VIII. Elastic Heart

Monaco è la capitale dello sfarzo, una fitta selva fatta di milionari e i loro palazzi, i loro yatch, le loro auto lussuose. Il paradiso sintetizzato al denaro e al suo magico potere.

Con il tempo Daniel ci aveva fatto l'abitudine a poter avere qualunque cosa desiderasse, da un attico con vista su tutta Monte Carlo al completo da uomo Versace più appariscente che abbia mai solcato la passerella.

Ciò che però in molti dimenticano, cosa che lui non ha mai fatto, è che per avere tutto quello che possiede, la fama, il successo, sono necessarie delle radici salde al duro lavoro. Perché anche se a Monaco sembrerebbe possibile, i soldi non crescono sugli alberi.

Ai tempi Joe, suo padre, aveva tentato di dissuaderlo. Lui che, a spizzichi e bocconi, era riuscito ad avere un assaggio di quel mondo sapeva quanto sarebbe stata lunga e piena di ostacoli la strada di un ragazzino dell'Australia occidentale con un borsone in spalla in giro per il mondo con il sogno nel cassetto di diventare un pilota di Formula 1.

Lo faceva per il suo bene, Daniel non ha mai avuto dubbi, non voleva che uno di quei giorni quel ragazzino bussasse alla porta di casa deluso, pronto a nascondere il borsone in mezzo alla polvere sotto il suo letto.

Uno dei tanti motivi per cui, quando lo aveva chiamato dal suo vecchio e ormai obsoleto cellulare direttamente da Milton Keynes senza neppure far caso al fuso orario per annunciargli che il Red Bull Junior Team lo voleva con sé l'uomo era scoppiato di gioia e poi, al termine della telefonata la sua felicità era diluita in lacrime.

Glielo racconta sempre sua madre quelle poche volte che riesce a tornare a Perth per le vacanze, "Quel bambinone di tuo padre non voleva saperne di smetterla di piangere, mi ha tenuta sveglia una notte intera".

Se fosse lì in quel momento, ad ascoltare per la milionesima volta quella storia al loro piccolo tavolo da pranzo rotondo, Michelle, conciata sempre come se stesse per apparire nel nuovo video clip di Katy Perry, gli pizzicherebbe la coscia da sotto al tavolo per fargli notare come suo padre, fingendo di annegare nell'imbarazzo in realtà si stia solo trattenendo dal riversare il fiume in piena con cui ha bagnato il cuscino quella notte.

Daniel si chiede ancora se Joe in qualche modo sia fiero di lui. Nel suo vecchio borsone, che sua madre tiene ancora conservato sotto la rete del suo materasso singolo, non c'erano soltanto i sogni e le aspettative di quello che era poco più di un bambino, ma anche tante promesse.

Prima di partire per la prima volta da solo aveva giurato di fronte a suo padre che sarebbe tornato da campione e per un periodo era riuscito a mantenere la parola vincendo in Formula Renault e nella Formula 3 britannica, ma quella che doveva essere la sua vera ascesa verso l'albo d'oro si era rivelata non così piena di trionfi, quantomeno non dopo che la Red Bull aveva deciso che non era più così utile per loro.

Probabilmente in una di quelle loro riunioni top secret si erano detti che potevano trovare di meglio per affiancare Max, una figura che rendesse la coppia vincente. Solo tempo dopo si erano effettivamente accorti che il meglio ce lo avevano già tra le mani, ed era proprio Max.

Lo stesso Max che non era più entrato in sintonia con nessun compagno tanto quanto lo fosse con Daniel. Lo stesso Max che quella mattina lo aveva chiamato al telefono prima di dare il tempo alla sveglia di sparare a tutto volume Californication dei Red Hot Chili Peppers.

«Cosa ti porta a disturbare il mio sonno di bellezza?» La domanda è accompagnata dai versi che dal fiore dei suoi trentadue anni emette nel tentativo di tirarsi su fra le lenzuola.

Dall'altra parte il silenzio più assoluto, cupo, pesante, come solo i silenzi di Max sanno essere. Sa distinguerli bene, Daniel, altrimenti si sarebbe chiesto semplicemente se all'olandese non fosse partita la chiamata dalla tasca dei suoi pantaloni, invece si preoccupa, perché quel tipo di silenzio non preannuncia niente di buono.

«Tutto bene, Max? Hai litigato di nuovo con tuo padre? Vuoi che venga da te?»

Un respiro profondo. Poi ancora silenzio. Un magone ottura la gola dell'australiano e mandarlo giù è come inghiottire un blocco di cemento.

«Max?» Chiede ancora, più preoccupato.

Sente il rumore di una sedia che si sposta e del telefono che si appiattisce brusco contro una superficie, probabilmente il marmo dell'isola in cucina.

Dopo qualche altro istante di strabordante vuoto la voce rauca e...sconfitta, percepisce Daniel, di Max emerge come un naufrago dalla marea, come se fino ad allora fosse stato intrappolato in una bolla e avesse a stento trovato il modo di scoppiarla.

«Te lo doveva dire Lando, ma non sapeva come quindi l'ha scaricata a me...».

Daniel non ha bisogno di sentire altro, è una stoccata al cuore troppo dura da incassare in un colpo solo. Si spalma una mano sul volto e in quel momento tutto ciò che vorrebbe è avere accanto qualcuno come sua madre, che lo prenda in giro non perché gli viene da piangere, ma per tentare di tirargli su il morale totalmente a terra.

Le spalle si fanno pesanti, le labbra perdono la forza di rimanere incollate e si schiudono, lentamente, in un gesto involontario, lo sguardo perso nel vuoto di quella camera che improvvisamente appare così vuota nonostante il suo disordine.

«È quello che penso?» Pronuncia a forza, sentendo il peso di un macigno a schiacciargli il cuore.

Max ingoia a vuoto, e anche se non può vederlo l'ormai ex pilota ha di fronte l'immagine del suo pomo d'Adamo che percorre la lunghezza del suo collo.

«È quello che pensi, Dan».

Sente lo stomaco chiudersi e riempirsi di crampi immaginari, come se tutta la fame di vittoria che aveva da bambino gli si fosse risvegliata dentro d'improvviso, più forte e deleteria.

La maledetta sensazione di sentirsi precipitare, perché per lui il futuro non ha mai rappresentato altro se una partita piena di sorprese in cui è necessario giocarsi tutti i jolly, e non si aspettava di avere ancora così tanti anni davanti a sé dopo averli terminati.

Non ha più niente. Non è più nessuno. Non è più in bilico, ormai è in ginocchio di fronte alla verità. Daniel Ricciardo ormai, non è nient'altro che il passato.

Adesso può tastarlo con le sue mani, il buio, l'arido terreno in cui sprofonda verso il baratro, lo ingoia, lo respira, fino a sentirsi soffocare. Adesso sa come si sente Althea.

«Sai almeno chi è?». Forse non avrebbe dovuto chiederglielo, avrebbe soltanto dovuto chiudere quella telefonata, coprirsi la testa con il lenzuolo e tornare a dormire, perché la risposta di Max è il colpo di grazia.

«Un rookie, non mi ha detto il nome».

Un rookie. Probabilmente un ventenne appena sfornato dalla Formula 2 che ci metterà la metà del tempo che ci ha messo lui ad abituarsi alla macchina. Uno di cui quantomeno si ricorderanno il nome, al contrario di come succedeva all'australiano per la prima metà della stagione.

Ci metteranno un attimo, si dice, a bollargli addosso l'etichetta del fenomeno, a pomparlo per un terzo tempo in qualifica o per una quinta posizione già al secondo Gran Premio.

Un battito di ciglia e tutti lo avranno dimenticato. Prenderanno sotto la loro ala quel ragazzino senza nome e presto la squadra comincerà a vantarsi del proprio acquisto, e Daniel rimarrà nient'altro che l'ennesimo capitolo chiuso della Formula 1 con un finale che a quanto pare, non meritava di essere felice e contento, e soprattutto con un dominio nel mondiale.

«Come ti senti?» Non è una domanda da Max, semplicemente perché lui lo sa già, ma ha bisogno che Daniel glielo dica.

Necessita che quella bomba ad orologeria esploda in maniera diversa questa volta. Max desidera che Daniel si alzi da quel cazzo di letto e si metta ad urlare, a spaccare tutto, perché in vita sua non l'ha mai visto davvero arrabbiato, perché quel concentrato di spumeggiante carisma non ha mai lasciato trapelare l'ombra di un malessere unicamente per non pesare sulle aspettative di chi gli sta intorno.

Max vuole che Daniel si arrabbi, perché sa che è maledettamente stanco di essere la spalla di tutti e non trovarne mai una su cui piangere, una che nel frattempo non sia troppo occupata a combattere i suoi demoni per dargli sostegno.

Se ne fa una colpa, perché in fondo è così, perché se Daniel non avesse scelto Max probabilmente adesso sarebbe circondato da persone fantastiche, invece quasi tutti gli hanno voltato le spalle.

Perché Max è costituito dal novantanove virgola nove per cento da odio represso e in quello zero virgola un per cento c'è posto solo per Daniel, è sempre stato così.

La risposta dell'altro però, arriva fiacca, deludendo le sue aspettative.

«Quanta birra hai in casa?»

«Daniel sono le nove di mattina» dovrebbe essere qualcosa di simile ad un rimprovero e anche se in realtà cola dalla sua bocca come una richiesta disperata di non abbandonarsi, l'altro non esita a difendersi.

«Sei o non sei il mio migliore amico?» Sbotta affondando una mano fra i ricci, nervoso, logorato.

«Tanta» e ciò significa che al termine di quella giornata gli toccherà rifarne una scorta. Daniel ha la sbronza facile, ma a lui per sopportarlo sarà necessario fare rifornimento all'enoteca dietro il palazzo.

«Dammi il tempo di vestirmi». La chiamata termina lì e pressappoco anche i suoi ricordi.

La porta dell'appartamento di Max che si apre, le prime tre bottiglie e il suo telefono che squilla. Una, due, tre, quattro volte...poi il vuoto.

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Un sapore amaro gli impasta la bocca e la testa gira come per un principiante sulla pista di Portimao. Up and down, side to side, like a roller coaster.

Si porta una mano alla fronte e sospira pesante riducendo gli occhi a due fessure per mettere a fuoco il luogo in cui si trova. Appare tutto sdoppiato, lui e Max devono aver esagerato sul serio quella volta.

È disteso per metà sul pavimento quando qualcosa ricomincia a vibrare insistentemente nella tasca dei suoi pantaloni.

Comincia a tastarsi il petto per poi scendere con le mani e individuare il suo cellulare. Le retine cominciano a bruciare non appena entrano in contatto con lo sfondo luminoso e ci vogliono un paio di secondi perché il nome impresso sul display si faccia nitido.

Althea.

Preme immediatamente sul tasto verde per accettare la chiamata senza far caso al minuscolo orologio in alto a destra che segna le sedici e trenta.

«Pronto?» Biascica massaggiandosi la tempia.

Un singhiozzo, poi un altro. Decisamente il giorno in cui ha ricevuto le peggiori telefonate della sua vita, si dice Daniel.

«Daniel» proviene dall'altro capo del telefono quasi come un latrato, «Sono Tecla, siamo in ospedale. Non so chi chiamare, ti prego fai in fretta» tira su col naso, poi mette giù senza ulteriori spiegazioni.

Si stropiccia gli occhi con le mani e la scarica di adrenalina che gli inonda il corpo è persino più forte dell'hangover per cui scatta in piedi dimenticandosi delle stampelle, per poi cadere rovinosamente col culo sul parquet per via della mancanza di equilibrio.

Quel tonfo richiama l'attenzione di Max, che ha già smaltito buona parte della sbronza con la faccia nella tavoletta del water. È messo male anche lui, ma solo perché ritenendo la birra troppo leggera si era buttato sulla credenza dei liquori quando Daniel ormai era bello che andato.

A piedi scalzi fa capolino dalla porta del bagno, «Si può sapere che cazzo stai facendo?» Grugnisce osservando il suo amico che si guarda compulsivamente intorno alla ricerca delle sue stampelle.

«Aiutami, veloce» gli tende una mano mentre l'altro a passo blando lo raggiunge. «Dobbiamo andare in ospedale» a quelle parole Max quasi inorridisce tirandolo su.

«Perché, ti senti così male?» Chiede e Daniel lo trova più impensierito del solito, ma non è il momento di prenderlo in giro perché si sta trasformando in una mamma chioccia, lo farà più tardi.

Il biondo, ancora con il braccio del moro sulle sue spalle gli porge le stampelle abbandonate per terra di fianco al bracciolo del divano.

«Io no, ma a quanto pare Althea sì» dal suo tono di voce greve Max, facendosi un po' il sangue amaro, capisce che è davvero il momento di darsi una mossa, perciò vaga con lo sguardo per la stanza fino ad intercettare le scarpe che si infila in tutta fretta e cercando il più possibile di evitare un capitombolo a Daniel nel tratto che divide la porta dell'appartamento all'ascensore si trovano entrambi sui sedili della sua Aston Martin, pronti a partire, ancora mezzi ubriachi.

Daniel ricontrolla la cronologia delle chiamate e gli viene voglia di prendersi a pugni in faccia da solo. La prima risale alle dieci di quella mattina, in quel lasso di tempo sarebbe potuto succedere di tutto, e nel frattempo è ancora ignaro del motivo per cui la ragazza si trova in ospedale.

Max è costretto a strizzare gli occhi più volte per riuscire a concentrarsi sulla strada finendo sempre per buttarsi un po' troppo nella corsia di sinistra generando il boato dei clacson degli altri automobilisti.

Il rombo del motore giunge ovattato alle sue orecchie e riesce a riprendere con scarsi risultati il pieno controllo del volante. Per fortuna la loro meta non dista troppo dal palazzo in cui vivono i due.

Max accosta il più vicino possibile alla porta di ingresso. Per evitare di perdere tempo Daniel ha preferito tenere le stampelle con sé sul sedile del passeggero dunque senza ulteriori indugi i due si fiondano all'interno della struttura la cui aria è intrisa di un odore di malato che fa contorcere le budella di entrambi.

«Althea Taviani, dove posso trovarla?» Chiede alla donna di mezza età alla reception intenta a smanettare con uno di quei computer di ultima generazione.

«È stata ricoverata stamattina, padiglione C, quinto piano, reparto terapia intensiva» la donna ripete meccanicamente ciò che digita accarezzando ogni tanto le punte incastrate tra l'elastico che tiene sigillata la sua treccia bruna.

Daniel non è in grado di recepire altro, non dopo reparto di terapia intensiva.

I due amici, traballanti e stralunati, ci mettono un po' a trovarlo soprattutto per via delle lettere delle scritte più piccole che ancora si sovrappongono l'una all'altra. Ma poi, a Max basta un'occhiata veloce ad uno di quei corridoi spogli per afferrare saldamente il braccio di Daniel e fermarlo.

Sono nel posto giusto, e non ne è a conoscenza per via dell'enorme cartello che troneggia sulle loro teste, ma perché riconosce perfettamente la figura accovacciata per terra, con le spalle chine contro una porta e la testa stretta fra le mani.

È Tecla.

Non appena la giovane si ritrova di fronte le figure imponenti dei due ragazzi annaspa tentando di districarsi fra le sue stesse lacrime per riuscire a tirare fuori una frase di senso compiuto. «L'ho lasciata sola cinque minuti, solamente cinque minuti» singhiozza mentre dai suoi occhi quelle traditrici scorrono copiose.

Si sente in dovere di giustificarsi, perché per l'ennesima volta se lei le fosse rimasta a fianco a sua sorella non sarebbe successo niente di così orribile.

Gli occhi di Daniel attraversano il vetro che li separa dalla figura di Althea inerme su un lettino, con una maschera di ossigeno ad ostruire la vista del suo viso e gli avambracci bendati abbandonati sul tessuto leggero del lenzuolo.

Per colpa di quell'ultimo dettaglio rimane pietrificato di fronte a quella lastra trasparente.

È uno di quei momenti in cui hai davanti un problema così grande che tutti gli altri svaniscono. Non esiste più niente in lui e attorno a lui, le lacrime di quella mattina diventano insignificanti, la fine della sua carriera fa lo stesso rumore di un insetto schiacciato dalla suola di una scarpa.

Esiste solo lei, e il peggio, è che non sa ancora per quanto.

Per quanto possibile per via del l'ingombrante tutore si china su Tecla alla ricerca di una spiegazione chiara «Respira, spiegami cos'è successo» prova a trasmetterle un po' di calma anche se decisamente non ne possiede neanche un briciolo.

Ha bisogno di saperlo da lei, di sentirselo dire in faccia, ha bisogno di qualcuno che gli ricordi ancora una volta quella mattina che la vita a volte è una vera stronza.

«Voleva fare un bagno e l'ho lasciata sola». Si batte i pugni chiusi sulla fronte stringendo i denti per non urlare, è distrutta. «Nari le aveva nascoste tutte, me lo aveva giurato, tutte». Alza lo sguardo su entrambi come se dovesse giustificarsi, sente tutte le colpe schiacciarla la suolo, contro quella porta, stringerla per la gola fino all'asfissia.

Daniel non ha la più pallida idea di chi sia questa Nari ma teme di sapere già cosa avrebbe dovuto nascondere perciò accarezzando la spalla della ragazza cerca di strapparle qualche informazione in più, «Tecla di che stai parlando?»

Respira a fatica, tira indietro la nuca per riuscire a concentrarsi su altro che non siano i loro volti travolti dal panico. C'è un albero lì fuori i cui rami picchiettano contro la finestra e lo scrosciare delle foglie è una melodia tormentata, proprio come quella che deve riempire la mente di sua sorella.

Tira su col naso, poi lentamente rilassa le mani adesso solcate dai segni che le unghie hanno lasciato sui palmi, quelle mezzelune arrossate a Daniel ricordano terribilmente Althea e si rende conto di quanto quelle due non solo siano identiche fuori, ma custodiscano anche lo stesso dolore.

«L'ho lasciata nella vasca, doveva averla nascosta da qualche parte ma io non l'ho vista, come ho fatto a non vederla?!» Le sue labbra si increspano in procinto di abbandonarsi nuovamente alla disperazione ma Daniel non gliene dà il tempo.

«Cosa, Tecla? Cosa non hai visto?» Forse senza volerlo ha alzato la voce perché persino Max sembra mutare improvvisamente il suo stato d'animo.

Non è mai stato uno di tante parole ma il modo che ha di vagare con quei suoi occhi vitrei da Daniel a Tecla senza neppure fiatare è insolito persino per uno come lui.

Perché Max sa. Max sa dalla prima volta che ha incontrato lo sguardo di Althea e sapeva che quel momento sarebbe arrivato prima o poi, ma non credeva che i suoi sospetti si sarebbero avverati così presto. Non poteva immaginare che fosse così vicina al baratro.

E soprattutto Max non ne aveva calcolata un'altra come lei, con i suoi stessi occhi marcati da una matita scura per poter palpare la differenza fra l'essere in bilico e la sensazione di precipitare. Le aspettative di Max erano catastrofiche, ma non aveva previsto Tecla, e la cosa lo tormenta, perciò rimane in silenzio.

«La lametta» sospira quest'ultima, sconfitta. Ha perso la sua più grande battaglia senza neppure avere il tempo di combatterla. Neppure lei, l'esatta metà della sua anima, è stata in grado di farle cambiare idea. «Volevo solo prendere un po' d'aria e sono uscita sul balcone, quando sono tornata per vedere se avesse finito l'ho trovata in un bagno di sangue».

Nessuno dice più nulla ma Tecla è capace di percepire in maniera amplificata il desiderio di Daniel di entrare in quella stanza, e quella è l'unica cosa in grado di darle la forza di provare quantomeno a rimettersi il piedi.

Un capogiro però le fa perdere l'equilibrio e strizza forte le palpebre già pronta a sentire di nuovo il pavimento freddo sotto le sue gambe, quel momento però, non arriva.

Sembra un po' una scena da film, una di quelle per cui lei va su di giri e Victor - quelle poche volte che ha del tempo a disposizione da sprecare con lei - sbuffa lamentandosi di quanto sia diventata scontata la cinematografica al giorno d'oggi.

Un paio di braccia dal colorito chiaro, velate da una peluria bionda, le fasciano il busto e le impediscono di cadere.

«Tutto ok?» Sono le prime parole di Max non appena lei si allontana con cautela dal suo petto che sembrava combaciare pericolosamente bene alla sua schiena.

«Si si, è solo che le hanno dovuto fare due trasfusioni e abbiamo gruppo sanguigno AB negativo» Si porta una mano alla fronte per poi arrivare a tentoni a sedersi su una delle sedie di plastica accostate alla parete opposta a quella che li separa da Althea. «Dio, se non ci fossi stata io qui...» non ha il coraggio di continuare la frase.

Per sua sorella sarebbe stata una fortuna, non avrebbe avuto nessuno a metterle i bastoni fra le ruote nella realizzazione del suo piano per andarsene in silenzio molto prima del previsto. E invece Althea, anche desiderando il contrario, ancora una volta è stata capace di essere il centro di tutto.

Daniel, qualche metro più in là, ha già la mano stretta alla maniglia ma non ha la forza di tirarla giù per entrare, varcare quella soglia e ritrovarsi in carne ed ossa in quell'incubo.

«Cosa dicono i dottori?». Adagia la fronte contro la porta con le palpebre abbassate, lei è lì, tatuata nella sua mente, quel sorriso malinconico, quel suo modo di stringere le labbra.

È lei, l'unica corsa di cui in quel momento gli importa davvero, quella contro di lei e il desiderio di togliersi la vita. Ha due opzioni, fuggire via o buttarcisi dentro a capofitto.

A quel punto si ricorda delle parole di Tecla: Dalle un motivo per cui valga la pena vivere. Si trattava di questo, era questo ciò che voleva dirgli e mentre lui riponeva il sonno sotto il cuscino per capire cosa ci fosse dietro quella frase, Althea continuava a disintegrarsi dall'interno e il mondo intorno a lei, lentamente, collassava.

«È stabile ma non si sa quando si risveglierà, può trattarsi di minuti, ore, giorni».

Apre quella porta ed immediatamente viene invaso da un odore che lo stordisce, non è il profumo di Althea, quello lo riconoscerebbe ovunque, tutto ciò che le sue narici respirano è la morte, densa, soffocante.

La osserva dormire cullata dal bip del battito del suo cuore. Un angelo tormentato dai demoni, stremato dalle loro angherie, che ha visto quella come sua unica via d'uscita.

Daniel aggancia le stampelle alla tastiera del lettino e recupera una sedia lasciata in un angolo. Prende posto affianco a lei, e con lo stomaco che gli si ribalta non può fare a meno di carezzare le bende che le avvolgono i polsi.

Le avvolge le dita con le sue e le stringe convivendo con la paura di farle male, si porta le sue nocche alla bocca e le bacia, dolce, leggero, come a volerle togliere almeno un grammo di quel macigno che le ostruisce il cuore.

Neppure si accorge che una lacrima le riga il viso pallido. Che si tratti di un caso fortuito, che in realtà sia riuscita a sentire il calore del suo corpo a contatto con la sua pelle, ma il suo indice ha un fremito.

Non ha neppure il tempo di dare l'allarme ai due rimasti fuori che Althea, seppur a fatica, apre gli occhi.

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