VI. Shadow

«Come puoi rifiutarti di venire al mio matrimonio?!» la sua voce echeggia in uno stridio che sembra avere l'intenzione di infrangere i vetri delle finestre e lacerare i nervi di Althea.

È costretta a massaggiarsi una tempia, la notte insonne da cui l'arrivo senza preavviso della sorella l'ha trascinata fuori l'ha stremata. Crede che da un momento all'altro potrebbe stramazzare al suolo come cocci di un vaso che va in frantumi.

«Se ti sposi con quello preferisco di gran lunga non assistere» pronuncia quelle parole con astio mentre squadra la figura di Tecla che le si erge davanti.

Adesso non ha più bisogno dello specchio per avere paura. Lei è il suo riflesso vivente, spaventosamente uguale a lei, ma con un paio di gambe sane e forti che la tengono in piedi, fasciate da un pantalone nero a sigaretta, che, non fa fatica ad ammettere, le dona particolarmente.

«Puoi per favore smettere di fare la bambina egoista per una volta ed essere felice perché tua sorella si sposa?». Cammina avanti e indietro per la stanza, tracciando più volte il perimetro del tavolino al centro del salotto.

Nari, da qualche parte oltre il grande arco le sta ascoltando, nonostante entrambe l'abbiano pregata di lasciarle sole. È quella la sua unica pecca, essere pettegola ai limiti della tolleranza, ma se una di loro la stanasse userebbe la scusa di preoccuparsi che la sua signorina non si agiti troppo.

«Dovevamo farlo insieme». Althea ha lo sguardo rivolto al pavimento, degli occhi vacui non da alcuna visione a Tecla. Il suo tono è assente, come se tentasse di distaccarsi dal suo dolore.

Dovrebbe essere felice per lei, avrebbe dovuto saltarle al collo - si fa per dire - e urlare di gioia, battere le mani e riempire la sorella di domande a raffica sui preparativi. Invece non riesce a pensare ad altro che a quella promessa, fatta dietro agli spalti prima di un'esibizione.

Faremo sempre tutto insieme. Io con te e tu con me. Per sempre.

Poi, quindici anni dopo, Tecla era andata via. Senza di lei.

Arresta il passo di colpo e la guarda incredula, come se si trovasse davvero di fronte ad una bambina capricciosa. «Andiamo Althea, era un gioco, avevamo cinque anni quando l'abbiamo promesso, e poi...» non prosegue, ingoiando a vuoto le parole come bile.

«E poi io sono così, quindi inutile perdere tempo ad aspettare che qualche povero mal capitato decida di farmi da badante per tutta la vita, non è vero?»

Althea sa di star facendo una scenata inutile, ne è consapevole, ma qualcosa in lei la spinge a non tenere la bocca chiusa, forse l'implacabile bisogno di tenere la sorella ancora legata a sé.

Tecla ama Althea incondizionatamente, e l'amore di Althea per Tecla è qualcosa che va oltre l'umano. Non sono due sorelle normali, neppure due gemelle normali, sono la stessa persona divisa in due e come tale necessitano che le loro parti combacino alla perfezione.

La lontananza ha lacerato il margine spigoloso e seghettato che fungeva da incastro, e la paura di poter rimanere separate, distinte come le due persone diverse che i medici hanno separato, le assale come un carnefice spietato.

«Stai cercando di gettarmi addosso colpe che non ho, solo perché Victor non ti piace». La gemella, dall'altro capo della stanza le punta un dito contro arcuando le sopracciglia, saccente.

Althea si ritrova ad emettere un sospiro pesante, come se parlare le costasse uno sforzo immane. Sa com'è fatta sua sorella, dei suoi amori sempre tremendamente sbagliati e della sua catastrofica sfortuna con gli uomini. Un'altra cosa che le accomuna, con l'unica differenza che Althea si tiene sempre alla larga da loro, lo faceva anche prima di finire su quella trappola mortale a quattro ruote, la sua gemella invece sembra essere un magnete per casi disperati.

Quando a diciannove anni aveva conosciuto Victor le sembrava di vivere un sogno, era il ragazzo perfetto, tutto d'un pezzo, educato, con una forte integrità morale e il desiderio di farsi una famiglia. Non con lei, però.

Lo aveva capito subito, Althea, che per lui non era altro che un'avventura scaturita dalla passione che inizialmente si era creata fra i due. Ancora non si spiega come tutto ciò sia potuto andare avanti per quasi cinque anni, forse perché prima o poi anche ciò che non è amore sfocia in abitudine.

«Tecla, Victor è un bravo ragazzo, ma non ti ama, sei solo il suo porto sicuro. Non ti da attenzioni, per lui esiste solo il suo stupido lavoro e tu hai deciso di condannarti a vita in una casa che ti fa schifo, in un paese tristissimo e lontana chilometri da chi ti vuole bene veramente, solo perché hai paura che se lo lasci rimarrai da sola».

Gli occhi cangianti, identici ai suoi, si fanno cupi dallo sconforto, poi prende posto sul grande divano in prossimità del quale lo sguardo dell'altra si impossessa di ogni suo movimento. «Grazie tante, hai sempre in serbo parole di incoraggiamento per me». Alza gli occhi al cielo, poi forse consapevole che Althea non abbia del tutto torto si prende la testa fra le mani, sospirando sommessante.

Sente il cigolio delle ruote carezzare il parquet e poi il calore di una mano che stringe la sua. «È la verità, e lo sai». Le bacia la tempia e poi le sposta una ciocca di capelli dietro l'orecchio, così da permetterle di guardarla.

«Io lo amo» decreta vacillante, tentando di non farsi sentire mentre tira sù col naso.

Althea ha sempre pensato che fosse Tecla la più forte tra le due, perché non ha mai temuto di mostrare le proprie fragilità. È una a cui piacciono da morire le emozioni, e non è capace di trattenerne neppure mezza.

A Tecla piace piangere forte, a singhiozzi, e ridere sguaiatamente, le piace urlare dalla gioia o dall'emozione. Le piace mostrarsi umana, per quello che è, al cento uno per cento sé stessa.

Althea dal suo canto ha sempre custodito tutto gelosamente, nel suo scrigno inespugnabile, a doppia mandata e dietro una maschera fatta di occhiate di fuoco e musi duri. Ha sempre avuto un'indicibile paura di mostrare al mondo la sua felicità, perché l'ultima volta che l'ha fatto le è stata strappata via di prepotenza, lasciando che la sua vita si capovolgesse totalmente.

Tecla era stata fino ad allora l'unica persona capace di farla ridere forte, di pancia, di cuore, fino ad essere tutta sorriso. E le era piaciuto da morire, tanto da desiderare che quell'evento potesse ripetersi giorno dopo giorno all'infinito. Tutto questo, prima dell'incidente, e prima di Daniel.

«È ciò che credi, ma non hai neanche avuto il tempo di capirlo che ti sei trasferita in Svizzera».

Non si era data tempo, Tecla, aveva precluso a sé stessa qualsiasi altra chance di incorrere in un amore autentico, uno di quelli che aveva sempre sognato. Un anno dopo il fidanzamento con Victor aveva preso la decisione di trasferirsi insieme a lui, in Svizzera, lasciando tutto, compresa la ginnastica.

Quando glielo aveva detto il cuore di Althea si era congelato, ridotto ad una sottile lastra di ghiaccio, a occhio nudo dura e impenetrabile ma che con un soffio di vento sarebbe venuta giù, infrangendosi in mille schegge.

Condividevano la loro più grande passione da quando non arrivavano neppure alla maniglia della porta, e lei voleva mollare tutto, come se tutti gli sforzi, i sacrifici, il sangue, il sudore, le lacrime versate in quello sport fossero stati vani, privi di senso.

Lì Althea aveva sperimentato per la prima volta la sensazione di cadere nel vuoto e la consapevolezza che non ci sarebbero più state un paio di braccia a prenderla prima di raggiungere il fondo.

«Stiamo insieme da quattro anni», si giustifica, come se il tempo fosse in grado di dar vita ad un amore fondato sul nulla. A Tecla, purtroppo, piace anche tenere gli occhi chiusi e lasciarsi surclassare dalla vita come la rena su cui si scaglia uno tsunami.

«E quante volte sei stata davvero felice in questi quattro anni? Quante volte hai sorriso tanto forte che le guance ti hanno fatto male quando eri con lui? Quante volte ti ha riso il cuore?». Non se le spiega quelle parole uscite proprio dalla sua bocca, o meglio, si sforza di ignorarne la provenienza.

Tenta di archiviare i racconti di stelle della notte passata, i respiri mischiati, gli sguardi complici. Rimanere intrappolato dentro di te. Ma è impossibile, le sono appiccicati addosso.

Forse, si dice, è perché non usciva con qualcuno da troppo tempo. Forse perché fra la crepa che separa la sua vita precedente da quella attuale non aveva mai trovato spazio per un'altra persona che non fosse Tecla.

Oppure, ma non vorrebbe che questo pensiero la sfiorasse neppure minimamente, non è il suo essere un uomo a trascinarla in una dimensione diametralmente opposta a quella in cui si trova adesso, ma il suo essere Daniel.

Quella capacità di rimanere tatuato sotto pelle, di incastonarsi nella vita della gente come se niente fosse. Che poi non si sappia mai come possa andare a finire è un dettaglio, lui intanto ci piomba dentro, poi magari, ci resta anche.

E a Tecla basta uno sguardo superficiale per capire che una minuscola parte della sua gemella è rifiorita, rinata. E magari è per quello che mette totalmente da parte il loro battibecco sul suo matrimonio, perché neanche se lo avesse visto con i suoi occhi sarebbe mai riuscita a credere che qualcosa si sarebbe riacceso in quelli di Althea.

Il cuore comincia a pompare più sangue, batte più forte, perché si aggrappa a ogni speranza anche se ha una paura tremenda che quel filo così fragile si spezzi e la lasci cadere nel baratro, per l'ennesima volta. Tutto ciò che riesce a pensare in quel momento è che magari è la volta buona, la volta in cui sua sorella cambierà idea.

Tutto troppo facile, le rimbomba in testa ma zittisce ogni forma di razionalità rimasta dentro di sé per bearsi di quel fugace istante di spaventosa serenità.

Allora quasi si stende a pancia in giù sul divano puntellandosi sui gomiti e sostenendo il viso con le mani per poterle essere più vicina, come una bambina in brodo di giuggiole.

«Tu non me la racconti giusta!» Si sporge per pizzicarle una guancia beccandosi di rimando un'occhiata truce. «Non è che mi nascondi qualcosa?» La punzecchia maliziosa.

L'altra è costretta a chinare il capo per impedire di darle piena visuale sul mezzo sorriso che non riesce a reprimere, poi si ricompone fingendosi scocciata dalla curiosità della gemella. «Sei piombata in casa mia senza neanche bussare sventolando allegramente gli inviti del tuo matrimonio. Quando credi che abbia trovato il tempo per raccontarti qualcosa?»

Di fronte a lei Tecla batte le mani entusiasta ignorando il tentativo di Althea di ripescare il discorso precedente. «Perciò c'è qualcosa da raccontare?» La colpisce con una raffica di non troppo delicati pugnetti sulla spalla.

«Forse» mugola recitando la parte dell'indifferente annegando fra le sollecitazioni della febbricitante Tecla.

Le racconta tutto, per filo e per segno, perché tanto sa che in un modo o nell'altro avrebbe capito lo stesso, sarebbe come tentare di nascondere qualcosa a sé stessi, al proprio riflesso nello specchio, un tentativo vano e senza speranze di riuscita.

Le racconta della prima volta in cui ha visto Daniel e di quanto a primo impatto le sia sembrato terribilmente buffo, del suo modo di storpiarle il nome in Alfea, della volta in cui in clinica si era svegliata con la sensazione di averlo accanto ma si era convinta di averlo solo sognato, del loro caffè, delle risate, dei calzini di Daniel, e di Max.

A quel punto Tecla si alza in piedi, su tutte le furie, sbandierando insulti ai quattro venti, rossa in viso e con quel suo eccedente gesticolare tipico di chi vanta nazionalità italiana. Althea scuote la testa esasperata dalle reazioni esagerate dell'altra, anche un po' divertita dalla sua eccessiva iperprotettività. Attende pazientemente fin quando Tecla sembra essersi calmata dopo aver ripreso posto di fianco a lei.

L'arrivo di Nari munita di un ampio vassoio su cui troneggiano una teiera fumante e due tazze segna una linea di confine che sembra azzerare la rabbia di Tecla che dopo essersi scottata la lingua con il primo sorso la tira fuori lasciandola a penzoloni come un cane con la testa fuori dal finestrino e prende a sventolarsela con le mani facendo ridere sotto i baffi persino la domestica.

Nonostante il caldo portato dal lento terminare della primavera, la bevanda è un condimento piacevole per il proseguimento del racconto che riprende non appena lo chignon improvvisato di Nari scompare oltre il grande arco e i suoi passi si fanno man mano più lontani.

Le due ridono della camicia di Daniel dopo l'accurata descrizione di Althea, delle imprecazioni della gente mentre scavalcavano la fila. Omette il dettaglio delle ragazze sugli sgabelli, non vuole che Tecla si rattristi, che le offra uno sguardo compassionevole, salta direttamente all'ascensore, al terrazzo, e alla famiglia di Daniel.

Un po' si imbarazza a dire che l'unica cosa memorabile di cui sia riuscita a parlare è proprio lei, Tecla, l'unica cosa al mondo che la tiene ancora in vita. La diretta interessata mette un piccolo broncio di commozione spingendo in fuori il labbro inferiore, i suoi occhi luccicano e si mostra ancora più coinvolta di quanto fosse all'inizio.

In fine il telescopio, la bambina e la costellazione di Orione, e poi, l'altra prospettiva, ciò che l'ha fatta fuggire.

A quel punto la sua esatta metà si acciglia, la guarda un po' come se volesse farle un rimprovero, «Non ha del tutto torto».

Perché sa bene che ad Althea cambiare idea non è mai piaciuto, che sua sorella ha sempre avuto la testa più dura del cemento armato, ma il suo cuore candido non ha mai perso la voglia di sperare che un giorno lei potesse ricredersi.

Le prospettive altrui Althea le ha sempre snobbate, aveva sempre ragione lei, anche da bambine. Odia perdere tempo, e uscire dalle proprie vedute manderebbe in deficit quella che è la sua deprimente routine da otto mesi a quella parte.

Ma la verità è che Althea ha paura. Ha paura di poter cambiare idea, di riuscire a vedere il mondo sottosopra come lo vede Daniel, perché passare tutta la vita a dipendere da qualcun altro, ad aver bisogno di qualcuno che le dia un motivo per respirare, la spaventa in maniera inaudita.

Passare tutta la vita su una sedia a rotelle non era nei suoi piani, e Althea odia tutto ciò che le sconvolge i piani, compresa quella maledetta volta in cui ha preso posto ad una seduta di distanza dall'audace australiano.

Tecla la prenderebbe a testate quando fa così, quando si perde nei suoi pensieri e la lascia lì, come un baccalà, ad aspettare che dia un qualche segno di vita prima di risponderle, il più delle volte male, il più delle volte sviando un discorso che non le va a genio.

E così fa, anche stavolta. «Andiamo, altrimenti arrivo in ritardo», non le da il tempo di replicare che sgattaiola via, spingendo a forza le ruote che cigolano sul parquet, un rumore a cui teme immensamente di abituarsi.

Dal canto suo, il suo doppione ancora sdravaccato sul divano vorrebbe ricordarle che manca più di un'ora al suo turno di fisioterapia - o almeno così ricorda dall'ultima volta che è tornata a trovarla - , ma sa com'è fatta sua sorella, perciò recupera la borsa e aspetta all'ingresso fin quando l'altra non si degna di palesarsi.

«È mia quella collana» la rimprovera una volta salite in macchina non appena le vede l'ametista ad impreziosirle il collo. L'altra fa spallucce poi la colpisce scherzosamente con un pugnetto sul braccio.

È l'unico dettaglio al quale Daniel abbia regalato un silenzio intimo, senza bisogno di chiedere nulla, di mettere in ballo la sua curiosità. L'unica cosa, oltre al suo incidente, a cui abbia prestato una cura tacita, quasi avesse paura che dandole forma di parole avrebbe potuto dissolversi.

D'altra parte, Tecla ha preso un pezzo di lei e lo ha portato via con sé, perciò le spetta di diritto averne uno suo per poter sopravvivere.

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«Lo farai». Gli lancia un'occhiata eloquente nello specchietto sentendolo sbuffare sonoramente mentre imbocca lo svincolo che conduce al quartiere nel quale a fare da padrone non sono solamente le abitazioni sfarzose di chi non sa che farsene dei propri soldi, ma anche la clinica nella quale ormai Daniel presenzia tutti i giorni da quasi una settimana a quella parte.

Il biondo guarda dritto davanti a sé ma la sua mascella è rilassata, un accenno di sorriso gli solca il viso e le braccia tengono pigramente il volante. Max è sereno, ed è una cosa a cui Daniel non era più abituato da tempo. «Oh no che non lo farò, scordatelo. Sono pessimo in queste cose» scuote la testa, sbuffando un suono simile ad una risata nervosa.

Troppo bello per essere vero, pensa Daniel riferendosi a quel misero e fugace istante di pace svanito all'interno dell'abitacolo.

«Dovevi pensarci prima» lo rimprovera ma senza che l'altro si scomponga più di tanto. Cade sempre in piedi, Max, e anche quella volta Daniel è sicuro che riuscirà a defilarsi prima di poter anche solo immaginare di avere torto.

D'altronde è stato il moro ad insegnargli come fuggire dalle responsabilità, come scrollarsi di dosso il peso di ciò che la gente desidera per lui. Se Max è così, ad oggi, la colpa e il merito di Daniel sono quasi equamente bilanciati.

«Non è colpa mia se la tua amica è suscettibile e se la prende per una battuta del cazzo, che modestamente mi è anche venuta sul momento» scrolla le spalle mostrandosi anche piuttosto compiaciuto del suo operato.

Quella è una di quelle classiche giornate in cui Max meriterebbe un pugno dritto sul setto nasale, cosa che generalmente si verifica all'incirca sei giorni alla settimana, solo perché di Domenica è di rito chiudersi nel suo silenzio ermetico per mantenere la concentrazione, dando poi sfogo a quel che resta delle sue emozioni a seconda delle prestazioni in gara.

L'australiano prende un respiro profondo, talmente profondo che l'altro per un momento ipotizza di essere risultato fin troppo irritante persino per lui.

«Credi che se la tua carriera finisse all'improvviso e rimanessi bloccato su una sedia a rotelle saresti meno suscettibile?». Distoglie lo sguardo dalla strada, distoglie lo sguardo da qualsiasi cosa, si perde totalmente dentro sé stesso.

Ci vorrà un po' per ritrovarsi, pensa, mentre la brezza fresca gli accarezza la pelle dorata dai finestrini abbassati della Aston Martin che sfreccia dipingendo per frazioni di secondo le strade di Monaco con il suo blu notte.

«Credo che mi ammazzerei, Dan, seduta stante» schiocca la lingua contro il palato, poi si schiarisce la voce improvvisamente più cupa, rauca, come se gli morisse in gola al solo pensiero di finire come Althea.

Aggrotta le sopracciglia, abbassa le palpebre e inclina leggermente il capo per un istante, sperando che il moro non se ne accorga.

Lo farebbe davvero, Daniel ne è sicuro, e se lo trascinerebbe dietro. Perché per quanto spaventosamente meravigliosa anche se piena di imprevisti possa essere la vita, Daniel senza Max non riuscirebbe più ad immaginarla.

«Sei uno strazio» si lamenta con tono cantilenante, forse per seppellire quel pensiero orribile che gli balena in testa.

Probabilmente nessuno avrebbe mai puntato una lira su loro due. Così diversi, così complicati in modi diametralmente opposti, fra i grovigli di Max e la capacità di Daniel di districarsi al loro interno, come fosse balsamo.

Max era sicuro che quella mattina Daniel avrebbe bussato alla sua porta, proprio di fronte alla sua, al quinto piano di un palazzo in cui si erano trovati vicini di casa per pura casualità, esattamente due anni dopo l'addio di Daniel alla RedBull. Perché per quanto orribilmente possa essersi comportato con quella ragazza, per quanto segretamente arrabbiato potesse essere il suo migliore amico, Daniel è una parte di Max.

Aveva sorriso quella mattina, ma solo una volta giratosi di spalle per recuperare le chiavi dell'auto. La sera prima, quando Daniel aveva chiamato Fabio per farsi portare da lei aveva provato la stessa sensazione di quanto ti strappano un arto senza pietà.

Se l'era presa con suo padre, ma d'altronde il primo ad essere arrivato con l'intento di litigare era proprio Jos, motivo per cui quella mattina indossa un paio di occhiali da sole troppo grandi per il suo volto squadrato, con lo scopo di coprire la chiazza gonfia e violacea che si ritrova al posto dell'occhio.

Daniel se n'è accorto, e Max lo sa. Nessuno dei due apre bocca in proposito, perché per nessuno dei due sono necessarie parole per sapere che in mezzo alla tormenta il braccio dell'altro sarà sempre teso per trascinarlo fuori, anche a forza se necessario.

Althea e Tecla sono un corpo, una mente e un cuore diviso in due. Condividono l'anima come fosse l'ultima fetta di torta rimasta. Daniel e Max sono la prova che non è necessario avere stesso sangue per essere la stessa cosa.

«Lo è anche farti da autista per dodici ore al giorno ma non mi lamento come fai tu».

Le mani di Max, le cui vene spiccano sulle nocche mollemente abbandonate sul volante sembrano tracciare gli anelli di un vortice, sempre più stretti fino a risucchiare nell'abisso qualsiasi cosa abbiano sotto tiro. Daniel ne è ipnotizzato, non può fare a meno di pensare a quanto gli manchi compiere quei movimenti, essere l'origine di quell'incessante mulinello. Come l'ossigeno in apnea.

«Tu ti lamenti in continuazione, Max, di qualsiasi cosa». Quando l'altro, sprovvisto di una risposta che non sfiori i limiti della censura, emette un grugnito seccato inforcando meglio gli occhiali spingendoli sul naso aguzzo con un dito premuto sul ponte, Daniel scoppia a ridere di gusto.

La sua risata è cristallina, rumorosa e si infrange sui vetri dell'abitacolo spargendosi ovunque, a tal punto da riflettere come un fascio di luce e arrivare a contagiare anche Max. Quella del biondo, invece, sembra nascosta da troppo tempo, fuoriesce quasi graffiante, come se non ricordasse più come si fa.

Inevitabilmente i pensieri di Daniel corrono da Althea, ai suoi occhi vacui, la sua espressione cupa, e al loro primo e ultimo caffè nel quale si era tuffato il suono lievemente incrinato della sua risata. Se Max si scusasse con lei, e se lei riuscisse a provare a tollerarlo, si renderebbero conto di quanto sono simili, e quel pensiero tormenta l'australiano in maniera inspiegabile, alla follia.

La verità è che ha paura. Sì, anche Daniel Ricciardo, colui che mentre il chirurgo gli impiantava la fine della sua carriera in una gamba, intontito dall'anestesia epidurale raccontava agli specializzandi attorno al tavolo operatorio la barzelletta dell'uomo che entra in un caffè, ha paura, e ne ha anche tanta.

E' un po' come trovarsi di fronte al terzo principio della dinamica. Se un corpo esercita una forza su un altro corpo, anche il secondo esercita una forza sul primo, e le due forze sono uguali in modulo, hanno stessa direzione, ma verso opposto. Althea e Max sono due corpi capaci di esercitare una forza tale l'uno sull'altro che Daniel non riesce neppure ad immaginare dove, e soprattutto come andrebbe a finire se si trovasse in mezzo a loro. Per capirlo, gli è bastato il loro primo incontro.

La sua risata si spegne lentamente, fino a sfociare solo in un ricordo. La nuca ricoperta di ricci incolti aderisce al poggiatesta e quando si rende conto di essere arrivato a destinazione, qualcosa su cui i suoi occhi si piantano gli smorza il fiato come se gli avessero strappato via i polmoni.

Una figura femminile che riconoscerebbe fra mille. Non fa caso al vestiario insolito unicamente sui toni del nero, ai capelli tirati in una coda alta o all'espressione particolarmente serena marcata dal trucco pesante mentre armeggia con il telefono cellulare saldo in una mano mentre con l'altra regge un bicchierino di caffè. L'unica cosa che guarda davvero sono le sue gambe, perfettamente erette, sane e forti, crede di essere di fronte ad un miraggio, ed in un certo senso, non si sbaglia.

È in piedi, Althea è in piedi.

Vorrebbe chiedersi come sia possibile, se sia solo il frutto della sua immaginazione o se si sia svegliato davvero quella mattina. Che si tratti solamente di un sogno? Ha la conferma del contrario quando si sente scuotere la spalla da Max, il cui suono delle parole è ovattato dalla confusione nella sua mente.

«Max?» Si decide ad aprire bocca, il tono della voce sembra quello di chi ha appena visto un fantasma sbucargli davanti. Il diretto interessato risponde con un gemito insofferente. «Quante probabilità ci sono che un paraplegico guarisca nell'arco di, diciamo dieci ore?» Chiede e sente già l'olandese soffocare una risata come se gli andasse di traverso.

«Dan, ti è morto il maestro di scienze quando andavi alle elementari?» Fa sarcastico mentre si massaggia le palpebre con le dita alzando di poco gli occhiali da sole, è a quel punto che anche lui intercetta l'oggetto dell'attenzione di Daniel, ed è costretto a battere le ciglia più volte prima di riuscire a credere ai suoi occhi.

Sguscia come un rettile fuori dalla Aston Martin e in un battibaleno recupera le stampelle dal cofano per porgerle a Daniel già con la testa che fa capolino dallo sportello dalla parte del passeggero.

Entrambi si dirigono verso la ragazza apparentemente ignara del loro arrivo. Daniel come se stesse per perdere il treno più importante della sua vita, arrancando con le stampelle e il fiato corto. Max con le mani infilate lungo le tasche, le spalle leggermente ricurve e l'indifferenza a cui, non appena Daniel si sarà ripreso dallo shock, verrà conferito il premio per la peggiore interpretazione fra tutti i sentimenti che abbia mai recitato.

«Althea?» Fuoriesce in un sussurro dalle labbra dell'australiano non appena giunge a pochi pasi da lei, talmente piano che non si rende conto di averlo pronunciato davvero.

La giovane ex ginnasta distoglie lo sguardo dal proprio telefonino e quando si ritrova davanti i due ragazzi il suo volto si dipinge di un'espressione frastornata, poi fa cenno verso la porta, indicando con il pollice la porta alle sue spalle, «È già...» si appresta a spiegare ma viene interrotta da una voce che echeggia nell'aria come la sua fotocopia sonora.

«Hai conosciuto Tecla». Althea lascia che la porta a vetri si richiuda dopo il suo passaggio, spinge le ruote della sedia fino a raggiungere il gruppetto e non appena coglie il turbamento sul volto di Daniel, sente un tuffo al cuore. «E hai pensato che fossi io...» la malinconia di quella frase trapana fino ad insidiarsi nelle ossa, di tutti e tre.

Daniel si sente uno stupido, un illuso, e soprattutto si sente tremendamente in colpa per aver solo sperato che la sua gemella potesse davvero essere lei. Adesso comprende veramente l'origine del suo malessere nel cogliere la speranza negli occhi di chi la guarda.

Althea dissimula, poi batte le mani, un solo colpo, come per risvegliare tutti da quel destabilizzante stato di trance. «Bene, direi che il momento delle presentazioni si è rivelato ben diverso da come lo avevo immaginato. Tecla, lui è Daniel e...Max», non ha altre parole, sente solo un moto di repulsione bruciarle lo stomaco.

La cura di Daniel sembra essere scivolata via come sabbia dalle mani di un bambino, con una semplice folata di vento. In due minuti, non avrebbe potuto farle più male.

«Quel Max?» Sibila Tecla fra i denti, tutti la sentono ma inizialmente nessuno comprende. Nessuno tranne Althea, chiaramente.

«Quel Max» risponde l'altra, non sentendo affatto la necessità di nascondersi in un sussurro.

A quel punto il viso di Tecla si apre in un sorriso a trentadue denti, si avvicina a passo lento mescolando il suo caffè fino a fronteggiare Max per quanto i centimetri di differenza glielo consentano, dopodiché, con una calma disarmante solleva il bicchierino e rovescia tutto il suo contenuto sulla testa del biondo, i cui capelli si afflosciano fino ad appiccicarsi sulla fronte.

Il viso gronda di quella bevanda bollente che gli cola sulle spalle, lungo il collo, macchiandogli i vestiti e Daniel per quanto si sforzi di non ridere ancora non si spiega come lei possa essere ancora viva dopo aver fatto ciò. In lui, neanche l'ombra di un guizzo di rabbia, non si scompone di un millimetro, rimane immobile come una statua. La mascella contratta tanto che i denti potrebbero frantumarglisi in bocca, le palpebre abbassate sotto i vetri scuri sporchi di caffè.

«A Driss non piace che si facciano commenti del genere su Philippe», ghigna lei ad un palmo dal suo naso, per poi voltarsi facendo attenzione che il movimento della sua coda di cavallo sfiori il suo naso dirigendosi a grandi falcate verso l'entrata della clinica.

Althea e Daniel si guardano, vorrebbero ridere, forte, ma nessuno dei due lo fa. Max lancia un'occhiata di fuoco ad entrambi non lasciando spazio ad alcun tipo di reazione prima di tornarsene in macchina e sfrecciare via sgommando senza tregua.

Nel frangente in cui Daniel si volta cogliendo solo la scia lasciata dalla Aston Martin, Althea è già andata via e lui non sa se tornerà mai.

L'unica certezza che ha, è che non sarà l'ultima volta che sentirà il bisogno di rincorrerla.

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