XV. Sign Of The Times
Le stesse panche di legno, lo stesso stile bohemian, lo stesso menù - con qualche piccola modifica - scritto con il gesso su una lavagnetta, le stesse piantine a cascata. Una luce diversa, più intensa, che detta gli sgoccioli di quell'estate. Le stesse due persone, che nonostante abbiano vissuto l'uno di fianco all'altra per poco più di tre mesi e si siano allontanati per un lasso di pochi giorni, in quel momento si ritrovano faccia a faccia come se fossero trascorsi secoli.
Daniel ordina per entrambi, un caffè amaro per Althea e il suo solito cappuccino al quale aggiunge la bellezza di tre bustine di zucchero nel silenzio più assordante che la giovane donna abbia mai udito. Anche i rumori ovattati prodotti dalle discussioni accese nei tavoli circostanti sembrano scemare presto, e alle sue orecchie non giunge altro che il suono del cucchiaino che mescola il saccarosio all'interno di quella tazzina.
Sa già che non l'aiuterà, che non sarà una conversazione come tutte le precedenti in cui Daniel chiede e lei risponde, non è più così che funziona. Non dopo essersi detti quelle cose, non dopo tutte le lotte, le battaglie prima di perdere una guerra troppo grande.
Ora è il momento di dimostrare che quanto vissuto non si è trattato di un sogno di Daniel o di Althea, che per completarsi a vicenda è necessario un rapporto di reciprocità, per cui dovrà essere lei a fare il primo passo, altrimenti rimarranno lì in silenzio, probabilmente fino a quando uno dei due non si sarà stancato.
Le piacerebbe essere in grado di tirare fuori le parole giuste, in fondo troverebbero tanto di quello spazio in lei, in tutte quelle stanze vuote colme di angoli bui e desolati, di buchi neri in cui precipitare.
Trovandosi sprovvista ormai di ogni meccanismo di difesa di fronte a lui, abbandona il suo bozzolo, quella seconda pelle che la riveste, glaciale, apatica, e protende il braccio in avanti intenta ad afferrare la sua mano, ma Daniel si scansa.
Il cuore perde infiniti battiti. E se in lei rimaneva ancora il più minuscolo dubbio di cambiare totalmente la rotta del suo viaggio verso l'ignoto adesso non c'è più. Non così, si dice, ha seminato troppo dolore per meritare di meglio.
Ingoia a vuoto un groviglio di spine, ne ha abbastanza di tutto quel silenzio. Da quando lui è andato via quella sera non c'è più niente in grado di attutire il caos che dentro di se continua a mietere vittime. Uccide i suoi pensieri più lucidi, dilania ogni suo ragionamento razionale, le punta i ricordi alla gola, pronta a darle un taglio netto.
«Come stai?» chiede nonostante dentro senta di poter impazzire di lì a poco.
«Alla grande, ogni tanto ho solo la spiacevole sensazione di cadere in un dirupo, ma per il resto sto benone» quella vena di ironia nel suo tono se possibile è un coltello ancor più affilato che le incide una croce in mezzo al costato.
Non sa per quanto sarà in grado di andare avanti, ma poi ripensa a quanto ha combattuto Daniel per lei. Sente di doverglielo, quanto meno.
«Mi dispiace tanto» sussurra quelle parole che alle orecchie di entrambi risultano fin troppo banali, frivole, prive di senso, tanto che si sente ancora più in colpa quando lui posa il suo sguardo vacuo su di lei.
L'australiano si spalma una mano sul viso stanco, come se fosse già esausto del suo imperterrito indugiare. «Ti prego, possiamo saltare i convenevoli? Cos'hai da dirmi?». Appoggia la punta del gomito sul tavolino per poi scaricare il peso della propria testa su due dita premute contro la tempia.
«Nulla, in verità. Mi mancavi solamente da morire». Era un peso sullo stomaco che incombeva da troppo tempo, troppo grande da sopportare e allo stesso tempo anche da sollevare. «Ma capirò nel caso in cui tu non abbia più nulla di cui parlare con me».
Lo guarda di sottecchi, speranzosa, mentre con il polpastrello traccia la circonferenza della propria tazzina.
L'uomo, in tutta risposta, tira fuori uno di quei sottilissimi veli di carta dal portatovaglioli e si mostra indaffarato a fulire il suo cucchiaino, prima dal lato concavo, poi da quello convesso. Una volta stabilito che sia arrivata l'ora di porre fine a quel rituale di tortura, si decide a parlare: «Se non ce l'avessi credi che avrei accettato di passare del tempo con te? Credi che me ne starei ancora seduto qui?». Il suo sopracciglio sinistro si inarca, e nonostante sia notevolmente folto è perfettamente in grado di assumere la forma di un'ala di gabbiano.
Althea non si spiega il perché ma assorta nell'ammirare l'insolita sobrietà del tono della voce e dei modi di fare di Daniel, misto alla sua naturale indole eccentrica e brillante, le sembra di star lì ad interloquire con una versione rivisitata di Freud, come se quegli innumerevoli ed inaspettati silenzi servano a psicanalizzarla, a comprendere prima di prevedere ogni sua mossa.
Dissimula nel tentativo di non darlo a vedere, ma quando la sua voce profonda prosegue comprende che in verità anche lui ha abbassato ogni difesa, dal primo giorno, senza mai neppure ipotizzare di risollevarla.
«E' solo che quando cadi talmente tante volte in così poco tempo prima di rialzarti hai bisogno di riprendere fiato, startene steso per terra, sommerso dalle schegge dei tuoi pezzi rotti e guardare in alto, per renderti conto di quanto immensamente grande è il cielo».
Fuori dalle vetrate di quell'accogliente locale c'è una madre che passeggia con il proprio figlio, quello che Althea non potrà mai avere, quello che non potrà mai essere. Daniel non ci aveva mai pensato fino ad allora, all'idea di avere un figlio prima o poi.
Certo, adora giocare con suo nipote, ma non si può sicuramente considerare equiparabili le due cose. Il ventre di Althea adesso è un luogo arido, un regno in cui il gelo fa da padrone, in cui i germogli di nuovi fiori appassiscono.
Si stupisce, più di quanto credesse di poter fare, di non averci mai realmente pensato, la spiegazione arriva presto però, le basta guardarla. È un luogo deserto e allo stesso tempo una foresta piena di rovi, eppure lui non ha mai saputo vederci altro che immense distese di meraviglia. Non importa che si trattasse delle onde del mare, di variopinte tonalità di petali o semplicemente quell'inconfondibile profumo di casa, per lui Althea è e sarà sempre l'apoteosi di ogni forma d'amore vivibile, vissuta e ancora sconosciuta all'uomo.
Non gli è mai importato di combattere per una causa persa in partenza, solo perché si trattava di lei. Non ha mai fatto progetti per il futuro, né allora né in passato, perché gli è sempre piaciuto sperimentare la vita caduta dopo caduta, e anche se sapeva che legarsi a lei sarebbe stato un salto nel vuoto lo ha fatto lo stesso, perché non è da pazzi preferire la sensazione di precipitare anziché quella di rimanere sempre fermi nello stesso punto a guardate il mondo scorrere senza alterazioni.
Forse se non avesse scelto di curarsi proprio in quella clinica non l'avrebbe mai conosciuta, ma in cuor suo Daniel sa che l'avrebbe scelta anche in quel caso, perché il battito del suo cuore avrebbe avuto un intervallo troppo lungo da quello successivo. Non sarebbe stato in grado di innamorarsi di qualcun'altra, e non conosce sicurezza più ferrea di quella.
«Il problema è che più lo guardo più mi vieni in mente tu» conclude, perché non c'è soffio di vento al mondo che non gli ricordi il suo respiro, e se quella è davvero l'ultima occasione in cui potrà dirglielo non intende più esitare.
Althea vorrebbe risparmiarsela quella patetica lacrima che le riga il viso, eppure aspettava quel pianto da giorni e per tutto quel tempo si era sentita uno schifo per non essere più riuscita a piangere una sola goccia dopo quella sera.
Stava metabolizzando, e adesso interi temporali premono per venir giù attorno a quel tavolino. Più li inghiotte e più loro riemergono, ignari di star per esplodere in un luogo gremito di gente.
«Ti prego, promettimi che non ti abbandonerai» bisbiglia con la voce troppo rotta per riuscire a pronunciarlo ad una tonalità più alta.
È fatta a pezzi, distrutta, disintegrata, e non intende più ricostruirsi, si è convinta di non avere più a disposizione alcun materiale per farlo. È polvere, non sarebbero sufficienti incantesimi per plasmare nuovamente il suo cuore in qualcosa di vagamente integro.
Porta dentro i segni del tempo, in mezzo ai tanti, il più ingombrante - le sue gambe - riesce a passare in secondo piano di fronte a Daniel, ogni cosa di lui non fa altro che picchiare su qualcosa di frantumato per poi spazzarlo via.
Ne sono vittima entrambi, del tempo, delle intemperie, della malinconia di Althea e della sindrome da crocerossino di Daniel. Vittime di un amore destinato a finire.
Perché in fin dei conti, gli amori lasciati a metà sono quelli che non svaniscono mai, in grado di rimanere per sempre incastonati dentro le persone che non sono state pienamente in grado di prendersene cura. Quando il corpo di Althea sarà separato dalla sua anima, allora la sua metà toccherà a Daniel, per questo niente di ciò che hanno vissuto potrà mai spegnersi.
È una stella incapace di infrangersi.
«Non farmi questi discorsi» la prega sfiorandole il mignolo con il suo, come se si trattasse semplicemente di un gesto accidentale, ma nel profondo tremendamente intimo. «Non parlarmi come se non ci fossi già più».
Althea chiude gli occhi, si lascia nutrire dal sottofondo musicale tenue che culla l'oscillare di quella stanza in mille dei suoi vuoti. Inspira profondamente, non dice nulla, sta semplicemente vivendo un attimo, uno dei più tristi che abbia mai assaporato, intende inglobarlo tutto, non lasciarne neanche uno spiraglio in balia del nulla.
È la percezione irrealizzabile di star percorrendo il proprio cammino verso qualcosa di ignoto come la morte, così malneabile tra le mani dell'immaginazione dell'uomo che tende sempre a percepire la vita come un doloroso passaggio verso una discesa di quiete.
Althea non è mai stata in grado di fare affidamento sulle credenze altrui, non ha mai saputo realmente cosa aspettarsi, ci ha fantasticato tanto ma non è mai giunta a qualcosa di realmente comparabile ad una realtà Ultraterrena. Probabilmente è un meccanismo inconscio della mente, simile a quando si sta pensando ad un ipotetico scenario bizzarro e al suo interno, senza alcuna precisa ragione, i personaggi cominciano ad assumere comportamenti scellerati.
L'unica cosa che sa, è che anche se non dovesse esserci assolutamente niente dopo non vorrà perdersi nei suoi ultimi secondi di coscienza tutti i ricordi che hanno costruito insieme, per questo, nonostante molti siano infinitamente tristi, li custodisce con cura immagazzinando ogni dettaglio.
«Ti ho portato una cosa» Daniel pare cambiare improvvisamente discorso. Comincia a frugare nel suo zaino abbandonato sulla panca alla ricerca di chissà cosa.
Innesca un meccanismo che accende la curiosità di Althea, che come una bambina si sporge per vedere cosa stia tirando fuori. «Un altro regalo?» Chiede incastrando la punta della lingua tra i denti.
«Un po' meno plateale del primo però...» le consegna un pacchettino probabilmente incartato da lui vista la confezione tutta abbozzata e quasi interamente ricoperta di scotch.
Dopo le numerose peripezie da affrontare per scartare il dono quando finalmente si apre come un'immagine chiara di fronte ai suoi occhi l'espressione afflitta di Althea non può che esplodere in un sorriso, «Ma sono...» lui non le lascia il tempo di finire.
«Identici a quelli che indossavo la prima volta che siamo venuti qui» illustra soddisfatto mentre lei si rigira tra le mani un paio di calzini azzurri nuovi di zecca, a pois arancioni con su impressi degli ananas dalle dimensioni considerevoli. «Ti avevo promesso che te ne avrei fatti avere un paio, ricordi? Perdonami per il ritardo ma ho avuto qualche problemino con la spedizione» si gratta la nuca mentre il tono tipicamente olivastro della sua pelle assume un colorito simile al porpora.
«Sei assurdo» ride lei scuotendo lievemente il capo senza riuscire a distogliere l'attenzione dalle stampe coloratissime di quei calzini.
«Lo sai chi me lo ha insegnato?» Chiede improvvisamente, piegando un angolo della bocca all'insù, nostalgico.
Sul volto di Althea nasce un cruccio, «Che cosa?» domanda confusa. A volte Daniel tende ad esprimersi in una sorta di dialetto delle sue zone, per cui non sempre è certa che ciò che fuoriesce dalla sua bocca sia realmente qualcosa di concreto oppure semplicemente un modo di dire.
«Ad essere assurdo» risponde come se si trattasse della cosa più ovvia di questo mondo. «È stata mia sorella Michelle, lei dice che non c'è niente di più noioso di una vita senza colori, per questo il suo motto è: se esiste, mettitelo addosso».
Improvvisamente ad Althea sembra di ritrovarsi nuovamente sulla terrazza di quel locale notturno con la vista su Monte Carlo. Lui che le parla della sua famiglia e lei che lo ascolta rapita, complice e forse anche un pizzico gelosa della serena realtà che il bambino che un tempo era Daniel ha vissuto.
«È una vera pazza, l'ho ereditato da lei il mio modo di vestire, di fare, di pormi verso le persone» spiega lui, in quei momenti sembra che non ci sia argomento di cui ami parlare tanto quanto sua sorella, e Althea lo comprende, prima di lui non aveva nessun altro se non Tecla.
«Deve essere una persona meravigliosa» constata la giovane ex ginnasta, riuscendo solo a creare in maniera molto vaga un'immagine di quella donna nella sua testa, gli stessi capelli di Daniel, riccissimi e ribelli, lo stesso sorriso, gli stessi occhi, forse un naso più delicato del suo e un paio di zigomi più pronunciati. Un volto segnato elegantemente dagli anni, ancora estremamente vivo, allegro, l'esatto contrario del suo.
«Ti adorerebbe, soprattutto perché non ho mai conosciuto nessuno che conosca tante tonalità diverse di colori quante ne conosci tu, magari potresti insegnarle anche come si abbinano visto che va ancora in giro con la convinzione che il fucsia e il verde stiano davvero bene insieme» sbuffa una mezza risata dal naso.
«È un'accostamento audace, ma la gente abbina il viola all'arancione per cui tutto è possibile».
È incredibile, a tratti surreale, come siano in grado di passare da un argomento estremamente delicato come la morte a qualcosa come gli abbinamenti tra una gonna e un cardigan. Ma in fondo non sono mai stati pienamente normali come binomio, un'anima estremamente pesante come quella di Althea e una leggerissima come quella di Daniel non possono che condurre a certi risultati.
«È un vero peccato che tu non possa incontrarla...» quell'accenno di allegria che pareva essersi acceso in Daniel però affievolisce subito la sua fiamma fino a spegnerla definitivamente, si rattrista ancora una volta.
È il momento, si dice Althea, di donargli un altro pezzo di quel puzzle che ha le sembianze della ricerca della fine del mondo, pare non giungere mai al termine. È il momento di donargli una delle chiavi in grado di aprire almeno uno di quell'infinità di lucchetti di cui è costituita la sua corazza.
«Ricordi quella coppia che sedeva di fronte a noi al matrimonio di mia sorella? La donna dal tailleur malva e l'uomo dal completo grigio tortora?» Mette alla prova la sua memoria, ma è certa che Daniel sia in grado di rimembrare quel momento. Come ha pronunciato al suo orecchio quel giorno stesso, lui non dimentica mai nulla.
L'australiano sembra fare mente locale, poi seppur leggermente incerto annuisce. «Per sommi capi».
«Sono i miei genitori» confessa Althea, con un distacco tale da dare la parvenza che gli abbia appena chiesto di passarle una bustina di zucchero. Daniel ha sempre associato quella parola a delle emozioni, talvolta l'affetto, il senso di ribellione, ma mai niente di così vuoto e freddo era giunto alle sue orecchie, indifferente, come se per lei ormai neanche esistessero più.
«Mio padre è stato due volte campione olimpico di atletica leggera, mia madre quando lo ha conosciuto era una ginnasta ad un passo dai suoi primi campionati assoluti, e ha dovuto mollare tutto quando è rimasta incinta di me e Tecla» racconta mentre lui si dimena sulla panca come se avesse le pulci tentando di mettersi comodo, ma improvvisamente è come se stesse seduto su un tappeto di aghi.
«Alla veneranda età di quattro anni calzavamo il primo body, a cinque la prima gara regionale, a otto il primo concorso nazionale. Tutti intorno a noi dicevano che eravamo nate per diventare delle ginnaste, nessuno avrebbe mai tolto loro quell'idea dalla testa. È stata quella convinzione a dettare il ritmo della nostra crescita, anziché misurare di quanti centimetri si allungavano le nostre gambe tenevano conto di quanto riuscivamo a saltare in alto».
Le palpebre calate di poco, lo sguardo perso nel vuoto, totalmente assorta nel sentiero che ripercorre la sua infanzia Althea prosegue.
«È sempre stata questa la mia realtà, non ho mai vissuto altro, non ho mai vissuto nessun altro che Tecla. Anche a scuola, non riuscivamo a relazionarci con nessuno, io troppo silenziosa, lei troppo rumorosa, eravamo due anelli di una catena impossibile da sciogliere, se volevi una dovevi prendere anche l'altra» a quel punto sorride, debolmente ma sorride, e Daniel finalmente, inizia a mettere insieme i tasselli di un enigma apparentemente troppo complesso eppure talmente semplice.
Per tutto quel tempo, era come se ne mancasse uno fondamentale, Althea era riuscita ad aprirsi con lui ma sempre a spizzichi e bocconi. Come sempre, erano quegli angoli avvolti nel buio, ricoperti di polvere, avvolti dalle ragnatele, che lo incuriosivano, ma non aveva mai avuto il coraggio di chiedere, solo per non rovinare tutto un'altra volta.
«I miei stessi genitori mi hanno insegnato a misurare la mia bravura attraverso Tecla. Ero la sorella più debole, quella più gracile, perciò se lei dava dieci io dovevo dare mille. Ogni giorno della mia vita è stato impiegato per plasmarmi ad essere la migliore di tutti i tempi, e non avercela fatta non è stata una delusione solo per me». Si porta le mani vicino alle tempie per poi lasciarle scivolare lungo i soffici capelli a onde, spingendo indietro i ciuffi come se un'improvvisa vampata di calore avesse invaso la stanza.
Probabilmente, si dice Daniel, è solo un modo per tenerle separate, perché quelle povere mani non hanno ormai un solo stralcio di pelle candida e non ricoperta da graffi o croste. Un tempo era lui a salvarle, a stringere prima che potessero cominciare la loro giornaliera tortura, ma a quanto pare per Althea quei tempi sono terminati da un po'.
«Mia madre e mio padre non mi hanno più rivolto la parola dall'incidente. Al contrario di quanto è successo con Tecla, hanno sempre puntato meno su di lei per qualche strano motivo, per cui il suo abbandono dalle scene non si è rivelato così traumatico per loro. In fondo Tecla non ha mai perso, si è fermata prima di poterlo fare, io invece sì, e non credo che me lo perdoneranno mai».
Non se lo spiega, forse perché è troppo abituato all'amore sconfinato dei suoi genitori, di suo padre che lo copriva quando combinava i peggiori disastri e di sua madre che in un modo o nell'altro riusciva sempre a passarci sopra, senza mai evitare però la canonica e immancabile ramanzina sulle responsabilità.
Non riesce a credere che le persone che l'hanno messa al mondo, che le hanno dato la vita, le abbiano voltato le spalle in un momento così orribile e che per giunta gliene abbiano fatto una colpa. Se Althea è così schiva, così poco affettuosa e restia verso ogni forma di premura non si tratta di conformazione del carattere, bensì di mancanza di abitudine, perché chi non ha mai sperimentato la tenerezza delle braccia materne e paterne non si spiega che qualcun altro possa desiderare di prendersi cura di lei.
La verità è che Althea è un essere profondamente calato nella solitudine, sommerso da essa, forse per i primi tempi ha tentato di risalire per non soffocare, per non riempirsi i polmoni di quella cancerogena sostanza, poi ne ha fatto la sua culla, e ha preferito giacere sul fondo. L'unico, all'infuori della sua gemella, a non farla sentire un punto nero al centro di una tela bianca è Daniel, e tutto quel bagaglio d'amore che porta con se ovunque.
«Non ho realizzato il loro sogno, che col tempo è diventato anche il mio. Ho perso l'occasione di partecipare a tre olimpiadi, la prima a sedici anni per una lesione ai legamenti del tallone».
«E la seconda?» E' l'unica cosa di cui le chiede, solo perché la mattina subito dopo averla conosciuta, reduce da una notte insonne passata a guardare video delle sue esibizioni, si era chiesto cosa l'avesse spinta a non realizzare quell'impresa così giovane.
«A vent'anni, per la maledetta cocciutaggine che non sono mai riuscita a mettere a tacere. Non mi sentivo ancora in grado, non intendevo partecipare per accontentarmi di un bronzo o di un argento, dovevo esordire come campionessa non come un semplice talento simile a tanti altri. E così ho rifiutato». Notando la punta di sconcerto sul volto di Daniel si lascia sfuggire una risatina.
L'ex pilota, conoscendola, si aspettava una cosa del genere, ma non a tal punto. Crede di non aver mai conosciuto una persona più testarda e recidiva di Althea, forse nemmeno Max lo è così tanto. No, perché Max calcola ogni probabilità, ma poi le azzera tutte, buttandosi nelle sfide più sanguinarie a costo di vincere, Althea si è tirata indietro per la minima possibilità di non farlo.
Non può definirsi deluso da quella scoperta, non la giudicherebbe mai, semplicemente l'ha colto alla sprovvista più di quanto avesse mai ipotizzato.
«Ho rifiutato perché non sono mai stata capace di accontentarmi di nulla, come di questa vita, perché ho sempre avuto paura di rinchiudermi in una zona confort e perdere tutta la grinta che mettevo nel lottare per qualsiasi cosa sentissi di dover ottenere». Non dimenticherà mai la torcia che portava con se nel borsone della palestra, la accendeva quando il custode a fine turno spegneva tutte le luci dopo che lei e Tecla si erano nascoste dietro gli spalti.
Sua sorella puntava la luce sull'attrezzo, così che lei potesse focalizzarlo, e rimanevano lì ad allenarsi fino alle quattro, le cinque del mattino, fino alle lacrime, fin quando le ossa non chiedevano loro pietà e i calli sui loro piedi si facevano così duri e insopportabili da non riuscire più ad infilarsi le scarpe.
Dormivano un'ora, fino alle sei, quando il custode tornava ad aprire e a loro toccava tornare a casa e prepararsi per andare a scuola. Lì, mentre i loro compagni durante la ricreazione vagavano per i corridoi e facevano merenda, loro si posizionavano contro il muro della classe e rimanevano in verticale fin quando il sangue non giungeva al cervello. Il pomeriggio di nuovo in palestra, in un continuo loop di eventi che si ripeteva ogni giorno, alla stregua.
«Come questa sedia, per esempio» batte due colpi sui braccioli neri che sostengono i suoi avambracci.
Daniel appare smarrito. «Cosa c'entra la sedia? Credo di aver perso il filo» piega il capo di lato, confuso.
«Probabilmente ti sarai chiesto almeno una volta perché con le avanguardie dei nostri giorni non ho scelto di usare una sedia che andasse a batteria, che funzionasse da sola e non avesse bisogno di essere spinta» suggerisce lei, quasi stesse cercando di spiegare un quesito elementare ad un bambino.
«Da quando ho perso le mie gambe, la paura di perdere anche tutto il mio corpo mi tormenta, ogni istante. Sono terrorizzata al solo pensiero di svegliarmi una mattina e rimanere cosciente in un corpo morto, di non essere più niente che un cervello e un paio di occhi che si mantengono aperti. Allora ogni giorno sforzo le mie braccia sempre di più spingendo queste ruote, per continuare a percepire la stanchezza, per ricordare la sensazione del sudore che scorre lungo la pelle, anche solo per sentire dolore alle articolazioni» le trema la voce, non riesce a raggiungere una stabilità, ed ecco che le mani si ricongiungono in grembo e le unghie si piantano nella carne.
A quel punto Daniel non può farne a meno, con una delicatezza disarmante le separa, le stringe entrambe e mentre lei prosegue, ne bacia le nocche sanguinanti.
«So che è una paura infondata, che questo genere di paralisi non può espandersi, ma ogni volta che ci penso l'unica soluzione che mi appare è quella di porre fine alla mia vita prima che ciò accada». Si lascia stringere, si abbandona totalmente al suo tocco senza opporre resistenza, ci si aggrappa come ultima ancora di salvezza.
Lui vorrebbe trascrivere il cielo sopra la sua pelle, per mostrarle quanto tutte le sue crepe siano affascinanti sotto forma di costellazioni, quanto insignificante appaia la sofferenza di cui portano i solchi in confronto alla luce che le donano. Lei però, si caverebbe gli occhi a costo di non scorgere più alcun bagliore in fondo al tunnel, per dare un taglio definitivo a tutto.
«A volte credo di essere semplicemente impazzita, che forse avrei fatto meglio ad ingurgitare quegli psicofarmaci anziché sputarli, e so che probabilmente in questo momento lo stai pensando anche tu, ma è qualcosa di insostenibile, Daniel. Non ce la faccio più» si abbandona ad un singhiozzo incontrollabile.
C'era una volta una stella.
Era sopravvissuta all'evoluzione del mondo, aveva osservato gli astri allinearsi, le galassie separarsi e assumere forme di universi paralleli.
Aveva conosciuto gli uomini, ne aveva sentito gli occhi addosso, aveva udito in lontananza le loro voci lodarne la bellezza.
C'era una volta una stella, che vide quegli uomini uccidere, che sentii lo stridere delle vite di altri lacerarsi, i tonfi delle loro cadute, la gioia dei loro successi.
Lei però, rimaneva lì, incastonata come una gemma preziosa, in quel cielo che mutava in continuazione, eppure lei era sempre la stessa, sempre uguale, e sempre altre stelle costellavano i suoi dintorni, sempre più luminose, più appariscenti di lei.
C'era una volta una stella, a cui il tempo aveva tagliato via le punte, ed era rimasta poco più che un meteorite bloccato in un orbita di cui da tempo non desiderava più di far parte.
I mesi passavano, e lo spazio si faceva sempre più gelido, il suo fuoco non era più in grado di resistere, e allora, lentamente, si spense.
Si spense insieme alla sua luce, ma con la consolazione che tra un milione di anni al suo posto sarebbe nata una nuova stella, non aveva idea però, che anziché formarsi nel firmamento, avrebbe trovato la vita sulla Terra, e oltretutto, non avrebbe mai immaginato che potesse desiderare di fare la sua stessa fine.
Daniel si sporge fino a far combaciare perfettamente i loro profili, i loro nasi si sfiorano, e quando è sul punto di posare disperatamente le labbra su quelle di Althea, lei non può fare a meno di ripensare alle parole che Raul aveva pronunciato durante la sua seduta di fisioterapia.
Si erano ritrovati a parlare della ripresa prodigiosa di Daniel che continua tutt'oggi a dare il massimo perché la sua gamba ritorni quella di un tempo, allora l'uomo dal camice bianco l'aveva guardata e aveva sorriso: «Le ossa sono fragili, Althea, ma in grado di rimarginarsi, le ferite del cuore invece sono eterne».
Le ferite che lei ha inflitto a Daniel ormai sono incurabili, rimarranno impresse a vita sottopelle. Non intende continuare a scalfire il suo cuore, è anche se rifiutarlo è uno sforzo immane si costringe a posare le mani contro il suo petto per spingerlo via.
«Dan, no» mormora, senza più riuscire a guardarlo.
Lui sospira, ruotando di poco il viso e dandole la visione solamente del suo mezzo profilo. «Sarebbe l'ultimo» non sa a chi dei due faccia più male quella frase, perché in quei mesi è stato in grado di farsi carico di tutti i suoi mali, assorbirli, e adesso non è più in grado di scindere le tribolazioni del suo animo da quelle di Althea.
«Sarebbe meglio che dimenticassi anche qual è stato l'ultimo». E' il colpo di grazia, quello per il quale Daniel riscopre il suo spirito di ribellione, la rivoluzione che gli ribolle nello stomaco, non potrà mai acconsentire, né tantomeno arrendersi, lei ha scelto il proprio destino ma non ha alcun diritto di dirimere e risolvere anche il suo.
Mentre lui le porgeva la sua mano per aiutarla a risalire in superficie lei lo ha trascinato a fondo, e se adesso desidera giacere lì, lontano da chiunque non possieda i suoi stessi occhi, non può impedirglielo.
La guarda da sotto le sopracciglia aggrottate e in controluce il nocciola dei suoi occhi appare tendente ai toni del miele, come se qualcuno avesse sparso al loro interno una polvere d'oro. Il cruccio che gli si forma in mezzo alla fronte in quel momento farebbe ridere Althea, ma a giudicare dall'espressione di Daniel c'è ben poco su cui scherzare.
Talvolta, una frase del genere avente come soggetto proprio Daniel Ricciardo sarebbe paragonabile a dire di aver visto un'orso polare prendere il Sole alle Bahamas. Giusto per comprendere la gravità della situazione.
«Se pensi che solo perché morirai sarò in grado di dimenticarti ti sbagli di grosso» l'amarezza di quelle parole trasuda da ogni suo poro. «E' che ho paura, Althea, ho paura perché so che rimarrai per sempre una parte di me ma non potrò più guardarti negli occhi, non potrò più stringerti, non sentirò mai più la tua risata. Ora che sei diventata il centro di tutto che ne sarà di me quando non ci sarai più?» Le stringe forte il polso, non tanto da farle male, non poco da sembrare una carezza.
Althea porta la mano sulla sua guancia con cautela, lasciando che la barba solletichi le sue dita. «Non avere paura della morte, Daniel, abbi paura di una vita non vissuta». Potrebbe apparire quanto di più simile ad una frase fatta, ma è quanto più abbia appreso da lui in quei mesi. «Mi hai insegnato a vivere, non smetterò mai di ringraziarti per questo, mi hai insegnato la felicità, e tutto questo sarà per sempre cristallizzato in me e in te, come i fiori nella resina» E' una magra consolazione che sa bene non sazierà mai entrambi, ma è già troppo tardi.
Si riprende il suo posto, perché nonostante faccia di tutto per porre fine a quella conversazione non riesce veramente a lasciarlo andare, sistema il capo nell'incavo tra la spalla e il collo dell'australiano. «Devi solo imparare a cucire i ricordi per tessere qualcosa che tenga in caldo il tuo cuore, non che lo rompa ogni volta. Non ridurti come me, mai, il ghiaccio non guarisce le ferite, ne attutisce solo il dolore». La sua mano, il cui polso è ancora stretto nella sua presa, scivola via dalla sua guancia, lascia la propria scia lungo la mandibola, traccia la lunghezza della carotide e infine si ferma sul suo petto.
E' una posizione scomoda, nonostante siano seduti vicini, eppure è un po' una metafora di quello che sarebbero potuti essere insieme, eternamente legati eppure costantemente divisi da una forza maggiore, da qualcosa che non gli permetterà mai di essere realmente simili, qualcosa di cui Daniel si è dimenticato presto, a cui non ha più fatto caso, vedendola semplicemente come una parte di lei, che però su Althea pesa ogni giorno come mille macigni sulle sue fragili ossa.
«Non ti avevo mai sentito parlare così tanto» constata il moro, mentre dentro l'angoscia prende forma di un groppo in gola poiché non è più in grado di liberarsi dal pensiero di non sentire mai più la sua voce.
«Perché hai sempre riempito ogni mio silenzio, e adesso non so più conviverci». La pelle martoriata dei suoi palmi riesce a percepire i battiti accelerati del suo cuore, le piacerebbe registrarli, le piacerebbe che fossero l'ultima cosa con cui deliziare le sue orecchie.
È un ritmo talmente pulito, come quello di una ninna nanna, non ha ultimo desiderio che non sia quello di cadere nel sonno eterno stretta in quelle braccia, di esalare il suo ultimo respiro cullata da esso.
Le dita di Daniel finiscono per incastrarsi nei suoi lunghi capelli, mentre le carezza la nuca e con dolcezza lascia piccoli baci proprio in mezzo alla riga che li divide. «Ti amo da morire, perdonami se quel giorno te l'ho urlato contro, perdonami se ti ho lasciata da sola, ero accecato dal dolore e dalla rabbia», strizza gli occhi mentre preme le labbra tra il castano delle sue onde.
D'impeto lei stringe il tessuto della sua maglietta, come se temesse di risvegliarsi da un incubo da un momento all'altro, che lui svanisca, dissolvendosi, cadendo al suolo come polvere trascinata dal vento, senza lasciare tracce.
Nella sua testa c'è una giungla, una foresta di rovi, lei è nuda, rannicchiata tra gli arbusti secchi in balia dei corvi che beccano le sue ossa sentendo già il fetore di marcio. Lo stesso sangue che quella sera sulla spiaggia le aveva bagnato il grembo adesso è ovunque, punta dalle spine di rose recise, morte ancor prima di sbocciare, di incontrare per la prima volta la luce.
Solleva di poco il mento, per poter parlare al suo orecchio. «Io ti amo di più, e te lo urlerei contro ogni giorno che rimane della mia vita, ma adesso è meglio che vada» conclude a malincuore.
«Aspetta, ti accompagno» fa per alzarsi anche se rimarrebbe volentieri in quella posizione per l'eternità, ma Althea lo blocca.
«No, preferisco che questo sia l'ultimo luogo in cui ci vediamo».
Daniel non è certo di aver sentito bene, si interroga più volte segretamente sul significato di ogni sillaba pronunciata da Althea, poi si decide a porre fine ai propri dubbi. «Che vuoi dire?».
«Domani parto per la Svizzera».
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