella domanda balena nella sua mente da quando ha messo piede a questo mondo, una delle quali per cui ha deciso di partire con Victor dopo il loro fidanzamento. Desiderava scoprire di essere in grado di vivere anche senza di lei, non ancora in prospettiva di dover imparare a farlo davvero, era curiosa di scindere due elementi perfettamente omologati e verificarne la reazione.
Non avrebbe mai potuto immaginare che quei giorni sarebbero passati così in fretta, e soprattutto che la sua gemella sarebbe stata in grado di scovare la propria dimensione totalmente all'infuori di lei, con un'altra persona, in una vita che non somiglia neppure alla lontana a quella che hanno vissuto insieme.
L'esito del suo esperimento viene fuori in quell'abitacolo, con Althea che osserva il vuoto fuori dal finestrino probabilmente immersa tra i suoi pensieri che hanno Daniel come protagonista e lei che non fa altro che pensare a come sarà spoglia la sua vita senza sentire più una voce tanto simile alla sua, ritrovandosi ogni giorno di fronte allo specchio vedendo il riflesso del suo doppione anziché il suo.
Se il tempo è un'illusione lei si è illusa che il loro sarebbe durato di più, che avrebbe sempre avuto un'altra ora per confidarsi con lei, un altro minuto per ascoltare ridere, un ultimo secondo per scambiarsi uno sguardo complice.
E adesso che quelle ultime occasioni si stanno lentamente consumando sente che non sarà mai in grado di averne abbastanza.
Probabilmente è per questo che percorre l'autostrada con una lentezza snervante subendo lo starnazzare dei clacson di camionisti impazienti, perché le piace lasciarsi ingannare, credere di poter rallentare anche il processo per il quale sua sorella si spegnerà sul materassino di una clinica.
«Di questo passo prenderemo l'aereo ad agosto del duemilaventitre», il sospiro che Althea emette picchiettando sulla maniglia dello sportello la fa trasalire.
Ha fretta. Althea ha fretta di non pentirsi, di mettere un punto senza indugi, senza remissioni di peccato. Correre per evitare di scorgere nel paesaggio qualcosa per cui valga la pena fermarsi.
«Petunia è anziana, non posso superare un certo limite» ribatte persuasiva riferendosi alla sua auto a cui è molto affezionata, tanto da darle un nome.
«Allora dì a Petunia che farmi perdere il volo non servirà ad impedirmi di arrivare in Svizzera». Come sempre, per Althea Tecla è un libro aperto, non c'è l'ombra di una sensazione, o in questo caso un'intenzione, che non sia in grado di prevedere o percepire senza neanche doverla guardare.
«Thea, prima di arrivare...tu ne sei proprio sicura? Intendo, proprio nessun ripensamento?». La chiama in quella maniera solo quando viene pervasa dall'ansia, difatti, per tentare di tranquillizzarla un minimo Althea posa una mano sulla sua stretta alla leva del cambio.
«Mi sono mai ricreduta su qualcosa?» Chiede retoricamente.
«Sul fatto che non avresti mai trovato qualcuno che ti amasse quanto me sì» suggerisce l'altra con aria grave mentre di rimando nell'abitacolo cala nuovamente un silenzio ermetico.
Non lo ammetterà mai, pensa Tecla, è talmente testarda che se all'ultimo cambiasse davvero idea proseguirebbe comunque per non saziare nessuno di loro con la sensazione di aver avuto ragione, di aver raggiunto il proprio obiettivo quando lei non ci è riuscita.
Non capisce che a nessuno importa di dirle "te l'avevo detto", che tutto ciò che chi le sta intorno brama è tenerla ancorata al mondo terreno per lasciarle riscoprire il vero valore della vita, la sua e quella di chi la ama più di ogni altra cosa.
Vorrebbe non darlo a vedere ma Tecla si sente talmente piccola di fronte a quell'infinito corridoio che finora ha solamente immaginato e lungo il quale dovrà camminare al fianco della sua gemella.
Insignificante, è così che i desideri di Althea la fanno sentire, mai abbastanza, mai un motivo valido per decidere di restare.
In lontananza l'immensità della struttura a grandi vetrate dell'aeroporto di Monaco si fa sempre più vivida, come se improvvisamente il globo si fosse appiattito e fossero entrambe in grado di tagliarsi con l'affilatura dell'orizzonte.
Non parlano fino all'imbarco, durante l'attesa leggono lo stesso articolo dalla stessa rivista mentre alcuni dei presenti le fissano stralunati, increduli di come inconsciamente compiano esattamente gli stessi movimenti con una sincronia paurosa.
Portano entrambe la loro bevanda dal gusto pessimo alla bocca nello stesso istante, ne bevono la stessa quantità sorseggiando per non scottarsi le labbra e quando questa invade le loro papille gustative i loro volti si dipingono della stessa espressione disgustata.
È come vedere una persona seduta di fianco ad uno specchio.
La verità è che tutto è cambiato e allo stesso tempo è rimasto esattamente identico a quando erano bambine. Uguale a quando si vestivano allo stesso modo e neppure i loro genitori sarebbero stati in grado di riconoscerle se non per il totale distacco caratteriale.
Basti pensare che quando avevano nove anni Althea scoprì di avere una terribile intolleranza alle fragole, e dato che Tecla non ne gradiva il gusto dolciastro quando la madre preparava la macedonia di frutta lei rimaneva sempre muta e si fingeva corrucciata e pensierosa così che la donna non potesse distinguerle.
Oppure tutte le volte in cui a Tecla toccava l'interrogazione di matematica alla lavagna nel periodo delle medie e Althea si alzava dalla sedia recitando la parte della piagnona risolvendo però impeccabilmente l'esercizio al posto della gemella.
Si sono sempre completate a vicenda, tanto che quando erano insieme formavano un intero perfetto, tanto da non avere spazio per nessun altro, e quando invece capitava di essere separate neanche l'intera popolazione mondiale avrebbe potuto colmare il vuoto lasciato dall'altra.
Quel vuoto che a distanza di ore diventerà realtà, eterno, e al quale a lungo andare Tecla dovrà fare l'abitudine per sopravvivere.
È impensabile, passare probabilmente i prossimi sessant'anni con la costante sensazione di avere un pezzo mancante, come i soldati mutilati in guerra, condannati a vivere per il resto dei loro giorni senza un braccio o una gamba.
Il magone nella gola di Tecla si fa sempre più ingombrante mentre ad un passo dal velivolo continua a guardarsi intorno nella speranza di veder scorrere di fronte ai suoi occhi la cellulosa di una pellicola, con Daniel che corre nella loro direzione e con un discorso strappalacrime da film convince Althea a restare.
Si rassegna sul fatto che niente di tutto ciò accadrà quando oltre il finestrino osserva la terra distaccarsi durante il decollo e i confini di quell'aeroporto farsi sempre più impercettibili.
«Mi dispiace» adagia la testa sulla sua spalla.
«Di cosa?» Nello sguardo di Althea non è presente quella vena indagatrice caratteristica dei più ferrei interrogatori, è dolce e stranamente comprensiva.
«Di averti lasciata da sola, di non esserti stata accanto quando avevi bisogno di me» le stringe forte la mano abbandonata sul grembo, ma Althea sorride debole e le lascia un bacio sulla nuca.
«Sei mia sorella, non la mia badante, non toccava a te. Non mi sarei mai perdonata di aver sacrificato anche la tua vita dietro alle mie necessità» riesce ad estrarre il proprio pollice dal pugno in cui Tecla tiene le sue dita per poi carezzare il dorso delle sue nocche.
«Resto comunque una pessima sorella» il risentimento nella sua voce è talmente palpabile da poter essere tagliato con un coltello.
«Sei un'anima talmente leggera, non sarai mai pessima, soprattutto per me. Siete così belli, belli da morire, quando sorridere e siete acqua cristallina. Non meritate di essere inquinati dal petrolio che mi scorre nelle vene» un sospiro plumbeo abbandona le sue labbra, uno di quelli che con qualche grado in meno sarebbe diventato condensa e ci avrebbe messo alcuni secondi a dissolversi nell'aria.
«Se parli di lui, sappi che entrambi avremmo di gran lunga preferito riempire ogni nostra cellula di catrame piuttosto che privarla di te». Asciuga la lacrima che le riga il viso con il tessuto della maglietta di Althea lasciandoci sopra una piccola chiazza che evaporerà in fretta per via del caldo afoso di quella giornata.
«Lo so» senza neanche posare gli occhi su di lei porta il braccio in direzione del suo volto, carezzandole una guancia bagnata con il palmo, levigandone la curva paffuta, «È per questo che meritate di meglio».
Tecla sente già di affondare la sua pelle nel fumo, come se stringesse milioni di atomi di ossigeno e nient'altro, come se l'arto di sua sorella fosse esalato in una nuvola tossica.
Le sue narici bruciano a contatto con quella sostanza immaginaria che le invade senza lasciarle scampo e un po' come Alice nel Paese delle Meraviglie sente le sue ossa farsi piccine piccine rannicchiandosi sul sedile quasi in posizione fetale nonostante sia fortemente sconsigliato dai cartoncini con le indicazioni per la sicurezza incastrate nelle retine sul retro dello schienale di tutti i sedili.
«Non esiste meglio di te. Sei sempre stata la migliore in tutto». Traccia piccoli cerchi sulla pelle che ricopre il suo polso, ripensa a quante volte le ha proposto di fare un tatuaggio insieme proprio in quel punto e la sua gemella l'ha ripetutamente stroncata sul nascere.
Ha sempre detto di adorare quelle opere d'arte di inchiostro sui corpi degli altri, ma che non sarebbero mai comparse sul suo. Se sapesse come sono impressi a carne viva i dettagli di quelli di Daniel su ogni lembo di epidermide del suo corpo riuscirebbe a trovare l'ombra di una speranza di convincerla, peccato che ormai sia troppo tardi.
Tecla si prenderebbe a pugni da sola ogni qualvolta quella frase si imprime nella sua mente, se non l'avesse pensata talmente tante di quelle volte in quegli anni probabilmente adesso starebbe vivendo la vita che ha sempre sognato con al fianco sua sorella priva del suo desiderio di morire.
È costretta a ridurre le labbra ad una linea retta premendole forte anche contro i denti per non lasciarsi sfuggire un singhiozzo. Ha la fronte aggrottata e gli occhi chiusi, stretti, come sigillati, a costo di fuggire per qualche istante da quella realtà che insieme ad Althea si sta portando via anche lei.
«Adesso ti sto passando il testimone». Le dita affusolate, quasi scheletriche, di Althea lisciano una ciocca dei capelli di Tecla portandola dietro al suo orecchio, scoprendo in quella maniera il suo volto contratto.
In quel momento anche i suoi occhi si velano di una patina lucida, poiché si rende conto che la sua piccola e immensa Tecla che non è mai stata in grado di tenersi stretta neppure un'emozione adesso trattiene il pianto per non farla sentire più in colpa di quanto lei non si senta già.
«A me non frega niente di essere la migliore, Thea, io rivoglio mia sorella» le trema la voce, talmente tanto che all'ultimo le muore in gola ed è costretta a portare il proprio pugno chiuso di fronte alle labbra per poi voltare il capo in direzione del finestrino, sentendosi profondamente dispersa tra le nuvole.
Non sarebbe male, pensa, rimanere lì per sempre, lì dove nulla è scindibile da nulla, dove sono circondate da nient'altro che immensi e soffici batuffoli di cielo. Althea non arriverebbe mai di fronte ai medici che risucchieranno la sua vita e Tecla userebbe quelle cinture di sicurezza per legarsi definitivamente a lei, per tutta l'eternità.
E si sente un'egoista, una persona orribile anche solo a viaggiare con l'immaginazione su una cosa del genere. Dovrebbe volere solo la felicità per l'esatta metà della sua anima, ma continua a lasciarsi sopraffare dall'ansia, dall'angoscia, che lei possa non raggiungere la serenità a cui aspira lì dove vuole andare.
«Perché parli come se non ci fossi già più?». Piega lievemente il collo in avanti per poterla vedere in viso ma la sorella non intende mostrarsi.
Li ha costretti a combattere una guerra di cui non sarebbero dovuti venire neppure a conoscenza, e adesso li ha trasformati in una degenere versione di se, come se si fosse divisa in porzioni e ognuna di esse avesse messo radici dentro di loro, aggrovigliandosi al cuore e succhiandone la linfa.
«Perché con la mente e con il cuore sei già lì, e ti comporti come un fantasma» esplode allora Tecla, forse a voce un po' troppo alta, tanto che alcuni passeggeri si voltano infastiditi nella loro direzione per poi tornare ad ammazzare il tempo con delle riviste demenziali, dei romanzi o di fronte agli schermi dei loro pc. «Vuoi abituarmi al fatto che oggi ci sei e domani non più? Sappi che non mi ci abituerò mai, non sarò mai in grado di alzarmi ogni mattina e realizzare che non avrò più il primo numero da comporre ancor prima di lavarmi il viso. Non avrò mai quiete, non vivrò mai più la mia vita come adesso, perché sarò eternamente una metà perfettamente combaciante con qualcosa che al mondo non esiste più!» svuota i polmoni mentre il fegato marcio di delusioni e batoste allucinanti sembra magicamente sgusciarle in gola.
È una sensazione che non sa descrivere, ma non potrebbe fare più schifo.
«Perché non me lo hai mai detto?» Le domanda sottovoce come a volerla indurre per osmosi a fare lo stesso. Sa bene di chiederle troppo, che non è mai riuscita a contenere qualunque forma di dolore, ma di certo dare spettacolo non sarà d'aiuto a nessuna delle due.
Tecla ha il viso rosso, segnato dal continuo strofinare delle proprie mani per cacciare via le lacrime, non avrebbe voluto sciorinare a tutti ciò che prova ma talvolta si sente talmente intrappolata in quella miriade di sentimenti che alberga dentro di lei come un uragano ingestibile che sente il bisogno di spezzare le sbarre e fuggire via a gambe levate.
Tira su col naso, poi con lo sguardo vuoto le risponde in un sussurro, come se avesse rovesciato ogni suo contenuto e di lei rimanesse solo un eco sbiadito: «Non volevo condizionarti» ammette.
L'altra inarca un sopracciglio, «Ma hai pregato Daniel di convincermi» incalza.
Tecla sgrana i suoi enormi occhioni segnati da una pesante matita nera, colta alla sprovvista. «Come-» Althea la interrompe subito, non dandole il tempo di finire.
«Sarò anche sulle mie per la maggior parte del tempo, ma questo non significa che non presti attenzione ai dettagli». Un angolo della bocca le si piega melanconicamente all'insù. «È grazie a te che Daniel si è innamorato di me, se non gli avessi dato una missione, se non avessi generato di fronte ai suoi ingranaggi un'equazione per la quale Althea è uguale a sfida probabilmente si sarebbe stancato già dopo una settimana» annuisce consapevole, parlando più con sé stessa che con il suo doppione.
Tecla si rifiuta di credere alle sue orecchie. «Ti sottovaluti a tal punto da credere di non essere stata in grado di farti amare per quello che sei senza bisogno dell'intervento altrui?!» Prorompe incredula. «Daniel era innamorato di te da molto prima che io arrivassi, glielo si leggeva negli occhi, ma tu non puoi saperlo perché non hai mai creduto nella persona meravigliosa che sei».
Althea scuote la testa in segno di dissenso con un sorriso amaro che le arriccia le labbra screpolate. «Non mi sottovaluto, Tecla, io mi odio e non riesco a vedere alcun motivo per cui valga la pena restare al mio fianco» sospira forte dalle narici per reprimere l'istinto di mettersi ad urlare per far uscire quel mostro con i tentacoli che le stringe lo stomaco in una fitta. Si morde forte l'interno della guancia fino a sentire il sapore metallico del sangue invaderle la bocca.
La sorella affonda le mani nelle lunghe ciocche lisce, nervosa, avvilita. «È vero, sei acida, scontrosa, testarda, cocciuta, presuntuosa e recidiva, ma dando solo una porzione» solleva un dito della mano «dell'amore che possiedi sei in grado di ribaltare persino l'asse di rotazione della Terra» dalle sue iridi traspare tutta la disperazione di cui sono intrise quelle parole. «Se decidessi di sperimentare la nuova te anziché fuggire forse lo capiresti».
Con lo sguardo perso nel vuoto Althea si pulisce con le dita gli angoli della bocca dischiusa nonostante siano lindi per poi terminare quel gesto stringendo lievemente il labbro inferiore fin quando i polpastrelli non scivolano afferrando nient'altro che aria. «L'ho già conosciuta, te lo assicuro. E ti assicuro anche che è tutta la vita che vado a spasso a braccetto con i miei demoni, e adesso ne ho abbastanza» sbotta cacciando la testa all'indietro contro il sedile fissando le spie luminose sopra di loro. «Se puoi, perdonami, te ne prego. Non era mia intenzione farvi soffrire» quasi guaisce.
Tecla azzera ogni contatto con il suo corpo come se all'improvviso avesse preso fuoco e si fosse scottata. «E che cosa credevi? Che avremmo riso? Che avremmo organizzato una festa a tema L'alba dei morti viventi?! Quando qualcuno muore, Thea, è naturale che allo stesso tempo qualcuno soffra» nonostante venga fuori in un fievole lamento stizzito Althea lo sente dentro come il più acuto degli strilli in grado di mandare in frantumi il suo cuore e far sì che le sue schegge gli si conficchino ovunque, lacerando la carne.
«È per questo che ho tentato di respingere Daniel» spiega, non potendo fare a meno di pensare a quante volte si sia sottratta alle sue attenzioni, alle sue dimostrazioni d'affetto solo per impedire che si affezionasse a lei, fallendo miseramente nonostante tutto.
«Privarsi dell'amore non è una soluzione, è come diluire uno sciroppo troppo amaro, è più sopportabile ma fa schifo comunque» il suo sguardo eloquente non possiede più filtri, è lo stesso di quando da bambina chiedeva il suo aiuto senza bisogno di usufruire della parola.
Se avesse dato retta all'amore e non a se stessa sarebbe ancora rannicchiata nella sua foresta di rovi a farsi pungere da quelle spine aguzze. E anche se un raggio di Sole squarcerebbe l'oscurità per riportare i fiori morti alla vita, probabilmente tutto intorno a lei si risveglierebbe, tranne le sue gambe, tranne la sua voglia di sentirsi viva.
Se avesse dato retta all'amore a quell'ora sarebbe seduta di fianco a Daniel in un qualche luogo bizzarro scelto da lui come meta di uno dei loro pomeriggi, probabilmente con del fast food in mano e con il vestito tutto macchiato di ketchup a prenderlo in giro per la fantasia estrosa con le farfalle della sua nuova camicia.
Se avesse scelto l'amore lo avrebbe visto piangere solo di gioia, avrebbe ancora addosso il sapore delle sue labbra e sarebbe ancora persa nel nocciola scuro delle sue iridi per tentare di scorgere un qualunque motivo per il quale un uomo tanto meraviglioso possa essersi innamorato di lei.
Ma se avesse scelto l'amore avrebbe messo da parte se stessa, si sarebbe accontentata di un'arrangiata e folle serenità e avrebbe smesso di pensare che da qualche parte in un Universo parallelo esiste un'altra Althea che invece ha scoperto la felicità, volteggiando sulle sue gambe mentre un carismatico, pazzo e stupendo australiano acclama una sua esibizione prima di correre un gran premio.
A volta l'amore si comporta come una forza superiore, onnipotente, e non fa altro che sbatterti in faccia la sua capacità di essere il centro del mondo, travolgendo ogni altra emozione come uno tsunami. E sarebbe una cosa fantastica, se sulla sua strada non si fosse imbattuto in Althea, che ha sempre dovuto vincere a tutti i costi, anche contro le cose belle, anche contro quelle che l'avrebbero fatta stare bene, ha sempre dovuto combattere e prendersi tutto.
Non sa quanto si è persa della vita aspettando che finisse. Conosce un sacco di storie di persone invalide che hanno ritrovato il senso di tutto, che vivono felici e spensierate con le loro famiglie, a cui la disabilità non pesa, ma per lei è come un mostro con i denti acuminati e gli artigli affilati che ogni istante minaccia di divorarla e poi alla fine non lo fa mai.
Uccidimi o lasciami in pace. Lo ha implorato un milione di volte, ogni notte quando quei dolori atroci si ramificavano nel suo corpo progredendo come piante rampicanti assassine, ma quella bestia ha sempre vinto contro di lei, e adesso è venuto il momento di sconfiggerla una volta per tutte.
«Ti giuro che se avessi potuto cambiare le cose-» quella frase non ha una fine, perché se l'avesse avuta non le sarebbe mai passato neppure per l'anticamera del cervello di compiere quel salto mortale, non avrebbe mai commesso quell'errore e a quell'ora non sarebbe condannata su una maledetta sedia a rotelle per tutta la vita.
Probabilmente se quella frase avesse una fine per lei Daniel non sarebbe altro che un uomo affascinante visto sporadicamente in televisione a bordo di una monoposto.
«Il passato non si può cambiare, altrimenti non credi che lo avrei fatto io? Non credi che avrei premuto il pulsante di reset per passare questi anni insieme a te? Per il passato non esiste soluzione, ma per il futuro sì» quell'ultima frase è una chimera di sentimenti contrastanti, pregna di sconforto.
«Per me non esiste soluzione, per questo non esiste soluzione» stringe i denti indicando le sue gambe inerti che giacciono lì senza alcun tremito, attaccate ancora al suo corpo senza alcuno scopo. «Non hai idea di che cosa voglia dire uscire per strada e vedere la gente correre, affacciarti alla finestra e guardare i bambini saltare in un parco, osservare chi hai intorno vivere senza neppure prestarci attenzione, senza dare il giusto peso ai secondi che passano, e dover rimanere immobile di fronte a tutto questo, essere impotente di fronte alla realtà» si rende conto di star trattenendo il respiro, di essere sul punto di esplodere e che se lo facesse ciò che la divora dall'interno sarebbe in grado di indurre quell'aereo a precipitare perché il cielo collasserebbe sul mare.
Tecla la afferra per le spalle tentando quantomeno di non dare troppo nell'occhio questa volta. «Hai ragione, non posso saperlo, ma so cosa vuol dire la solitudine, so cosa vuol dire sentirsi profondamente soli circondati da un sacco di gente, e so che l'unica persona in grado di non farmi provare questa sensazione sei tu. Scusami tanto se non voglio perdere l'unica cosa l'unica cosa che mi ricorda la felicità!».
Sembrano aver esaurito le parole, che il mondo intero sia sul punto di estinguersi attorno a loro. Poggiano l'una la fronte contro quella dell'altra per condividere i mostri che abitano le loro menti e lasciare che si abbraccino fino a tornare alla loro forma originale, quella di un solo organismo con due cuori distinti ma lo stesso battito.
Udendo un pianto infantile che scoppia in sincrono nei tre sedili di fianco a loro oltre lo stretto corridoio si voltano entrambe ad osservare una coppia probabilmente di neogenitori alle prese con due capricciose gemelle identiche, con indosso le stesse tutine dello stesso colore. Sorridono entrambe, anche se con profonda malinconia, del modo in cui quell'uomo e quella donna coccolano le proprie figlie nel tentativo di farle smettere di piangere.
È chiaro dal modo in cui strofinano dolcemente i loro nasi contro quelli piccoli delle bambine che non hanno già scritto per loro un destino e che anche se fosse, nel caso in cui esso non si compia non smetterebbero mai di volergli bene. Quei due ragazzi che potranno avere solo qualche anno in più di loro sono dei veri genitori, perché conoscono l'amore anche oltre l'ambizione, cosa che Althea fino a qualche mese prima credeva che non avrebbe mai sperimentato in vita sua, ma che a quanto pare non è stato sufficiente.
«Li hai avvisati?» Chiede poi, volgendo il proprio volto in direzione di Tecla, alludendo alla madre e al padre.
Il suo doppio tira fuori il cellulare dalla borsa mostrandole il registro delle chiamate tristemente vuoto, come Althea non si sarebbe mai aspettata. È sempre stata convinta che una volta staccata da lei Tecla avrebbe fatto venir fuori l'animale sociale che ha sempre creduto che fosse, ma a quanto pare si sbagliava.
«Non mi rispondono più al telefono da molto tempo» Abbassa lo sguardo sullo schermo luminoso, talmente mesto e bianco. «E tu? Ci hai provato?» Le chiede conoscendo in fondo già la risposta.
«Ho cancellato il loro numero. Adesso la loro rubrica peserà di meno come la loro vita senza di me» risponde Althea a muso duro, facendo poco dopo finta di addormentarsi per non continuare quella conversazione.
Se ai loro genitori fosse importato qualcosa di perdere una figlia non l'avrebbero abbandonata dopo l'incidente, non l'avrebbero lasciata in balia delle fiere maligne che abitano ancora le sue ore tormentandola giorno e notte.
Dei veri genitori si prendono cura del frutto del loro amore, non lo ripudiano perché non ha potuto portare a termine ciò che loro avevano predetto per lei. Se le avessero voluto bene, almeno un po', in tutti quei mesi le avrebbero chiesto almeno una volta come stesse, e tirando le somme, alla veneranda età di ventiquattro anni Althea si rende conto che non è stata nient'altro che uno strumento, un burattino tra le loro mani.
Mentirebbe se dicesse che non li perdonerà mai, perché si può provare astio solo verso qualcuno a cui si è interessati, e lei nei loro confronti non nutre nient'altro che glaciale indifferenza.
E nonostante Tecla sappia che sua sorella non riesce mai ad addormentarsi su un veicolo o velivolo che sia in movimento, fa finta di crederci, e finisce per lasciarsi catturare tra le braccia del dio dei sogni che con grandi probabilità si trasformeranno in incubi accucciata di fianco a lei.
Althea schiude un occhio, assicurandosi che la gemella si sia assopita e quando ne è ormai certa le lascia una dolce carezza sulla guancia.
Nonostante il tempo nel cielo in cui sono immerse sia sereno, su di lei precipitano mille tempeste e l'acqua scorre impetuosa sul suo viso fino a sofforcarla, fino a portarla in uno stato confusionale in cui tutto oltre le sue ciglia è sfocato, si scioglie come acido fino a corrodere anche l'ultima fibra del suo cuore.
Si è sempre sforzata di rimanere ancorata al suo castello di ghiaccio, e ora che né Tecla né Daniel possono vederla può riversarsi in onde anomale e rivelare a sé stessa l'angoscia che prova verso l'immenso dolore che ha inflitto loro.
L'ansia è padrona di tutto.
Perché ora, quando Tecla crollerà lasciando a terra lame di vetro Althea non sarà lì a raccoglierla, e sarà allora che i demoni stracceranno le sue carni condannandola a trangugiare senza tregua ciò che sua sorella ha sofferto quando lei è andata via.
Perché adesso, quando Daniel spegnerà i raggi di luce dei suoi mille Soli Althea non sarà lì a dargli un motivo per splendere ancora, ma sa che lo troverà, perché in qualche modo lui trova sempre un modo per lasciarsi investire dalla vita come un treno in corsa e ridere sulle rotaie con tutte le ossa rotta.
Ma non sarà lo stesso, non poterlo vedere mentre si rialza, più forte e vero di qualsiasi altra cosa.
A distrarla dalle sue riflessioni è una signora anziana dai tratti somatici riconducibili alla Cina di ritorno dalla toilette che prende posto di fianco a lei, ma Althea non ricorda di averla mai vista durante tutto il viaggio, anzi, è più che sicura che quel sedile fino ad allora sia sempre stato libero.
È osservandola più attentamente mentre allaccia le cinture di sicurezza e tira fuori un cuscino per le cervicali dal bagaglio a mano che l'hostess ha gentilmente tirato giù dalla cappelliera proprio sopra di loro, che si rende conto che si tratta della stessa donna che lei e Daniel avevano incontrato sul loro volo diretto a Tokyo.
Quest'ultima poco dopo si volta a guardarla con un sorriso placido sul viso segnato dal tempo e scavato dalle rughe nel quale gli occhi sono ormai così sormontati dalle profonde piege del tempo che appaiono come nient'altro che minuscole fessure scure.
Alza un dito solenne, «Proverbio cinese dice: ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla». Detto ciò, si dedica in tutto e per tutto alla lettura di uno dei cataloghi forniti dalla compagnia aerea in cui solitamente compaiono prodotti acquistabili sull'aeromobile.
Althea rimane come stordita da quell'evento. Non sa se è più sconvolta per averla vista una seconda volta proprio dopo Tokyo oppure dal fatto che con quella semplice frase abbia racchiuso la sua vita da mesi a quella parte.
Nessuno comprenderà mai il suo punto di vista, perché ognuno di loro non pensa a come sarebbe la vita di Althea se decidesse di ricredersi, pensano a come sarebbe la sua vita insieme a loro, e la differenza è netta.
Nessuno potrà mai capirla perché il loro dolore è di contorno, perché la loro preoccupazione sta nel non avere più lei a fianco, non la sua felicità. E con questo non intende dire che chi le sta intorno si comporta da egoista, si comporta solo da persona in grado di provare amore e che non vuole a lungo andare smettere di provarlo.
Perché nonostante Tecla rimarrà legata a lei per l'eternità dal sangue, arriverà il giorno in cui guardando una sua foto proverà nient'altro che nostalgia.
Perché per quanto Daniel abbia dato tutto per lei, verrà il momento in cui il suo cuore sarà pronto ad aprirsi per qualcun altro, e lei sarà soltanto la più grande ferita che quel muscolo porta con sé.
E Althea lo desidera, per la prima volta desidera di essere veramente dimenticata, di scomparire una volta per tutte per lasciare libere le loro anime dal suo peso.
Un peso di cui loro non si renderanno mai conto, perché mentre ai suoi occhi si consuma la fine del mondo loro vedranno sempre e solo il battito d'ali di una farfalla.
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Solo poche ore dopo, quando le ruote della sua sedia toccano nuovamente la terra ferma, si ritrova costretta a varcare la soglia di una casa che fino ad allora si era fermamente rifiutata di visitare tutte le volte che Tecla l'aveva invitata.
Difatti, quando Victor apre loro la porta, scopre quel che non avrebbe desiderato scovare. Non vi è un dettaglio, una singola sciocchezza, che in quell'abitazione ricordi sua sorella. Althea potrebbe benissimo dire che Tecla non ha mai vissuto lì.
Non vi è traccia di nulla che ricordi la freschezza del suo carattere, il suo umore altalenante, il suo fare costantemente euforico. Si rende conto di quanto fuori luogo appaia la sua gemella tra quelle mura, e di quanto peggiorerebbe la situazione se il vestiario di Tecla non fosse così tanto funereo.
Il viso splendente anche nella sofferenza del suo doppione muta totalmente quando si riadegua a quell'ambiente, e Althea appura quando il marito l'abbia cambiata, quanto sia stato capace di renderla nient'altro che un'ombra grigia tale e quale a lui.
Tecla le mostra quella che in quei giorni sarà la sua camera da letto, quasi totalmente spoglia, rigorosamente senza specchi. Troneggia su una parete un enorme armadio a quattro ante in legno intagliato, e contro quella opposta la tastiera di un letto a due piazze coperto da una trapunta di un grigio freddo e due comodini sui laterali.
Quest'ultima si congeda per andarle a prendere delle tovaglie pulite tenendo il capo basso.
Quando finalmente rimane sola dopo quel calvario decide di cambiarsi, ma proprio mentre slaccia il nastro che le tiene la gonna stretta in vita da esso scivola giù un bigliettino e quando lo afferra riconosce immediatamente la scrittura di sua sorella.
Si chiede quando abbia potuto compiere quel gesto senza che lei se ne accorgesse, ma prima di darsi una risposta i suoi occhi cadono sul contenuto del pizzino.
"Ti auguro del tempo per poter stringere le stelle che per paura di soffrire hai tenuto lontane".
Poco più in basso, a caratteri di dimensioni più minute, il numero di un telefono fisso, che per quanto Althea si sforzi di non fare, ricorda perfettamente da dove provenga.
Spinta dall'irrefrenabile forza della persuasione che sua sorella ha sempre posseduto, ma che con lei in qualche modo ha sempre fallito, con il cuore in gola decide di comporre quel numero, ma prima di premere il tasto verde sul suo cellulare trascorrono diversi minuti di silenzio.
Alla fine lo fa, ma non per loro, per se stessa e per Tecla, perché se hanno deciso di metterle al mondo e poi abbandonarle ad esso nel momento del bisogno allora devono sapere anche che una delle due ha deciso di lasciarlo.
Si sente cattiva, ma vuole che si sentano in colpa, non le serve che vivano nel rimorso di non esserle stati accanto, desidera solo scoprire se sono ancora capaci di essere genitori, se siano ancora in grado di provare anche solo un briciolo di amore verso il sangue del loro sangue.
Uno squillo, poi un altro, poi un altro ancora, poi il rumore del distacco della cornetta dal complesso e la voce di una donna, una voce che non sente dalla bellezza di oramai dieci mesi, vacua, indifferente a qualsiasi cosa.
«Mamma» pronuncia ingoiando a vuoto, «Sono Althea». Il tubare incessante della linea interrotta.
Le ha riattaccato il telefono in faccia. Sua madre ha messo un punto definitivo chiudendo la sua voce in un cassetto ed impedendo a chiunque di riaprirlo. Non le ha neppure dato il tempo di spiegare perché l'avesse chiamata.
A quanto pare loro sono gli unici a non avere nulla in contrario alla sua morte, e glielo dimostrano giorno dopo giorno.
Forse dovrebbe ringraziarli, perché oltre alla sua sedia a rotelle le avrebbero dato un motivo in più per compiere quel gesto se solo oramai la loro esistenza non lasci totalmente invariata per lei l'irrefrenabile corsa del tempo.
Al contrario dei suoi genitori che vivono nel rancore, dopo quella telefonata ad Althea non fa definitivamente alcuna differenza se loro ci siano oppure no.
È triste da dire, forse un po' meschino, ma non è nient'altro che la verità. Non è più capace di provare neppure l'ombra di risentimento nei loro confronti, sono dei perfetti sconosciuti.
L'unica cosa che in quel momento la colpisce come un fulmine, è il desiderio di avere Daniel al suo fianco al termine di quell'inesistente chiamata.
Lui avrebbe saputo cosa dire.
Non l'avrebbe mai lasciata ad annegare nel silenzio.
Non l'avrebbe mai lasciata.
Credevo molto in questo capitolo ma purtroppo non ha avuto il risultato sperato, anzi, durante la rilettura l'ho trovato soporifero.
Il rapporto tra Althea e Tecla è qualcosa su cui ho cercato di lavorare al meglio, e forse proprio per questo alla resa dei conti non mi soddisfa mai.
Spero soltanto che a voi sia piaciuto nel complesso visto che è ormai l'ultimo capitolo dedicato a loro due e che dal prossimo vivrete con l'ansia (vi avviso in anticipo 😂) .
-2 (più l'epilogo) 😰
💙
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