V. Blinding Lights

Se lo ritrova di fronte e nonostante la fantasia discutibile della camicia è costretta ad ammettere che è maledettamente attraente, con l'espressione lievemente corrucciata del volto illuminato dal bagliore timido della luna e le luci sfacciate dei locali.

«Scusami, scusami, scusami» comincia a sparare a raffica, «è successo un casino e non sapevo come uscirne. È tanto che aspetti?».

Vorrebbe urlargli addosso che avrebbe potuto avvisarla visto che si erano già scambiati i numeri anziché lasciarla lì ad aspettare come una povera sventurata, un pesce fuor d'acqua nel caos e il divertimento delle prime ore notturne.

Sorride invece, tirata.

«Sono appena arrivata» mente, solo perché sembra davvero turbato da qualcosa di apparentemente grave.

Daniel sa che è una bugia, si capisce dal modo in cui le si crea un minuscolo solco in mezzo alle sopracciglia e socchiude forzatamente gli occhi a mezzaluna come se tentasse di far ridere anch'essi.

Decide ugualmente di non dire niente, ha solamente voglia di chiudere il capitolo che si è lasciato alle spalle di fronte al portone del palazzo in cui abitano lui e Max e aprirne un altro lì, da quel momento in poi, insieme ad Althea.

Sa che sarà altrettanto difficile ma per una volta, per una sera, ha bisogno di dedicarsi solo a lei, e a sé stesso, cosa che non capita ormai da tempo immemore. Domattina probabilmente, aperti gli occhi i problemi torneranno a surclassarlo, ma finché il cielo è buio non desidera che esista altro a parte loro.

«Dubito sia rimasto un tavolo libero, e a meno che non abbiano il bancone formato nani e disabili non credo comunque di riuscire a rimanere in equilibrio sullo sgabello» constata Althea passando in rassegna la calca all'interno del locale e la fila immensa che ne costeggia l'entrata.

«Fidati di me, quantomeno non potrai dire di esserti annoiata» l'iconico sorriso alla Daniel Ricciardo fa la sua ricomparsa in breve tempo facendo apparire i luccichii della notte improvvisamente insignificanti.

Un piacevole tepore si dirama nel petto di Althea rendendo del tutto inutile la giacca tenuta sulle spalle con le maniche lasciate ricadere flosce sui lati. Forse ne è valsa la pena, aspettare tutto quel tempo immersa nella folla che sembrava avere intenzione di soffocarla.

«Adesso cerchi di fare bella figura perché sapevi già che avresti portato ritardo?» Lo punzecchia mentre lui zoppica al suo fianco nel tentativo di accodarsi al ritmo secondo il quale le ruote scorrono sul suduciume di quel marciapiede.

«La mia vita è molto più improvvisata di quanto credi, ma saprò rimediare». Il fiato corto, la voce traballante nonostante il tono ilare sono l'impulso che la spinge a rallentare.

Per la prima volta, dopo una vita di corse contro il tempo e contro tutti, Althea rallenta, per Daniel. Proseguono fianco a fianco mentre gli occhi di tutti si posano su di loro come flash di istantanee.

Scavalcano la fila come se niente fosse e Daniel sorride apertamente a tutti coloro che esprimono il loro dissenso, come fosse un gioco. Sussurra qualcosa all'orecchio del buttafuori che risponde con due sonore pacche sulle spalle e un cenno rivolto a qualcosa che Althea in lontananza non riesce a distinguere in maniera nitida.

Quando le luci calde del locale le carezzano le pelle diafana e il volume esagerato della musica si impossessa dei suoi sensi non può far altro che guardarsi intorno senza stupirsi troppo di tutto quello sfarzo. I tavolini rotondi e le sedie rivestite in velluto rosso, il bancone lucido in mogano rifinito in oro dietro al quale operano uomini e donne in tenute eleganti con alle spalle scaffali di bottiglie degli alcolici più pregiati.

Lancia un'occhiata agli scabelli girevoli senza spalliera, quelli sui quali un tempo le piaceva girare durante i festeggiamenti per una nuova medaglia. Guarda le ragazze con le gambe accavallate sfoggiare i loro abitini estrosi e scintillanti di fronte agli occhi affamati di uomini decisamente troppo maturi per loro.

Preme il labbro superiore contro quello inferiore al solo pensiero che se avesse potuto sedere su uno di quegli sgabelli chiunque avrebbe avuto la stessa idea di lei e Daniel.

Si accorge di essere rimasta indietro solo quando a fare da padrona alla sua visuale è la schiena del suo accompagnatore della quale il suo sguardo si impossessa involontariamente. Ne percorre ogni centimetro attraverso la stoffa leggermente trasparente della camicia fino a squadrare le spalle larghe, imponenti.

Si ritrova a vacillare fin troppo sui dettagli che caratterizzano Daniel, sui segni del tempo e le ferite delle sue guerre interiori. Una camminata, nient'altro che una camminata, le movenze placide, quasi molleggianti, dicono molto su di lui, parlano ad Althea di tratti ancora nascosti della sua personalità.

È un libro aperto, Daniel. Ogni suo atomo è una pagina narrata della sua storia, e una voce candida che a volte finisce per strascicare, come quelle che risuonavano dai primi vinili graffiati intenti a ruotare sul giradischi, sussurra ogni riga all'orecchio di Althea, come fosse un segreto. Un segreto fra lei e il cuore di Daniel, immenso e deturpato da tutte le cose distorte che lo circondano, ma che viste sottosopra - come a lui è solito fare - appaiono in forma di antidoto ad un veleno senza nome, perché dargliene solo uno sarebbe infinitamente riduttivo.

Giungono di fronte alle porte a vetri di un ascensore e lui, bilanciando il peso del corpo sulla gamba buona fa a meno per qualche secondo di una delle due stampelle mimando un gesto galante che la invita ad entrare per prima.

È tutto così dannatamente fuori dal comune, tutto così bizzarro, anomalo. Le sembra di star guardando quelle scene dall'esterno, come spettatrice non pagante, e si meraviglia di come quei minuscoli e semplici atti siano capaci di offuscare il contorno. Le stampelle, la sedia a rotelle, gli occhi della gente, è tutto solamente un'altra sfumatura opaca di un mondo a cui non appartengono davvero.

Sono loro due. Althea e Daniel. Daniel e Althea. Due sconosciuti, con anni a dividerli e le luci notturne di Monaco a fare da tappeto alla scalata dell'ascensore in cui si trovano, dalle pareti trasparenti, tanto che le sembra di volare, di poter tornare a respirare.

Tra i confini di vetro che li dividono dalla città risuona ancora il sottofondo musicale del piano terra, che salendo si fa man mano più ovattato. L'australiano è stranamente silenzioso, ma Althea vuole credere che sia per mantenere ancora un po' il mistero.

Le porte si aprono su una terrazza sulla quale sono elegantemente posizionati dei tavolini molto simili a quelli di poco prima coperti da un tetto immaginario di lucine decorative che danno l'impressione di fluttuare sulle loro teste. C'è meno gente, più sofisticata, come in una sorta di privè.

Prendono posto in prossimità della massiccia balaustra in pietra che offre una vista mozzafiato su tutta Monte Carlo. Siedono l'uno di fianco all'altra godendosi la visuale del cielo schizzato di stelle.

Improvvisamente ad Althea il lavanda del suo vestito sembra inappropriato, troppo giornaliero, di una lucentezza che non le appartiene più da tempo ormai.

Si accorge che Daniel la guarda insistentemente, in particolare il gioiello di ametista che porta al collo, e mentre ripercorre con un'occhiata veloce il suo outfit per capire cosa ci sia di sbagliato in ciò che indossa lui proferisce: «Sei stupenda» la voce sembra affievolirsi man mano che si rende conto di aver pronunciato davvero quelle parole, come uno strascico.

«Non potrei dire lo stesso della tua camicia, ma anche tu non sei male». È allora che entrambi sbuffano una risata quasi in sincrono rompendo finalmente il ghiaccio.

Vorrebbe chiederle cos'ha che non va la sua camicia, se il fondo nero abbinato ai pantaloni che gli da l'aria di un eccentrico becchino o se la stampa raffigurante fiori di Giava dai toni del giallo e dell'arancione. Forse per una serata del genere avrebbe potuto risparmiarsela, e a quanto pare il suo tentativo di colpire Althea ha dato nell'occhio anche ai numerosi spettatori che li squadrano con occhi curiosi.

Scuote la testa cacciando via quelle inutili paturnie. Non gli piacciono gli abiti sobri, non si sente a suo agio dentro di essi. Pensa che la vita molte volte dipenda dai colori di cui si è circondati - e su questo Althea potrebbe essere d'accordo -, ed esistono troppe sfumature per farsi manichini del grigiore. Morigerato non è di certo un aggettivo da poter accordare al suo guardaroba, e ne va più che fiero.

Althea vorrebbe chiedergli come facesse a sapere che avrebbero trovato un tavolo libero sul terrazzo, ma decide di non farlo, decide che per una volta la logica non è necessaria.

Non molto tempo dopo aver fatto la loro ordinazione un cameriere in tenuta simile a quella dei barmen serve loro due drink augurando ai due una buona serata. Solo Althea fa caso al suo sguardo compassionevole, come se stesse auspicando loro l'impossibile.

Tiene lo sguardo basso sul porta tovaglioli mentre percorre con un dito la circonferenza del suo bicchiere, lui sta per aprire bocca ma vuole essere lei a fare il secondo primo passo. «Allora, posso sapere in cosa consiste questa catastrofe in cui sei incappato stasera? Giusto per farmi un'idea di quanto dovrò aspettare la prossima volta». Si pente subito di quanto le è uscito di bocca.

Se ci sarà, una prossima volta.

Non è detto che l'interesse di Daniel si prolunghi fino a raggiungere la meta di un secondo appuntamento. È ancora in tempo per scoprire quanta poca vita sia rimasta in lei, un deserto arido nel quale giace un fiore reciso.

Sembra indeciso sul raccontare la verità o svincolarsi da quell'interrogativo con un "è una storia lunga" oppure "non voglio annoiarti", poi si ricorda che tanto, ad inventare menzogne non è minimamente capace.

«Stavo facendo una doccia ma è saltato un flessibile in bagno per cui mi si è allagata casa e l'idraulico non verrà prima di domani mattina. Sono corso a prepararmi da Max ma mi sono ritrovato nel bel mezzo di un'accesa lite di famiglia di cui, come sempre, mi è toccato raffreddare gli animi» il suo tono è amareggiato, sente dentro di sé la consapevolezza di aver lasciato qualcosa di incompleto. «Non mi andava che vedessi Max, non dopo quello che è successo ieri, e dato che secondo Raul non posso ancora guidare ho chiamato il mio amico Fabio, e così sono arrivato qui. Mi dispiace».

Non mi andava che lo vedessi. La cura, racchiusa in una semplice frase, che Daniel ha di Althea, dopo solo pochi giorni di conoscenza è l'ennesima pagina di quel grande libro che sfoglia di fronte ai suoi occhi.

È la cura che ha delle cose qualcuno che sa che senza di essa possono svanire. Basta un attimo di distrazione perché volino via con un soffio di vento, disperdendosi nell'aria come polvere. È la cura di chi non vuole perderle, di chi non vuole perderla.

Althea ha mille lucchetti, il cuore sottochiave e un sacco di cicatrici invisibili da tenere nascoste, ma in qualche modo sa che prima o poi quel ragazzo troverà la chiave che da bambina faceva finta di ingoiare.

Ha paura della cura di Daniel, perché è affrettata, perché sa che per le sue mani è più facile rompere tutto che tenere insieme i pezzi, sa che fra le sue mani quelli di Daniel finiranno per infilzare la carne e strappare i muscoli, senza mai ritrovare il loro posto.

Bevono e parlano tutta la sera, Daniel non tocca mai l'argomento incidente, raccontano di loro, o per meglio dire, Daniel racconta di sé, Althea di ciò che ha voglia di raccontare. Eppure, forse per colpa dell'atmosfera che il bagliore delle stelle sopra le loro teste crea intorno a loro, finiscono per toccare argomenti che entrambi mai avrebbero pensato di tirar fuori alla prima uscita.

Perché di fronte ad un bicchiere di nemmeno lei sa più cosa, noto ormai solo con l'appellativo di "un altro", è più facile raccontare senza filtri la propria vita ad uno sconosciuto, come se si conoscessero da anni.

L'australiano le parla di Joe e Grace, i suoi genitori, della torta alle mandorle di sua madre e gli strani e mutabili hobby di suo padre, dei natali passati insieme a Max per via del pessimo rapporto che l'olandese ha con la sua famiglia, dello steccato della villetta bifamiliare in cui viveva a Perth, la cui vernice veniva via ogni volta che ci finiva contro con la bici.

Quando le sue labbra pronunciano il nome di Michelle gli occhi color nocciola si illuminano. Gli manca sua sorella, i suoi capelli ricci sempre in disordine e quel sorriso tanto somigliante al suo, le volte in cui gli tirava addosso i calzini sporchi appallottolati che lasciava appositamente in camera sua per farla arrabbiare.

Racconta di quella volta in cui nessun cavaliere si era proposto di accompagnarla al ballo della scuola e allora c'era andato lui, camminando al suo fianco a braccetto e con uno smoking penoso.

Il modo in cui le parla, in cui gesticola senza sosta e non smette di blaterare neppure per prendere fiato spinge Althea a spogliarsi di qualcosa che aveva intenzione di tenere custodito sotto pelle ancora per un po'. Non sa perché lo fa, se attribuire la colpa solo all'alcol sarebbe la verità oppure un semplice escamotage per sfuggire al senso di colpa.

«Sai, anche io ho una sorella, gemella, e anche lei era una ginnasta».

Tecla è un tasto dolente per Althea, è vedere il riflesso della vecchia sé in carne ed ossa, stessi occhi, stesso viso, stesse gambe. Tiene le loro foto chiuse a doppia mandata dentro un cassetto della sua scrivania, principalmente le ritraggono l'una di fianco all'altra fasciate da body variopinti con medaglie appese al collo, talmente identiche da far paura.

«Che figata, anch'io ho sempre voluto un gemello. È vera quella roba della connessione mentale?» Scatta lui entusiasta trangugiando una manciata di noccioline tostate dalle microscopiche ciotole che il cameriere ha servito loro, probabilmente come ricompensa per aver speso un patrimonio in alcolici.

«È una cosa che va ben oltre la connessione mentale, non sento i suoi pensieri ma percepisco ciò che prova. Io e Tecla siamo siamesi, siamo nate attaccate, due metà di uno stesso intero, parti uguali di uno stesso cuore. Dopo averci divise i dottori credevano che solo lei sarebbe sopravvissuta, la più forte tra le due che tentava di risucchiarmi nell'utero per nascere sana. Nessuno ancora oggi si spiega come io possa essere qui, nemmeno io» e a questo punto, si dice Althea, sarebbe stato meglio soccombere. «Sento tutto di lei, se sta male sto male anch'io e viceversa». Sposta il peso della testa sul pugno chiuso affondandolo nella guancia scarna, malinconica. «Adesso lei vive in Svizzera, da quel sottaceto di Victor, il suo ragazzo. Da quando si è trasferita lì non faccio che percepire una sorta di malessere, so che non sta bene dov'è».

Pronuncia il nome del fidanzato di Tecla con astio. Lo ha sempre odiato, principalmente per averla portata via da lei nel momento in cui aveva più bisogno di sua sorella.

«E tu?» Si sporge in avanti capacitandosi a stento di quanto intima sembri farsi la conversazione, «Tu stai bene dove sei?» Chiede sottovoce come se si trattasse di un segreto di stato, mantenendo un tono calmo e rilassato.

Un guizzo di comprensibile incredulità saetta nei suoi occhi, poi gli angoli della bocca le si piegano in un sorriso amaro, «Credi che sia possibile stare bene così?» Lancia un'occhiata veloce alle proprie gambe nascoste sotto il tavolino.

Daniel curva leggermente le spalle puntellandosi i gomiti sulla superficie lucida, china il capo inclinandolo più nella sua direzione e la guarda dal basso. I suoi occhi sembrano intenzionati ad imprigionarla per impedirle di fuggire udendo le sue parole. «E hai mai fatto qualcosa per cambiare, insomma questo?».

Non capisce dove voglia arrivare, si sente offesa, profondamente offesa, svalutata, come se semplicemente non avesse voglia di alzarsi da lì una volta per tutte, che starsene seduta con il muso lungo sia solo un modo per non impegnarsi nel fare quello sforzo.

«Questo non si può cambiare. Ho una lesione al midollo spinale, non mi sono sbucciata un ginocchio. Non esiste una cura, e non esisterà ancora per molto se le industrie farmaceutiche continueranno a lucrare sulle sofferenze altrui». Sembra un cane che ringhia per difendere il suo osso, e solo allora se ne rende conto, si è soffermata solo sull'impossibile.

«Non intendo questo». Scuote la testa facendo oscillare i ricci ribelli. «Hai mai provato a fare qualcosa che ti rendesse felice dopo ciò che ti è successo?»

«L'unica cosa al mondo che mi rendesse felice era la ginnastica. Passavo le mie intere giornate in palestra ad allenarmi, dalla trave alle parallele, dalle parallele ai volteggi, dai volteggi al corpo libero. Una vita intera, passata a fare nient'altro che questo, per poi ritrovarti con il nulla assoluto. Niente mi renderà mai così felice come lo ero allora».

È a quel punto, dopo le parole sature di dolore di Althea che le labbra di Daniel si schiudono in un sorriso tenue. In quella loro strana maniera di essere incredibilmente simili pur rimanendo opposti. Il giorno e la notte dello stesso cielo.

«È una sfida?» Le chiede, quasi con una punta di malizia mentre sarebbe capace di distinguere per gradazione ogni sfumatura dei suoi occhi.

«Non lo vuoi sul serio». Schiocca la lingua contro il palato pronta a liberare una buona dose di veleno. «Ti incuriosisco. Probabilmente sei sempre stato con il prototipo di ragazza che frequenta posti come questo. Portate per accompagnare un pilota ad una qualche serata di beneficenza, con delle belle gambe, lunghe e funzionanti. Il fatto che il destino mi abbia disgraziatamente resa diversa da loro è il motivo del tuo interesse. Svanirà quando la tua gamba sarà guarita e tornerai alla tua vita di prima, non buttarti in cosa da cui non sapresti più uscire».

«Rimanere intrappolato dentro di te è una prospettiva abbastanza allettante». Ha bevuto troppo ed è maledettamente vicino alle sue labbra, vorrebbe assaporarne la malinconia per poi mandarla giù, per poter assaggiare un suo vero sorriso.

Il suo sguardo le lambisce come fossero già sue con ogni forma di pensiero razionale ormai offuscato dall'alcol, eppure lei continua a parlare, imperterrita.

«Non c'è un singolo uomo in questo posto che mi consideri ancora una donna. Sono una sedia a rotelle che trasporta un corpo, non cercare di spingerti oltre questa visione solo per provare qualcosa di nuovo, è più complicato di quanto credi».

«Sei anche cieca, oltre che paraplegica» mormora, ma lei sembra così presa dai suoi pensieri da non sentirlo neppure.

Non si accorge che ha di fronte un uomo meno una gamba che non vede nient'altro che una donna stupenda seduta al suo tavolo, con qualche anno di troppo in meno di lui, vorrebbe dirglielo ma prolunga il silenzio che per qualche istante ancora li divide.

Il pilota nota come la ragazza abbia ripreso a torturarsi le mani da sotto il tavolo. D'istinto ne afferra una smorzando il fiato di Althea, alterando il ritmo del suo respiro. È un gesto quasi casuale, ma molto intimo, come a lasciarle intendere di voler essere l'antidoto per i suoi demoni.

Daniel corre. Non solo per lavoro, è affrettato nella vita, nelle emozioni. Il suo mondo sembra avere un moto rotatorio con una velocità duplicata rispetto a quello del restante genere umano. Daniel corre e vorrebbe soltanto portare Althea con sé nella sua corsa contro il tempo. Vorrebbe tanto veder correre anche lei, anziché fermarsi ad aspettare che il suo tempo scada.

Un lampo di genio lo fa scattare in piedi alla vista di un telescopio posto in prossimità della balaustra facendogli quasi dimenticare di aver bisogno dell'ausilio delle stampelle.

«Voglio farti vedere una cosa». Barcolla un po' prima di riuscire a riacquisire l'equilibrio, poi, senza mai azzardare il gesto di spingere la carrozzella la invita a seguirlo.

È a quel punto, dopo aver inserito una monetina nello strumento per la visione della galassia, che perde totalmente il senso della misura. Si accosta alla ringhiera e dopodiché, facendo leva solo sulla gamba buona, avvolge il busto di Althea con le sue braccia, sollevandola perché possa raggiungere il telescopio.

Lei sembra essere presa naturalmente alla sprovvista da quel gesto, sgrana gli occhi e tenta di incontrare quelli di Daniel che però rimane concentrato nel tentativo di dare un minimo di stabilità ad entrambi.

Quando l'ex ginnasta sembra essersi tranquillizzata tra le braccia dell'australiano pare quasi che lui voglia cullarla come farebbe con una bambina.

Entrambi si perdono in quella lente attraverso la quale si sentono catapultati nello spazio, ed è allora che Daniel comincia a parlare all'orecchio di Althea, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

«Da qui si può vedere la costellazione di Orione. Da piccoli mia madre regalò a me e mia sorella un libro di favole sull'astronomia, quella su Orione era la mia preferita. Era una storia nata secondo l'immaginazione del popolo Cinese e quello Giapponese. Nella costellazione i due popoli hanno visto le sembianze di una bambina che trasporta sulle spalle due secchi d'acqua appesi ai lati opposti di un bastone. Mentre segue la sorella maggiore nel bosco, in cammino verso casa, compare un orco che comincia ad inseguirle. La maggiore corre veloce, senza pesi sulle spalle, mentre la minore la segue a fatica, ma non intende abbandonare i secchi d'acqua, decisa a riportarli a casa. D'improvviso una divinità del cielo vede le bimbe in difficoltà e getta loro una fune. La sorella più grande si arrampica veloce e si salva, ma la più piccola, col peso dell'acqua, viene raggiunta dall'orco che le mangia un piede. Le divinità del cielo vogliono premiare il suo coraggio e il suo senso del dovere, anche nella fatica e la trasformano nella costellazione di Orione, così che tutti possano vederla per sempre. Ecco perché, per i popoli orientali, Orione assume le fattezze di una bambina a cui manca un piedino, che trasporta l'acqua e che vive lo stesso felice».

Il racconto di Daniel bisbigliato contro il lobo, con le labbra che ogni tanto si scontrano con l'oro dei suoi orecchini e la voce calda e roca, leggermente impastata dall'alcol, è puro balsamo intento a districarsi fra i mille nodi di Althea, ma dopo averne compreso la morale lei scatta nell'immediato sulla difensiva, come sempre.

«È un modo per farmi capire che sono coraggiosa perché sopravvivo?» Si volta con il busto rischiando quasi di cadere e Daniel, nel tentativo di non far fare un capitombolo né a lei né a sé stesso è costretto a stringerla di più in un fremito e lei ad allacciare le braccia in una presa ferrea dietro il suo collo.

Si ritrovano l'uno ad un palmo dal naso dell'altra e la gente intorno a loro sembra improvvisamente essere sparita. Il mondo smette di girare ed è come se la terra franasse sotto i loro piedi, ma nessuno dei due in quel momento riuscirebbe ad accorgersene, neppure se succedesse davvero.

«È un modo per dire che non sempre perdere un pezzo di sé è una tragedia, sopratutto se lo si fa per qualcosa che si ama». Probabilmente era il suo tentativo di suggellare tutto, di cantare vittoria per essere riuscito a trovare la casella giusta per il primo tassello del puzzle, e invece è ciò che spezza il debole filo di quell'equilibrio precario che sembrava essersi creato fra i due.

«Dici così perché sai che potrai tornare a correre tra qualche mese, ma prevedo che nessuna divinità verrà da me a trasformarmi in una costellazione». Lascia scivolare le mani sul petto scultoreo del pilota invitandolo a lasciarla andare.

Così, anche se con un profondo moto di delusione ad aggrovigliare le sue viscere, lui la adagia delicatamente sul sedile in pelle della sua seggiola per poi dare le spalle alla tanto piccola quanto immensa Monte Carlo. Si regge con le mani al davanzale della balaustra rimanendo appoggiato ad essa in prossimità della zona lombare.

Non intende perdersi neppure un banale dettaglio della visuale che ha su di lei, adesso che entrambi sono ripiombati di colpo nella cruda realtà.

«Impara a leggere tra le righe, prendere tutto alla lettera fa male alla salute». Una delle cose belle di Daniel è che ride alle sue stesse battute, non sente mai il reale bisogno di essere divertente semplicemente perché sa di esserlo, e anche se in un momento del genere Althea non ha neppure la spinta del suo cervello per emettere l'ombra di una risata, lui ride ugualmente.

La ragazza di fronte a lui inarca un sopracciglio come a cercare di capire cosa ci trovi l'australiano di tanto spiritoso in ciò che ha appena detto.  «Servirebbe a qualcosa?»

Daniel arriccia il naso finendo per contrarre in viso in un'espressione alquanto buffa, poi piega il capo di lato. «A trovare un'altra prospettiva».

Un'altra prospettiva. Althea vorrebbe rispondere male, con una di quelle sue battute velenose, una di quelle che ha riservato per Max. Che prospettive potranno mai esserci per una persona bloccata in un corpo che la inchioda su una sedia a rotelle per tutta la vita?

L'ottimismo smielato di Daniel le da il voltastomaco. Odia chi cerca di vedere sempre il meglio delle cose anche quando non c'è, però è incapace di odiarlo. Chiunque è incapace di odiare Daniel, ma non nel modo in cui lo è Althea.

Non può più rimanere lì.

«Scusa, credo sia ora di andare, si è fatto tardi». Ruota la sedia su sé stessa imboccando la direzione per l'ascensore silenziando il canale delle repliche di Daniel alle sue spalle.

Ancora una volta, lei scappa senza poter camminare e lui la insegue senza poter correre.

Vorrebbero fermarsi entrambi, ma le porte dell'ascensore si chiudono dietro Althea prima che Daniel possa metterci piede.

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