VII. Young And Beautiful

Se c'è una cosa che Althea ha sempre odiato dai primi tempi in cui frequentava la clinica, quella è l'Idrokinesiterapia, ovvero la terapia in acqua.

Indossare quell'orrendo costume da piscina e la cuffia in silicone che sembra comprimerle il cervello non sono neppure le parti peggiori, ma indossandoli si sente una sorta di Gollum in sedia a rotelle.

Diversamente da come si possa immaginare, il costume non si avvicina neppure lontanamente alla sensazione di portare il body. Rimpiange ogni giorno le sue lamentele in palestra per via del poliestere che le si infilava in ogni dove. Con quello addosso non riusciva a sentirsi nuda agli occhi degli altri, semplicemente bella.

Forse il vero motivo per cui quel giorno si sente terribilmente irrequieta al pensiero di doversi recare nella piscina situata nel seminterrato della clinica è perché in quei giorni i turni non sono più singoli ma divisi in gruppi di dieci vista la vasta quantità di personale, e conoscendo il suo rapporto di odio reciproco con la fortuna, si ritroverà ad essere nel turno di Daniel.

Non si parlano da giorni, o per precisione, dal giorno in cui lui ha scambiato Tecla per lei.

Forse non avrebbe dovuto prendersela così tanto, a volte ci pensa, in fondo l'unica cosa che possa realmente distinguerle al di fuori del vestiario sono le gambe. Un paio sane, forti e funzionanti, un paio inerti, adagiate sui pedali lontane da ogni segno di vita. 

La realtà sta in ciò che l'ha ferita davvero: la capacità di Daniel di credere ancora che le cose belle accadano. Qualcosa che lei non possiede ormai da tempo immemore e che stando al suo fianco teme di strappargli.

Sa bene che nessuno, neppure un ottimista come Daniel riuscirebbe a credere ad una sua possibile guarigione, ma in quel momento lui ha desiderato distaccarsi anni luce dalla logica, dalla triste realtà, per potersi tuffare a capofitto nell'illusione di vederla in piedi un giorno.

Daniel è innamorato della vita, e Althea ha paura che innamorandosi di lei decida di reinventarla da capo, di fare delle sue necessità anche le sue abitudini.

Ha paura di disintegrare la sua felicità, di mandare in frantumi la persona meravigliosa che si è rivelata, perché sa bene che non cambierà mai idea. La decisione è presa, e nessuno, neppure lui riuscirà a dirottarla.

Ripone i fogli già firmati da tempo allineandoli bene con le mani, richiude la cartellina che teneva aperta sulle gambe e la ripone nel terzo cassetto della toeletta dallo specchio coperto, sotto diversi strati di coperte ben ripiegate, ordinate per colore.

Spinge il cassetto dopo aver messo il freno alla sedia, per evitare di scivolare all'indietro o di doversi aggrappare al mobile per chiuderlo, dopodiché abbandona la camera.

Da quando Tecla è arrivata Althea ha mandato Adrien in ferie. Detesta la guida strampalata di sua sorella, ma desidera passare con lei più tempo possibile prima che Victor venga a riprenderla, come se non fosse capace di prendere un aereo e tornare quando lo desidera. Alza gli occhi al cielo a quel pensiero ma si sforza di montare un'espressione serafica quando raggiunge la sua gemella.

Non appena la vede arrivare Nari si appresta a porgerle un bicchiere d'acqua riempito per metà e una compressa dalla forma rotonda e panciuta. Althea la porta alla bocca ma scansando lo sguardo attento di Nari la infila sotto la lingua e senza mai ingoiarla butta giù per intero il contenuto del bicchiere.

La domestica si sporge per salutarla con un caloroso bacio sulla guancia ma poi ricorda come un flash che le squarcia la mente che la sua signorina detesta le effusioni, o più semplicemente il contatto fisico, per cui si limita a sorridere ampiamente, mettendo in mostra anche qualche dente marcio per via dell'età, e sventolare energicamente la mano mentre loro si avviano verso l'auto di Tecla.

Nel momento in cui sente la porta di casa chiudersi approfitta del momento in cui sua sorella le da le spalle per sputare la pillola nella siepe che separa il suo giardino dal marciapiede.

Quei maledetti antidepressivi l'hanno stordita abbastanza, preferisce pensare a quanto la sua esistenza sia maledettamente penosa ogni secondo della sua giornata anziché avere la mente talmente obnubilata da non riuscire a pensare a nulla.

Afferra entrambe le mani di Tecla quando lei gliele porge e anche se un po' traballante riesce ad arpionarsi alle sue spalle, così l'altra riesce senza troppi sforzi ad aiutarla a salire in macchina.

Visto da fuori, potrà sembrare semplicemente il dovere di una sorella di aiutare l'altra, ma all'interno di quel gesto c'è molto di più.

Avrebbe potuto tranquillamente andarsene dopo averle annunciato il suo matrimonio, salire sul primo volo per Berna e fuggire via da ciò a cui si è ridotta Althea. Invece no, lei invece è rimasta, per farle capire che lei c'è, e che ci sarà sempre, anche quando arriverà la fine. 

Tecla non aveva solo l'intenzione di portare di persona gli inviti delle sue nozze, l'arrivo a Monte Carlo non era solo una scusa per staccare qualche giorno dalla sua vita di tutti i giorni.

Tecla aveva bisogno, un bisogno intimo e soffocante, di vedere Althea, perché sentiva il suo malessere scavarle le ossa ogni giorno anche a centinaia di kilometri di distanza.

Tecla aveva bisogno di starle a fianco, non solo perché ha una paura tremenda di perderla, ma perché non ha mai avuto qualcuno di tanto vero accanto quanto sua sorella. 

Aveva bisogno di sentirsi dire la verità su Victor prima di sposarlo, voleva sentire chiaro e tondo cosa ne pensasse lei, anche se farà comunque di testa sua, in questo modo magari il suo te l'avevo detto farà meno male, o la abbatterà più di quando non abbia già fatto la famiglia di lui, che tra parentesi, non l'ha mai tollerata. 

Althea è sempre stato il suo pilastro, anche se in realtà il suo destino era quello di non sopravvivere, per ben due volte, Tecla l'ha sempre considerata la più forte, quella che non si arrendeva mai davanti a niente.

Adesso a volte, se la guarda, vorrebbe solo ripescare il ricordo della guerriera che era, perché sa bene, senza neppure che lei glielo abbia confessato, che ha deciso di arrendersi, che la guerra è finita e lei non ha più la forza di uscirne da vincente.

Le fa male, terribilmente male, perché forse, se lei non se ne fosse mai andata, sua sorella non avrebbe preso una decisione del genere.

Se non se ne fosse mai andata avrebbe potuto dissuaderla dal praticare quel salto proibito, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, si dice, per evitare che ciò accadesse, ma il destino è capace di abbattere corazze di titanio pur di compiersi, e che quello sia il destino di Althea nessuna della due lo ha mai accettato. 

Tecla quella mattina, anziché accostare di fronte alla clinica, imbocca l'entrata del parcheggio sotterraneo accedente alla piscina, un po' perché la curiosità di rimanere a guardare la divora, un po' perché non le va che ogni volta che varcano quelle porte a vetri ci sia subito qualcuno pronto a sottrarle sua sorella.

Il gesto compiuto in precedenza si ripete, ma più sciolto, meno automatico, un po' come una madre che raccoglie il proprio figlio dal seggiolino e in breve entrambe solcano la porta della piscina, invase da una luce brillante di cui si erano dimenticate nel parcheggio quasi totalmente buio per via delle nuvole cupe che rendono plumbeo il cielo sopra Monaco.

Le ruote della sedia di Althea slittano un po' formando a volte dei quasi impercettibili zig zag causati dagli schizzi d'acqua che impregnano le piastrelle in prossimità del bordo vasca. 

Nello spogliatoio, fortunatamente deserto, è Tecla, ancora con il suo borsone in spalla, che ha il compito di aiutarla ad infilarsi il costume e mentre le striature bianche e blu di lycra le scorrono davanti agli occhi e le mani di sua sorella si muovono lungo le sue gambe si sente patetica come non mai.

Non porta più i pantaloni dal giorno dell'incidente. Da quel giorno, pur di non lasciarsi aiutare da qualcuno con gli indumenti indossa solo abiti interi, lunghi o corti che siano, così da riuscire, anche se con difficoltà, a fare tutto da sé. Il costume però, è sempre stato la sua spina nel fianco, poiché di certo non ha scelta sul poterlo indossare oppure no.

Lega i capelli in una coda che poi arrotola in una sorta di chignon improvvisato e blaterando sottovoce qualcosa che la gemella non riesce a cogliere si infila seccata la cuffia. «Non ti azzardare a ridere» la minaccia puntandole un dito contro quando ormai il tessuto blu scuro nasconde tutti i suoi capelli ad eccezione di alcuni ciuffetti troppo corti che le ricadono lungo il collo, ma è troppo tardi, perché Tecla lo sta già facendo.

«Assomigli a Mastro Lindo». È piegata in due, costretta a tenersi stretta la pancia con una mano mentre l'altra la usa come sostegno sul ginocchio. Quando l'altra ribatte lei ha la vista offuscata dalle lacrime per quanto ha riso.

«Se arrivassi a prenderti per i capelli ti ci farei diventare io Mastro Lindo». Con un gesto del braccio Althea mima di strapparglieli così violentemente che a Tecla quasi vengono i brividi, poi finiscono per ridere insieme.

I corridoi dello spogliatoio, come quelli del piano di sopra, somigliano tanto a quelli di un ospedale, con l'unica differenza che ai lati le pareti sono coperte da file di armadietti, alcuni chiusi e apparentemente vuoti, altri spalancati con borsoni lasciati aperti e dal contenuto mezzo rovesciato per terra.

A quanto pare nessuno lì ci tiene particolarmente alla privacy, pensa Althea mentre richiude il suo a doppia mandata.

Con la coda dell'occhio, poco distante dalle panche situate in mezzo alla stanza a fare da divisione fra una parete e l'altra, intravede sbucare da un borsone arancione sul quale fa capolino il marchio McLaren un paio di calzini fucsia raffiguranti più volte la figura di Homer Simpson che divora ciambelle, a quel punto non ha più dubbi su chi possa essere il proprietario.

Non riesce neppure a lamentarsi mentalmente della scomodità e l'imbarazzo degli spogliatoi misti che viene assalita dall'ansia. Daniel è già arrivato, probabilmente è già in piscina e quasi sicuramente troverà il modo di avvicinarsi a lei.

Si ritrova a muoversi ma non di sua spontanea volontà, difatti, voltandosi di scatto si ritrova le mani affusolate di sua sorella intente a spingerla. «Che fai?» Le chiede brusca, inserendo il freno.

Il passo di Tecla si arresta di colpo per evitare di finirle addosso, poi la guarda confusa, «Credevo fossi stanca, non ti eri fermata per questo?» Aggrotta le sopracciglia.

Se c'è una cosa che non le è mai andata giù è la presunzione di sua sorella, quel suo modo di dare per scontato che la gente sappia già ciò che vuole e lo ignori di proposito, come se non si rendesse conto di aver tappato ogni spiraglio possibile da cui poter lasciar fuoriuscire anche solo il bagliore di una singola emozione.

«No, e in ogni caso non mi piace essere spinta». Sfrega compulsivamente le mani sui braccioli in attesa l'altra si allontani.

Non dovrebbe desiderarlo, dovrebbe esserle grata se le offre il suo aiuto, ma non ci riesce, non riesce a non pensare di non essere nient'altro che un peso per lei.

«Come sei acida sorellina, un po' di miele non ti farebbe male» la prende in giro pizzicandole forte la guancia com'era solita fare da bambina.

Althea odiava sentirsi piccola, e Tecla ha sempre amato vederla arrabbiata, con quel suo naso arricciato e le sopracciglia arcuate, le labbra serrate in una linea retta e i pugni stretti. Amava farla arrabbiare solo perché poi, era l'unica in grado di farla sorridere.

La gemella, dal basso della sua sedia, le dona la visuale sul suo dito medio per poi avviarsi verso l'uscita.

Tecla la saluta, fingendo di andare via, ma poi si accuccia dietro gli spalti, pregando che nessuno la veda e la scambi per una guardona. Vuole soltanto guardare sua sorella fra le braccia dei fisioterapista per qualche ora, per capire come muoversi, come non mostrarsi mai insicura o impacciata ai suoi occhi.

Ma soprattutto, deve ammettere, non sta più nella pelle poiché Althea non è l'unica ad essere sicura che Daniel andrà a parlarle.

Non ha ancora intravisto neppure l'ombra del sorriso largo e sincero di cui tanto le parla sua sorella, solo un paio d'occhi scuri, spaesati e disillusi. Del resto era stata troppo concentrata a dare una lezione a quel troglodita del suo amico per concentrarsi sul ragazzo dall'ingombrante tutore.

Althea detesta essere toccata da mani amiche, figurarsi da quelle di estranei e il fatto che quella mattina non sia Raul ad occuparsi di lei le fa venire l'orticaria.

Di certo Damien è un ottimo fisioterapista e la sua assistente Colette ci sa fare con i pazienti, ma nelle loro mani si sente terribilmente a disagio, come fosse nient'altro che una bambola in balia delle mani di due bambini.

Nonostante la regolazione termica della piscina progettata per pazienti la cui temperatura tende a scendere più in basso del normale, non appena il corpo di Althea entra in contatto con l'acqua rabbrividisce.

È in quell'esatto istante che il suo sguardo ne cattura un altro, all'angolo opposto della piscina, Daniel se ne sta seduto sul bordo a riprendere fiato, la cuffia stretta nella mano sinistra e i ricci grondandi leggermente appiccicati alla fronte e alla nuca.

Vorrebbe non arrossire di fronte alla visione del suo addome scolpito lasciato scoperto. Vorrebbe semplicemente sentirsi volubile e attraente come una qualsiasi ragazza che indossa un costume in una qualsiasi piscina, ma il sostegno di Damien e Colette non fa altro che lasciarle addosso la sensazione di essere un manichino galleggiante, freddo e rigido.

Se potesse, se solo glielo lasciassero fare, si lascerebbe affogare, fino a diventare un tutt'uno con la distesa d'acqua che la circonda, fino a diventare nient'altro che un relitto abbandonato negli abissi in attesa di essere divorato dal tempo.

Svanirebbe da sotto i loro occhi se potesse, a costo di togliersi quella sensazione di impotenza di dosso. Non desidera altro che dimenarsi, perdere il controllo, e poi affondare, lentamente, finché l'apnea non le farà da madre.

Le ore passano e sembrano interminabili, la pelle brucia, un po' per via del cloro, un po' per gli sguardi che le lancia Daniel di sottecchi mentre si lascia rimproverare da Raul per la troppa superficialità con la quale compie gli esercizi.

Adrien le annuncia che per quel giorno va bene così, che si è sforzata anche troppo, e Althea crede di non aver mai sentito niente che la facesse sentire così libera. Mentre lui la tiene in braccio per aiutarla a riemergere dalla scaletta, Colette si occupa di coprire la sua sedia con degli asciugamano, così che il costume non bagni il sedile.

Non li vede, ma sente lo sguardo di Daniel indugiare sulle braccia del fisioterapista per poi percorrere la lunghezza della sua schiena mandandola in fiamme, difatti, l'assistente le chiede se vada tutto bene poiché d'improvviso è diventata paonazza in viso.

Dopo averla congedata con la scusa dello sbalzo di temperatura fugge dando forti spinte alle ruote verso gli spogliatoi, con l'ansia che qualcuno possa entrare mentre si sfila il costume, maldestra e impacciata come il suo più grande fardello l'ha resa.

Tecla, non appena la vede sfilare di fronte agli spalti ha l'istinto di lanciarsi in suo aiuto, ma si costringe a rimanere immobile al suo posto per evitare che Daniel, vedendola in compagnia, faccia un passo indietro.

Generalmente, per pazienti come Althea ci sono sempre degli infermieri o dei collaboratori sanitari, ma lei ha sempre rifiutato l'aiuto di chiunque glielo offrisse, per cui nessuno si premura più a chiederglielo.

Vorrebbe strapparsi via il tessuto inzuppato del costume, e invece è costretta a sfilarselo mentre esso non intende abbandonare facilmente la sua pelle. Fa leva sugli avambracci per riuscire a spingere di un millimetro il bacino all'insù in modo da farlo scivolare sotto il sedere.

Le viene da piangere quando è costretta a sollevare un ginocchio alla volta con l'aiuto delle mani per riuscire a sfilarselo completamente.

Getta la cuffia per terra, frustrata, nervosa, fregandosene per una volta dei germi depositati in masse sul pavimento.

Fa giusto in tempo a coprirsi con il grande asciugamano bianco lavato e stirato da Nari che qualcuno irrompe all'interno della stanza.

Il caso vuole, che quel qualcuno porti sulla coscia un imponente tatuaggio raffigurante un veliero che naviga in acque che si infrangono sul globo, sul quale troneggia, racchiusa in una pergamena, la scritta Only Memories tagliata da una riga rossa.

Althea imparerebbe con piacere a memoria tutti i suoi tatuaggi, a percorrerne i margini con le dita, a comprendere il significato intrinseco in ognuno di essi, ma in quel momento è troppo occupata a non lasciare che l'asciugamano scopra centimetri segreti della sua pelle.

«Oh mio dio, scusa, perdonami» blatera prima di darle spalle.

È costretta ad ingoiare a vuoto mentre preme il panno contro il suo petto, non solo per il disagio di quella situazione, ma perché non riesce a distogliere lo sguardo dal suo corpo ancora mezzo nudo. Si sente una ragazzina alle prime armi con la sua cotte del liceo, non una donna che farebbe meglio a darsi una mossa a rivestirsi.

Si infila l'intimo di fretta affrontando varie peripezie, in particolare nel far scorrere gli slip sulla pelle ancora umida. Indossa il vestito alla rinfusa, senza neppure prestare attenzione al verso in cui lo fa.

Si ritrova ad avvampare, questa volta per lo sforzo. I capelli appiccicaticci per via dell'acqua, l'umidità e il sudore, il fiato corto e l'espressione assente di chi sente di non avere a disposizione abbastanza ossigeno.

«Puoi girarti» annaspa, ma lui attende ancora qualche secondo prima di ruotare su sé stesso utilizzando la gamba buona, issando l'altra reggendosi sulle stampelle. Quella posizione le ricorda quella dei fenicotteri, vorrebbe ridere di quell'immagine creatasi nella sua mente, ma non esisterebbe momento più sbagliato per farlo.

«Mi dispiace, non credevo ci fosse qualcuno» si scusa ancora, senza però neanche l'ombra del precedente imbarazzo.

Qualcuno, pochi giorni e non è più Althea, è già qualcuno.

Se è bastato così poco, a renderla nient'altro che una figura indistinta in mezzo al caos delle altre, quanto ci vorrà per rendersi conto che non potrà mai avere ciò che desidera con la metà di una donna?

Corre forse, a porsi questi interrogativi, ma meno domande ci si fa più le cose accadono, scorrono come pellicola e ci sembra di assistere ad un film, mentre quella che va avanti è la nostra vita e noi lasciamo che le tutto scivoli sulla nostra pelle, trovandoci poi spaesati, presi alla sprovvista, di fronte alle conseguenze.

Althea ha lasciato che la sua fame di vittoria anziché scivolarle addosso sgorgasse dentro di lei, come sangue nelle vene, e quella su cui siede adesso, è la più grave delle conseguenze, per cui farà meglio, se proprio deve, a perdercisi con i piedi di piombo, in quell'abisso che la osserva da poco lontano.

Se lo facesse, si renderebbe conto di quanto poco basti per rendere tutti i suoi sforzi vani, il suo tentativo di non legarsi a nessuno, perché potrà anche tentare di spezzarlo per tutta la vita, ma sin dal primo sguardo, un pezzo di Daniel si è annodato stretto a lei, e non intende mollare la presa.

È fragile, quel filo, tanto che con uno strattone potrebbe strapparsi, oppure unirli ancora di più. È imprevedibile, quel filo, come Daniel, come le direzioni del cuore di Althea. È l'ultima speranza, quel filo.

Senza fornirgli alcuna risposta Althea si avvia verso la porta con il borsone chiuso sulle gambe mentre gli altri pazienti cominciano a popolare lo spogliatoio.

Come se andasse alla ricerca della cosa più ovvia e banale da chiedere, dalle labbra di Daniel sfugge un: «Stai andando via?»

Le labbra le si riducono ad una linea retta, poi piega leggermente gli angoli all'insù, «Già» risponde con un'alzata di sopracciglia.

La raggiunge senza troppi intoppi dei suoi, sembra aver cominciato a prendere dimestichezza con le stampelle. Le apre la porta, come un vero galantuomo, ma l'unica cosa che ottiene in cambio è un'occhiataccia da parte dell'ex ginnasta. «Se non hai fretta, posso rubarti cinque minuti?» Chiede con quella sua espressione vispa da bambino che tenta di incantare la propria mamma per avere più caramelle.

Si fermano entrambi, lei poco più avanti, quasi di fronte al bordo vasca, poi lui prosegue captando il segnale che lei intende mandargli senza osare dire neppure una parola. Fai in fretta.

Non ha ancora indossato il tutore, per cui si spinge quasi al margine, sedendosi lì, lasciando penzolare le gambe con i polpacci a mollo nell'acqua.

Non la guarda, ma la vede comunque. Alle sue spalle, a torturarsi le mani tutte spaccate, a mordersi l'interno della guancia e tracciare il suo profilo circospetta. È metodica, precisa, non ha ancora avuto modo di scoprirlo ma probabilmente anche abitudinaria, e Daniel muore dalla voglia di trascinarla con sé fuori dagli schemi.

Se solo glielo permettesse.

«Scusami. Ho rimuginato per giorni su quale potesse essere il motivo del tuo silenzio e davvero, me ne rendo conto, sono stato un cretino». China il capo e il suo sguardo si disperde nelle leggere onde che il movimento dei suoi piedi genera nell'acqua. «Sappi che non me ne frega niente se le tue gambe funzionano oppure no. A me interessa la ragazza che ho conosciuto qui i primi giorni, non la sua sedia a rotelle» e Althea teme che quelle siano le parole più belle che qualcuno le abbia mai rivolto, teme di non resistere, di essere incapace a dire un altro no. «Vorrei non averci sperato nemmeno per un secondo, per non farti male, ma se l'ho fatto è perché ho pensato al tuo bene, non al mio».

Non se ne accorge nemmeno, ma con quelle parole ha spazzato via dal suo stomaco un peso così grande che ha persino smesso di scorticare la bordatura antiurto della piscina. Ma passano i secondi, e la risposta di Althea non arriva.

Solo perché non attende altro che il momento in cui si volterà a guardarla. E lo fa, Daniel lo fa, come se le leggesse nel pensiero, come se sapesse che in quel momento lei non desidera altro.

Perché solo agli occhi di quel bizzarro pilota australiano riesce a sentirsi maledettamente bella. Tutta, anche i fantasmi dispersi nella ruggine delle sue gambe tremano quando lui la guarda.

Nessuno, neppure quando era ancora una ginnasta, aveva posato i suoi occhi su di lei nel modo in cui lo fa lui. Dal basso, sotto le sopracciglia, spogliando la sua anima di ogni corazza, facendole sentire il ruggito dei leoni alla bocca dello stomaco.

«Sei così focalizzato sul lato positivo delle cose che riesci ad ingannare te stesso fino a non riconoscermi pur di annegare nella speranza di vedermi in piedi un giorno. Ora, ti pongo una domanda». Le sue dita sanguinano già, per quanto le ha tormentate e Daniel è ipnotizzato dal rosso scarlatto che scorre indisturbato macchiando i braccioli della sedia. «Credi sul serio di riuscire a sopportarmi?» Forse è il distacco con cui pronuncia quelle parole, la serietà, le iridi perse nel vuoto, ma un meccanismo si riaccende di colpo in Daniel, e senza un motivo preciso scoppia a ridere.

Si fa più vivida, quella costante contrapposizione fra la malinconia di Althea e la sua allegria. Due forze completamentari che anziché sommarsi si sottraggono.

Il moro, con un sorriso ebete stampato in faccia si massaggia le palpebre abbassate per poi lasciar ricadere mollemente la mano sulla fantasia di conchiglie del suo costume celeste. «Ammetto di non esserne sicuro, forse dovresti darmi un periodo di prova».

E quanto durerà quella prova, prima che lei se ne vada, prima che lui rimanga? Si chiede Althea, ma nel frattempo sorride, perché Daniel ha la capacità per lei letale, di scacciare via le paranoie, i brutti pensieri, e soprattutto, di archiviare la logica.

Ridono, fondamentalmente senza saperne neppure il motivo. Si guardano e ridono, come due bambini a cui la vita riserva ancora tutte le sue sorprese, non come due adulti, che le hanno prese di petto, di pancia, di cuore, tutte quelle batoste, come un treno in corsa sul binario sbagliato.

Per Tecla è arrivato il momento di defilarsi, indietreggiare dagli spalti e fingere di star aspettando Althea nel parcheggio. È il momento di lasciarli da soli, quella volta sul serio, perché quel loro modo di essere sbagliati eppure così giusti l'uno per l'altra è troppo intimo, per credere che quello che Victor prova per lei sia vero amore.

Non prova gelosia, non potrebbe mai, ma le sembra di poter sentire le ossa della sua cassa toracica incrinarsi fino a sfondarle il cuore. Il modo le voci dei due si fondono mentre ridono, in quella loro maniera fradicia di delusioni, intinta nella sofferenza, ma talmente vera, non può che farle pensare che è vero che l'amore si manifesta in modi diversi, ma c'è più amore nel modo in cui Daniel incespica nelle parole quando parla ad Althea che in mille dei baci che lei e Victor si sono mai dati.

Se ne sta pigramente con la schiena spalmata sulla fiancata della sua berlina - riesumata dal garage del loro nonno materno quando ancora era tanto brontolona da volerla mandare allo sfasciacarrozze perché credeva non le si addicesse - quando i due varcano la soglia della porta.

Li saluta sventolando la mano vicino al viso per poi incastrarla nuovamente sotto l'altro braccio, conserte, per tenere al sicuro il sangue della sensazione solo vaga di un amore che le scorre dentro.

Althea sembra quasi colta di sorpresa, quasi non si aspettasse di trovarla già lì, come se l'avesse colta in flagranza di chissà quale reato. Perché dopo l'incidente, per Althea provare anche solo un accenno di allegria significherebbe tornare indietro sui suoi passi, quelli che le mancano da otto mesi a quella parte.

Si congeda sbrigativa dal ragazzo, nuovamente schiva e distaccata, come se quanto accaduto poco prima fosse stato puramente frutto dell'immaginazione del pilota.

Lancia un'occhiata eloquente alla sorella che senza farselo ripetere due volte, anzi, a dire il vero nemmeno una, la aiuta a sistemarsi sul sedile della berlina.

Prima di prendere posto anche lei sul sedile del guidatore su affretta a richiamare l'attenzione dell'australiano che intento ad uscire sulle proprie stampelle dal parcheggio arresta il passo confuso.

Le si secca la bocca quando si rende conto che è arrivato il momento di cercare le parole adatte, ma come al solito, lascia che l'istinto corra a briga sciolta impossessandosi della sua lingua, «Ascolta, vi ho visti dentro, e so che ciò che sto per dirti probabilmente ti sembrerà assurdo, ma davvero, dipende tutto da te». Batte il dorso della mano sinistra sul palmo di quella destra, un movimento tipico di Victor che lei ha pian piano assorbito assistendo come tirocinante alle sue arringhe in tribunale.

Lo sguardo smarrito di Daniel è il campanello d'allarme che la avverte di non aver propriamente centrato l'obbiettivo, per cui tenta di spiegarsi il più fluentemente possibile. «Dalle un motivo, ne basta uno solo, e lei rimarrà. Sono sua sorella e la conosco meglio di chiunque altro, ma ho commesso troppi errori e adesso il tempo per rimediare è troppo poco. Ti prego, non andartene anche tu» è una richiesta disperata e il ragazzo, pur capendoci ben poco, lo apprende immediatamente.

«Tutto ciò che ti chiedo, Daniel, è di darle un motivo per cui valga ancora la pena vivere».

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