XVI. Look After You
La strada è un nastro che si srotola sotto le ruote del blu notte della Aston Martin di Max. Il Sole sopra Monte Carlo sembra essere stato risucchiato dalle nubi plumbee, cupe. Althea ha inghiottito l'estate e Daniel nel cuore percepisce il gelo dell'inverno più freddo che abbia mai penetrato le sue ossa.
L'australiano trangugia il secondo sorso di una birra in lattina abbastanza scadente abbandonata da diverso tempo nello scompartimento portaoggetti che occupa lo spazio tra i due sedili davanti. È calda e schiumosa, e il suo migliore amico taglia le curve come se fosse in pista, dunque si costringe a reprimere un conato di vomito.
Non c'è l'ombra di una nota musicale nell'abitacolo, a volte sembra che l'olandese tenga lo stereo per abbellimento, detesta la musica, nello specifico le canzoni d'amore, e visto anche il momento poco opportuno tanto vale tenere tutto spento.
Daniel però lo sente, il peso di tutte quelle parole trattenute. Max è fatto di interminabili silenzi, proprio come Althea, ma se lei galleggia nel vuoto, lui causa terremoti interiori percettibili solo all'udito più fine di chi ha assaggiato la sua rabbia.
Se Althea occupa ogni spazio del suo silenzio mentre batte le sue ali di polvere che lentamente si disintegrano ad ogni tentativo di spiccare il volo, Max divora le sue come Lucifero nel cuore dell'Inferno, accecato da una fame nera.
Nel frattempo, Daniel si ritrova succube del dolore altrui, costretto a confezionare il proprio come un pacchetto regalo e consegnarlo ad una porta dietro la quale si cela l'ignoto.
Max non è mai stato bravo con le parole, né con i sentimenti o le persone in generale, ma quando si tratta di Daniel non perde occasione di fargli percepire la sua vicinanza.
Quella birra era lì per un motivo, non si tratta del bisogno di Max di trangugiare talvolta un sorso per scacciare i pensieri, specialmente alla guida. Quella birra attendeva Daniel, attendeva di affogare dentro qualcuno, essere una valvola di sfogo, sentire un paio di labbra stringersi contro l'alluminio per reprimere un pianto.
E Daniel lo sa, lo sa che quella birra significa l'ingresso di casa, le chiavi nascoste sotto il vaso. Significa tutte le cose che Max non è in grado di dire, talvolta per orgoglio, talvolta perché si ritrova intrappolato in quel blocco di marmo che si è costruito attorno.
Significa tutto l'amore che colui che gli siede di fianco è in grado di provare.
«Grazie» non si sente in dovere di dirlo, né tantomeno crede che l'altro si aspettasse di sentirglielo dire. Lo fa e basta, come solo lui sa fare.
Il biondo lo guarda scettico, come uno specializzando di chirurgia a cui viene chiesto un contributo per un intervento delicatissimo. «Per cosa?» Chiede poi fingendo disinteresse mentre stacca una mano dal volante per scalare le marce.
«Per tutto, per questo silenzio, e per non avermi lasciato a piedi» si lascia sfuggire una risatina che ha il sapore palpabile di occasioni sprecate. Ha lo sguardo perso fuori dal finestrino, puntato su un orizzonte impreciso aggrovigliato tra le strade di Monaco sempre più affollate, la nuca abbandonata contro il poggiatesta e la bocca nuovamente attaccata alla lattina.
Il più giovane sciocca la lingua contro il palato anticipando un'alzata di spalle. «Parlare è sopravvalutato». Lancia un'occhiata veloce nello specchietto per inquadrare l'espressione dell'amico, «Soprattutto se la persona che hai accanto ti conosce davvero» gli piacerebbe dire di esserselo lasciato sfuggire, ma la verità è che desiderava solamente dirlo.
Daniel assorbe quella parvenza di umanità, lo fa ogni volta come fosse l'ultima, perché con Max non c'è da aspettarsi nulla del genere. Fuori non è mai la stessa persona che è con Daniel, è totalmente incapace di sciogliersi, di regalare un sorriso casuale o offrire una parola di conforto.
È talmente complicato, talmente intriso nel caos perfettamente catalogato nella sua mente da non riuscire ad uscirne mai, come fosse incatenato, eppure in grado di non esternarlo neppure per un secondo, se non quando non risponde più di se stesso.
È un essere terribilmente contenuto, eppure non riesce mai a contenersi nei momenti di rabbia. Ma se Daniel cominciasse a chiedersi tutti i perché di Max potrebbe impazzire, probabilmente perché li conosce tutti tranne quello principale, tranne il filo conduttore della sua confusione: se stesso.
Si spalma una mano sul volto e tutto improvvisamente è così buio da poter rivedere lei, avvolta dalle tenebre, rimane impressa come inchiostro indelebile sulla carne viva, sotto le sue palpebre. «Cos'è andato storto, secondo te?». Ruota il capo nella sua direzione, ma sul volto di Max non vi è l'ombra di un cipiglio, totalmente imperscrutabile come sempre.
Il biondo sospira, «A volte le persone non hanno bisogno di essere aiutate, semplicemente di essere amate». È realmente incerto che quelle parole siano uscite proprio della sua bocca, lui che per l'amore ha una sorta di allergia, e l'orticaria parte dallo stomaco non appena sente pronunciare quelle tre sillabe. «Althea conosceva le sue stesse intenzioni ancor prima di conoscerti, non sei stato il suo ostacolo, sei stato la sua presa d'aria».
Daniel appare smarrito, osserva il profilo di Max modellare il cielo oltre il finestrino. Non se ne rende conto, ma sta tastando la realtà, ne sente il sapore amaro scorrere lungo la trachea. Ha smesso di vivere nella bolla, ed è come aver attraversato un tunnel a luci spente e riscoprire quella del Sole sulla soglia dell'uscita.
Lui però, senza di lei, non avrebbe mai desiderato uscire.
L'olandese prosegue, imboccando nel frattempo una strada che l'altro non riconosce. «Ad uno come te la morte può sembrare qualcosa di estremamente pesante, insostenibile, per lei è la stessa cosa, solo nei confronti della vita». Irresponsabilmente gli strappa la lattina dalle mani e ne manda giù un sorso, altrimenti probabilmente non avrebbe mai trovato la maniera, o meglio il coraggio, per prolungare quel discorso. «Siete due mondi opposti, tu sei tutto ossigeno, lei è una nuvola di anidride carbonica. Tu le hai insegnato a respirare di nuovo, lei ti ha soffocato involontariamente».
Daniel sorride consapevole, di labbra, seppure a malincuore. «Riesci anche ad essere profondo quando non fai il coglione, lo sai?». Lo colpisce con un leggero pugno sulla spalla.
A quel punto un angolo della bocca di Max si piega miracolosamente all'insù. «Certo che lo so, altrimenti ti avrei prenotato una seduta dallo psicologo» nessuno dei due sa se sarebbe un'opzione efficace, se Daniel senta davvero il bisogno di dire qualcosa, di esternare la sua delusione o semplicemente di vivere pochi istanti di pace.
In quel momento probabilmente sarebbe più semplice risolvere l'indovinello della Sfinge che riuscire a mettere in ordine i drammi di entrambi sperando che venga fuori qualcosa di sensato, che quantomeno uno dei tasselli riesca a combaciare con l'altro.
E' tutto troppo. E' troppo per Daniel che vive ogni cosa in prima persona e lo è per Max che rimane a guardare, a vedere tutto come se si trattasse della teca di vetro che proteggeva la rosa della Bestia mentre anche l'ultimo petalo appassito veniva giù.
«È che non me lo spiego» prosegue il più grande pigiando con un dito sul pulsante che automaticamente tira giù il finestrino. Ha proprio bisogno di cambiare aria, in tutti i sensi.
«Perché non lo hai mai provato, Dan», fa per incastrare nuovamente la lattina nel portaoggetti ma l'altro per poco non gliela strappa dalle mani. «La nebbia nei polmoni, quella costante sensazione di non riuscire più a vedere nulla di nitido se non il buio» E' fatto così Max, di risposte incomplete, mai concrete e mai campate in aria, che non si capisce mai se presuppongano una domanda o nella mente di chi ascolta, semplicemente un'altra risposta. A volte quel suo essere talmente enigmatico risulta snervante, ma Daniel oramai ci ha fatto l'abitudine. «È la solitudine, ha effetti collaterali permanenti».
Il nodo in gola che gli si era creato si fa talmente stretto che trangugia praticamente metà di quel liquido per scioglierlo, ma quando ormai anche il bruciore dell'alcol si è placato si rende ancora che non ha fatto altro che legarne un altro sopra il primo. «E non è sufficiente neanche l'amore come rimedio?» Chiede avvertendo un pizzicore agli occhi che tenta di reprimere.
L'altro scuote il capo a destra e a sinistra. «Non è un semplice buco a cui puoi mettere una toppa, perché qualsiasi cosa tu provi ad usare per tamponare quel dolore viene risucchiato dal dolore stesso, è un circolo vizioso» ingoia a vuoto e il suo pomo d'Adamo sembra percorrere le montagne russe lungo il suo collo.
Se le ricorda ancora le urla dei suoi genitori, mentre a sette anni nascosto dietro la porta della sua camera sentiva i soprammobili infrangersi contro le pareti, la voce grossa di suo padre e i pianti isterici di sua madre. Si è sempre sentito la causa di tutto, del loro divorzio, dei comportamenti di Jos e dei tremori di Sophie, del peso delle loro aspettative su di lui. Era il periodo in cui ancora si sentiva colpevole di avere una vita materialmente fortunata e non essere in grado di apprezzarlo, gli anni della sua vita in cui aveva innocentemente assaggiato il purgatorio credendo di essersi già spinto al culmine.
Tempi in cui dell'Inferno conosceva solo il nome eppure si sentiva già avvolto dalle sue fiamme. Chissà come si sentirebbe quel bambino, si chiede, a sapere che ormai è la sua dimora fissa da quelli che paiono secoli.
«E tu, tu l'hai mai provata quella sensazione?» Lo scruta intensamente tentando di cogliere quantomeno un guizzo rivelatore in quella scultura di bronzo, con la testa che ciondola leggermente e le labbra schiuse. E' difficile crederlo, ma nonostante lo conosca da tempo immemore ormai, non si era mai accorto che Max avesse un neo che costeggia l'angolo perfetto della sua mandibola.
Gli si monta dentro un tale senso di colpa per un simile dettaglio che lo stomaco gli si ribalta, si chiede se si sia mai sentito dato per scontato, se nonostante tutte le sue improvvise sparizioni abbia creduto almeno una volta che per Daniel fosse stato certo trovarlo al suo fianco.
Forse l'Universo sta tentando di lanciargli dei segnali, di dimostrargli che è lui il vero problema, il nocciolo di tutte quelle catastrofi, perché non merita Max, e nemmeno Althea.
In tutta risposta il biondo batte compulsivamente le dita a canone sul volante, «Io ormai non la sento più, lo sono e basta» tranne quando ci sei tu, vorrebbe proseguire ma tace per volontà del suo inconscio.
«E hai mai desiderato-» non ha il tempo di proseguire che l'olandese lo fulmina con lo sguardo senza mai voltarsi, solamente attraverso lo specchietto.
«Non chiedermelo, Dan, non vuoi davvero saperlo» taglia corto.
Il moro ci riflette per qualche istante, «Hai ragione» mugola poi. In quel preciso istante preferisce rimanere con il dubbio, forse anche per tutta l'eternità, è già abbastanza la concretizzazione di dover lasciar andare Althea, non anche Max.
Si massaggia le palpebre espirando profondamente dal naso. «Non riesco a darmi tregua» con un gesto secco da una testata al sedile dietro le sue spalle, neppure si rende conto di aver cominciato a mangiarsi le unghie proprio come Althea, partendo dalle cuticole mentre il bruciore sommerso dalle gocce di sangue si espande lungo tutto il pollice.
«Immagino che sia normale, non è una semplice rottura, è più un palazzo che crolla per colpa di un terremoto» constata l'amico, con la stessa veemenza con la quale illustrerebbe la ricetta dei maccheroni al sugo.
«Grazie, così sei davvero d'aiuto» sbotta improvvisamente Daniel, accartocciando la lattina per poi scaraventarla fuori dal finestrino aperto.
«Perché tu invece stai compiendo la missione del secolo, non è vero? Perché dimmi se mi sbaglio ma io ti vedo seduto qui di fianco a me a crogiolarti nelle tue smielate cazzate!» batte un colpo sul volante, «E ho fatto pure la rima» lo dice con tanta stizza da rendersene conto solo dopo, difatti pochi secondi dopo entrambi scoppiano a ridere.
Come si può ridere in un momento del genere? Si può, si può eccome. È la cosa bella del dolore, le mille maniere al mondo che esistono di affrontarlo, c'è chi piange, chi urla, chi vorrebbe spaccare tutto e chi lo fa, chi se la prende con sé stesso e chi invece tiene lontani tutti costruendo una fortezza impenetrabile attorno a sé, c'è chi dissimula.
Poi c'è Daniel, Daniel ride, perché la vita gli ha dato talmente tanti pugni sui denti che la sua è una rivincita, come per dirle: "Ecco, brutta stronza, più tu mi fai male più io mi diverto". Perché è sempre stato il pilastro di tutti, e quando non aveva nessuno a fianco anche di sé stesso. Perché ridere è la sua arma, e quando è talmente potente da dividerla con qualcuno come Max, allora non c'è colpo che tenga in quella dell'avversario.
«Scusami, ho esagerato» dopo aver ripreso fiato le labbra di Daniel si riducono ad una linea retta, ancora un volta tracciata da sensi di colpa. «È come se non fossi più padrone di me stesso».
«Comanda lei» d'impeto posa la propria mano sul suo ginocchio ma la ritrae immediatamente, come scottato. «Perché adesso è ovunque, come un cancro. Dovrai combattere per levartela di dosso, probabilmente ritornerà, più forte e letale di prima, ma dopo tutto questo tempo che hai passato con me immagino tu abbia imparato ad essere un minimo resistente agli urti». Lo ha guardato mille e mille volte ma non ce n'è mai stata una uguale all'altra, è sempre frutto di qualcosa di mutevole.
Il peggio è che lui con quegli occhi guarderà sempre Althea, anche quando di lei sarà rimasto nient'altro che il ricordo.
«Te la ricordi quella volta che ti ho fatto un occhio nero?» Passa la lingua sul labbro inferiore mentre un nuovo sorriso, questa volta un po' nostalgico, si accende sul suo volto spigoloso.
Daniel lo fissa torvo. «Sono andato in giro con gli occhiali da sole per giorni, stronzo» gli punta scherzosamente il dito indice contro per poi mollargli una pacca dietro il collo.
Max lo afferra per il polso e ricaccia il suo braccio indietro indossando un broncio offeso che gli calza decisamente troppo largo per non scivolare al punto di far scorgere la risata che illumina le sue iridi glaciali. «Non l'ho fatto mica apposta» bofonchia, concentrandosi nuovamente sulla strada.
L'australiano assottiglia lo sguardo. «Sarà meglio, perché ne ho contate un paio in cui le tue mani sembravano mirare proprio me» insinua.
Tutto in Max si fa di nuovo scuro, è come se lentamente venisse avvolto dalle stesse nubi tetre che tappezzano il cielo, lasciando prospettare un temporale. «Non ti farei mai del male, non di proposito, quantomeno» tuona, reduce dal fatto di averlo dovuto ammettere prima a se stesso.
«Lo so» asserisce con un filo di voce. «La verità è che mi ha fatto più male lei in soli tre mesi che tu da quando ci conosciamo». Le sopracciglia si abbassano insieme agli angoli delle labbra come se ogni briciolo di energia presente nel suo corpo sfumasse.
Una fitta di dolore travolge lo stomaco di Max, una presa ferrea sui suoi organi che li torce come fossero spugne da cui strizzare via ogni residuo di acqua. «È davvero così importante?» È una smorfia segreta quella che si permette di strucinare la sua inossidabile maschera mentre Daniel è troppo coinvolto nell'agonia da lei scatenata.
«Hai presente quando nei film il protagonista rimane ferito e si sacrifica per il gruppo dicendo loro di andare avanti e lasciarlo lì? È talmente importante che ho deciso di lasciarla proseguire, anche senza di me, anche se io rimarrò qui ferito e sanguinante per il resto dei miei giorni».
«Hai fatto fuori te stesso, per farla felice...». Non realizzerà mai che si tratta esattamente di ciò che Max ha fatto per lui. Non darà mai abbastanza peso alla monoposto di un quasi campione del mondo che rischia di mietere diciotto vittime fermandosi nel bel mezzo di un gran premio per correre da lui appena saputo dell'incidente.
Non sarà mai abbastanza, perché non sarà mai Althea.
«Per farla felice» annuisce amaramente. «L'ultima volta che l'ho vista prima di oggi mi ha detto che non sarà mai felice a questo mondo, che potrebbe aspirare alla serenità ma niente di più. Se non posso essere io la sua felicità allora è giusto che la lasci andare a cercarla».
Appassiscono in lui tutte le stagioni, persino l'inverno non è mai stato così gelido, spoglio, poiché esso è consapevole che la natura morta durante i suoi mesi si risveglierà con l'avvento della primavera. Si estinguerà l'estate, quando avrà invece visto i rami spogli, poiché niente prima di lei è fiorito, non senza Althea.
«E se non la trovasse lì dove vuole andare?».
«È la mia più grande paura, che dopo averla persa qualcosa mi dica che anche per un solo istante lei abbia desiderato un'altra fine» si passa una mano tra i ricci, frustrato. «Ho fatto di tutto, Max, di tutto perché cambiasse idea».
«Hai mai provato a chiederglielo? Esplicitamente intendo» chiarisce. «Resta per me, glielo hai mai chiesto?».
«Non avrei potuto, non dopo tutte le ferite che ha condiviso con me, non avrei mai potuto condannarla ad un futuro infelice solo per averla a fianco».
Sarebbe come afferrare una farfalla per le ali e impedirle di volare perché talmente bella da desiderare di poterla osservare per tutta la vita. Potrebbe significare mille cose, anche impedire la nascita di un uragano dall'altra parte del pianeta, ma per prima vorrà sempre dire la condanna della farfalla a passare le sue ventiquattrore di vita chiusa in gabbia.
«Ti rendi conto che stiamo già parlando di lei come se non ci fosse più?» Per quanto male faccia, prova ad infondergli un'ultima goccia di speranza anche se proviene dal suo veleno. «Mancano ancora due giorni alla fatidica data» gli ricorda successivamente.
«Parte domani» rivela l'altro, quasi strozzandosi con la sua stessa saliva.
In quel momento Max comprende che parlare non è sufficiente, specialmente con uno come lui, che serve qualcosa su cui Daniel possa riversare il fiume in piena che con il suo gorgogliare minaccia di straripante da ogni suo poro. «Ascolta, ti va di accompagnarmi in un posto prima di tornare a casa?».
«Non so se ce la faccio, Max» risuona cantilenante seguito da uno sbuffo.
«Facciamo in fretta» tenta di convincerlo, e non appena coglie il suo sguardo consenziente e sofferente sono già giunti a destinazione.
Accosta in prossimità di una collinetta apparentemente deserta e fa per scendere dall'auto sportiva mentre Daniel lo guarda scettico nonostante poco dopo decida di seguirlo. Seppure la salita non sia ripida, il biondo gli fa cenno di aggrapparsi a lui, portando il suo braccio attorno alle sue spalle e tenendolo per il polso. Il tempo minaccia sempre più di piovere, e già le prime fastidiose gocce bagnano i loro visi mentre percorrono quel sentiero come un essere a quattro gambe di cui una difettosa.
Quando ormai la macchina non è altro che un puntino invisibile alle loro spalle e le sterpaglie per poco non arrivano alla pancia di entrambi Daniel alza lo sguardo trovandosi di fronte al rudere di un vecchio casolare abbandonato, dai vetri delle finestre infranti dalla prepotenza delle piante rampicanti che hanno fatto irruzione dando vita a germogli selvatici e le mura esterne imbrattate da graffiti provenienti da decine di mani diverse.
Si fermano di fronte a quel poco che rimane della porta d'ingresso un tempo sigillata da quelli che adesso sono i brandelli dei tipici nastri bicolore della polizia. Daniel già si immagina nel primo commissariato nella zona a spiegare perché il suo migliore amico lo ha condotto in un immobile sequestrato per omicidio, ma Max calpesta presto lo strascico dei suoi pensieri.
«Venivo sempre qui quando eri con lei, quando non avevo nessuno con cui sfogarmi» rivela infilando le mani in tasca mentre il braccio del moro abbandona la sua spalla, non si guardano, non lo fanno mai quando è Max a confessare qualcosa, forse perché Daniel ha sempre percepito l'enorme difficoltà che mette nell'aprirsi con qualcuno, anche se si tratta di lui.
«A fare cosa?» Chiede mentre lo aiuta a disincastrare lo scheletro della porta dalla serratura scassata e difettosa.
Una volta introdotti all'interno Daniel si guarda intorno esterrefatto, quando era bambino la casa degli orrori era sempre la sua attrazione preferita nei luna park dopo la ruota panoramica e le montagne russe, ma non crede di aver mai visto nulla di tanto spettrale, sembra di trovarsi sul serio nel luogo di un omicidio, il loro però.
Dell'intonaco è rimasto ben poco, giace sul pavimento in mille pezzi mentre la muffa si è impossessata quasi di ogni angolo e il suo odore ostruisce qualsiasi altro presente nell'aria, se non quello dell'acqua ristagnata che gocciola ancora dalle tubature incrostate dalla ruggine.
Camminando Max scansa i teli di cellophane impolverati abbandonati sulle assi marce del parquet. «Dipende» fa spallucce mostrandogli solamente la visuale della sua schiena mentre vaga senza meta nell'immenso spazio che delimita l'eco del loro discorso. «Queste pareti non appartengono a nessuno, contengono solo silenzio da anni, viste da fuori sembrerebbe sufficiente una volata di vento a buttarle giù, invece è tutto il contrario» batte il dorso del proprio pugno contro il muro e a quel punto Daniel non può negare che abbia ragione, un altro pezzo di intonaco viene giù, ma il muro è ancora lì, integro come prima.
Max non ha bisogno neppure di voltarsi per accorgersene, lo capisce dal modo in cui l'australiano si schiarisce la gola, dal suono dei suoi passi che indugiano sempre negli stessi venti centimetri di spazio. «Se una cosa che cade a pezzi è costretta dalle fondamenta a tenersi in un equilibrio precario, allora tanto vale distruggerla, anziché lasciarlo fare al tempo» conclude.
«È un bastardo» stringe i denti a quel punto. «Il tempo intendo, ci metterà dei secoli per far crollare questa casa, lascerà che le termiti divorino ogni angolo, che i ragni tessano le loro trappole, che i topi si annidino. Lascerà che le pareti collassino, che il pavimento si riduca a polvere. Ma lei, lei me l'ha strappata subito» scuote la testa e le labbra tremano incapaci di trattenere oltre quel pinto.
«E lo sai perché?» L'olandese si gira nella sua direzione aprendo le braccia. «Lo so che probabilmente adesso ti aspetti una risposta filosofica, ma è più semplice di quanto pensi» continua ad indietreggiare nonostante Daniel persista nel rimanere fermo nello stesso punto. «Perché le case non hanno un cuore, sei tu a darglielo. Lei, anche se lo nasconde molto bene, invece sì» raggiunge la scala dalla metà dei gradini sfondati e prende posto a caviglie incrociate su uno di essi.
«Lo vedi quel buco?» Domanda poi, indicando un varco creato nel cemento che dona una perfetta visuale dell'erba ancor più alta sul retro della casa.
Daniel strabuzza gli occhi. «Chiamalo buco! È una voragine» esclama sconvolto.
«L'ho fatto io» ammette, per poi ruotare leggermente la schiena per afferrare qualcosa proprio sullo scalino dietro di se. Poco dopo, stretta tra le mani di Max c'è una spranga di ferro dalla larghezza equivalente a quella del suo polso, la tende verso Daniel, invitandolo silenziosamente a raggiungerlo. «Tieni, fanne buon uso» sorride complice quando il maggiore lo raggiunge a grandi falcati abbellite dal suo ormai caratteristico zoppicare.
Non appena la sua pelle entra a contatto con il freddo del metallo la sua mente si svuota, è piena solo di lei, ed è allora che comincia a randellare qualsiasi cosa gli passi sotto tiro con una violenza inaudita sotto lo sguardo di Max che trasuda anarchia ad ogni battito di ciglia.
Un cuore decellularizzato è un organo fantasma frutto di un processo sperimentale, artificiale, che permette la rimozione delle cellule di un organo con rimanenza solo della matrice extracellulare di un colore biancastro. Tale è quello di Daniel, ma senza la necessità di alcun intervento.
È stata lei, ha risucchiato tutto, piazza pulita, e ha lasciato intatto solo l'involucro, forse per non spazzarlo via completamente, in ogni sua fibra. Ha trascinato via con sé ogni forma di colore e di vita traboccante nel corpo di Daniel, abbandonandolo alla neutralità del bianco.
E Daniel ha paura, non di essere rimasto solo, ma di avere tutto attorno il mondo intero e non lei.
Poiché di lui e in lui non è rimasto niente se non lei, ha assorbito il suo dolore tanto da temere di diventarne la personificazione, di non ritrovare mai più le proprie cellule perché si nascondono solo ed esclusivamente negli occhi di Althea.
E Daniel non li vuole gli occhi di qualcun altro, preferisce tenersi quel cuore bianco.
Fuori i lampi squarciano il cielo ma i tuoni non sono in grado di emettere gli stessi ruggiti che provengono dal suo petto. Le lacrime scorrono copiose come l'acquazzone che comincia a penetrare dalle tegole malmesse del tetto facendo sì che a lungo andare il pavimento cominci ad allagarsi ma lui non è più in grado di prestarvi attenzione.
I cocci rotti di qualsiasi cosa si metta in mezzo al suo dolore, alla sua rabbia, non hanno speranza di rimanere in vita e il loro rumore riscuote la stanza assieme alle sue urla liberatorie.
Improvvisamente si sente sgombro, vuoto, non prova più niente, ha prosciugato tutte le sue lacrime, ma lei è ancora lì, sotto le sue palpebre, e lo guarda severa, lo giudica per essersi mischiato così tanto alla sofferenza, per averne fatto la pelle sotto le sue unghie rase a sangue dai suoi denti. E allora Daniel grida ancora, grida come un pazzo per cacciarla via, ma lei è un marchio a vita, a ferro e fuoco, dentro di lui.
Cade in ginocchio, esausto, stremato, inzuppando il tessuto dei jeans, lasciando che l'acqua penetri scontrandosi con le sue ginocchia. Il sudore imperla la sua fronte e il rombo di un tuono scuote il tremolio del suo corpo.
Sente un paio di braccia raccogliere il suo corpo da terra, come si fa con un cencio logoro abbandonato in balia di nessuno. Max lo aiuta a schiudere la mano serrata attorno alla sbarra, poi si fa nuovamente carico del suo peso e figlio di quella tempesta lo trascina fuori dal rudere abbandonato, mentre la pioggia picchia impetuosa sulla loro pelle.
Neanche troppo tempo dopo le porte dell'ascensore del loro palazzo si chiudono al loro passaggio mentre in lontananza risuonano i rantoli dell'anziano custode probabilmente appena tornato dalla pausa caffè ritrovandosi davanti il pantano creato dalle loro scarpe piene di fango nell'androne.
Daniel scuote la testa come un cane schizzando ovunque l'acqua piovana assorbita dai suo ricci mentre Max è costretto a strizzare la t-shirt totalmente inzuppata fradicia.
Si scambiano uno sguardo complice scivolando allo stesso tempo lungo la parete metallica dell'abitacolo fino a sedersi per terra l'uno di fianco all'altro.
Il moro poggia la testa sulla sua spalla, e a Max come il flash di un'istantanea torna in mente l'immagine di Althea quella mattina in clinica. Forse dovrebbe raccontargli tutto, si dice, ma poi è Daniel a cominciare a parlare.
«Ti giuro che se avessi la possibilità di cambiare le cose ci starei io su quella maledetta sedia a rotelle al posto suo, morirei io al posto suo, solo per non pensare neanche lontanamente all'idea di poter vivere una vita senza di lei» un singhiozzo rompe il silenzio che segue.
Max è immobile, pietrificato dall'amore immenso e sconfinato che Daniel prova per Althea, come se avesse piantato gli occhi dritti in quelli di Medusa.
Ingoia il rospo nonostante il tuffo al cuore, si fa coraggio come fa sempre, perché potrà vincere anche tutti i mondiali del mondo ma non smetterà mai di sentirsi eternamente la seconda scelta, il secondo in tutto.
Uno dei tanti lati oscuri dell'ambizione, dover accettare che qualcuno sia arrivato prima di te per lottare sempre di più, sempre più forte, per raggiungere un traguardo più grande.
Pacatamente, con una delicatezza che non gli appartiene, adagia la guancia sulla zazzera di capelli di Daniel seppur gli punga la pelle. «Non è necessario tornare indietro nel tempo o scegliere delle soluzioni così drastiche per cambiare le cose» perché a volte, anche se non lo si vuole ammettere, più si tiene ad una persona e più si pensa al suo bene, anteponendolo anche al proprio, esattamente come Daniel ha fatto con Althea.
«Che intendi?». Con la mano che sfoggia il numero tre sul mignolo si stropiccia il volto bagnato dal pianto e dalla pioggia.
«Intendo che ti sei buttato mille volte, mille e una potrebbe solo fare male, ma potrebbe anche essere l'eccezione». Tanto, in caso contrario, avrà sempre qualcuno su cui cadere, su cui crollare, qualcuno che ha fatto lo stesso su di lui un milione di volte e che se non gli avesse offerto la sua mano a quest'ora sarebbe ancora a terra.
Le porte si aprono una volta giunti al piano dei loro appartamenti. Max aiuta Daniel a rimettersi in piedi e quest'ultimo recupera la propria stampella. Camminano tacitamente fino a ritrovarsi ognuno di fronte al proprio ingresso, rispettivamente uno davanti all'altro.
«Ora ho bisogno di stare un po' da solo, grazie di tutto». Molla la stampella incurante del fatto che si abbatta presto al suolo per buttare le braccia attorno al collo di Max, stringendolo in un abbraccio in cui probabilmente il biondo non si sente a suo agio, ma di cui lui aveva bisogno da troppo tempo.
Sorprendentemente l'uomo di ghiaccio ricambia la stretta. «Sai dove trovarmi» sussurra al suo orecchio. «Dopotutto, ho sempre saputo dove trovare te».
Buongiorno a tutti. Come sapete nutro un odio profondo verso gli spazi autrice ma direi che un capitolo del genere presuppone delle spiegazioni, una in particolare.
Parliamo di Max e dei suoi tanto combattuti sentimenti. Il mio Max non si etichetta, e sottoscrivo mio inteso come personaggio del quale carattere, modi di fare, orientamento sessuale ed amoroso sono puramente frutto della mia fantasia.
Max vive l'amore come una sorta di malattia che non implica l'essere contagiati unicamente da uomini o unicamente da donne. Se non avessi rispettato il mio personaggio lo avrei semplicemente descritto come bisessuale anche se non avrei comunque sentito il bisogno di precisarlo.
Tutto gira attorno al fatto che Max ama Daniel non perché è un uomo ma semplicemente perché è Daniel, come potrà capitargli in futuro di provare interesse per una persona al di fuori di quello che è il suo sesso o genere.
Capirete naturalmente che ciò scatena una vera e propria guerra dentro la sua testa poiché non ha potuto manifestarsi, e soprattutto perché nel posto che lui riserva per Daniel nel cuore di quest'ultimo Althea ha piantato le radici.
Spero di essere stata abbastanza esaustiva e di aver descritto la situazione decentemente all'interno del capitolo. In proposito, volevo scusarmi per eventuali errori o ripetizioni ma questo capitolo mi ha distrutta emotivamente e mi sono arresa durante la rilettura vista la sua riuscita abbastanza mediocre.
Già che ci sono, approfitto per ringraziarvi dell'enorme riscontro positivo che la storia sta avendo, siete sempre di più ed io vi adoro dal primo all'ultimo.
P.S. - 3 alla fine (non contando l'epilogo) 🤫.
💙
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