IV. In My Blood
Non esiste un motivo preciso per cui valga la pena farlo, svuotarsi il petto da quel peso enorme intrinseco nelle sue parole, ma lo fa. Daniel racconta tutto a Raul durante la terapia, di Althea, di Max, di quanto ancora una volta si sia sentito nient'altro che un satellite utile solo a dividere due pianeti allineati nel preludio dell'Apocalisse.
«Magari non è come credi, magari non sei la parete divisoria ma il centro delle dimensione in cui orbitano entrambi» suggerisce assorto il fisioterapista improvvisandosi psicologo e astronomo allo stesso tempo.
Non sa bene perché, ma si fida di quell'uomo. Forse si tratta del sorriso con cui lo ha accolto la prima volta o il camice bianco sempre un po' spiegazzato, o magari è semplicemente che malgrado sia circondato da gente che dice di adorarlo non ha nessuno con cui parlare.
Ne ha avuto la conferma la notte scorsa, quando il letto sembrava volerlo risucchiare insieme ai suoi sensi di colpa. Per essere rimasto in silenzio, per non aver proferito una sola parola di rimprovero verso l'olandese.
A volte riesce a convincersi che quella sia una delle numerose peculiarità di Max, renderlo impotente, come una pecora di fronte a dio. Eppure è l'unico in grado di placare la sua ira, l'unico capace di tenera a bada il leone che è in lui.
Daniel è la medicina di Max. Era la frase preferita di Christian Horner quando ancora poteva rivolgersi a lui come il suo capo. L'unica barriera a rimanere intatta sotto il sisma dei suoi pugni, dei suoi istinti violenti. L'unico filo della sua anima che se tirato è capace di metterlo in pausa, resettarne i tormenti.
Dopo aver guardato Althea addentrarsi nel retro di un auto nera metallizzata con l'aiuto di un autista, è tornato da lui con l'affanno e nel gelido silenzio del viaggio di ritorno non ha fatto altro che pensare al cigolio di quelle ruote che acceleravano il loro passo al rumore dei suoi.
Dopo diversi minuti passati senza ottenere alcuna risposta, l'uomo intento a prendersi cura della sua gamba decide di sganciare la bomba, senza alcun preavviso.
«Forse è stato meglio così, sai» sospira con il capo chino, le spalle lievemente ricurve sul suo lavoro mentre il volto del pilota scatta all'insù come il balzo di una lepre, cercando evidentemente un seguito in quella constatazione.
«Quella che vedi, quella con cui parli, con cui ieri hai preso un caffè, persino quella che è andata via arrabbiata, non è la vera Althea, è quello che ne rimane» è costretto ad adagiare un momento gli attrezzi sul lettino, come se quell'argomento necessitasse di una pausa dal moto di rotazione della Terra. «Credi davvero che un'atleta del suo calibro, che in vita sua non ha fatto nient'altro che allenarsi per raggiungere l'eccellenza sarebbe sopravvissuta ad una cosa del genere senza finire nel tunnel della depressione? Sono gli psicofarmaci Daniel, sono loro a comandare».
È come un cannone che pianta la sua sfera di piombo dritta fra le sue costole, frantumandogli la cassa toracica e quanto essa contiene. Un uragano che spazza via ogni speranza, che lo abbatte come un vecchio secolare dalle radici marce.
È talmente bella, dentro e fuori, quanto dannatamente rovinata. Strappata ad ogni angolo, martoriata, ma rappresenta ugualmente uno dei capolavori più affascinanti che la natura abbia mai creato, e in cui egli si sia imbattuto.
Daniel è sempre stato uno dalla sbandata facile, uno che si lascia travolgere dalle cose, che crede al colpo di fulmine. A trentadue anni è ancora nel pieno di un'adolescenza che probabilmente non finirà mai.
La maggior parte delle volte che però si è trovato vincolato da un qualunque tipo di relazione è finito per scottarsi con un fuoco di cui tenta ancora di superare la paura.
Ha frequentato di tutto, ragazze con strane ossessioni per i tarocchi e la cartomanzia, narcisiste patologiche, alcune superstiziose a livelli inauditi, psicopatiche e gelose ossessive, ma nessuna di loro era così complicata, così come lo è Althea.
In fondo ha sempre avuto la tendenza nel buttarsi a capofitto in situazioni che lo trascinano sempre in un mare di guai. In particolare questa volta, la prospettiva di precipitare come un minuscolo ciottolo insignificante sul fondo di un precipizio si fa sempre più densa e nitida dentro di sé.
Le parole di Raul gli risucchiano l'aria dai polmoni fino a renderli aridi come sabbia del deserto, la gola gli si stringe in un nodo tanto aggrovigliato da non lasciar filtrare l'ossigeno.
Per un istante si sente morire su quel lettino ricoperto di panno carta, sotto il tocco esperto di Raul, con le palpebre solleticate dalle luci colorate lampeggianti di alcuni macchinari.
Tutta un'illusione. Questo è Althea.
Ma Daniel non ci riesce, ad arrendersi. Se ci fosse riuscito, solo due giorni dopo averla vista, allora si sarebbe salvato. Ma a Daniel piacciono le catastrofi, e buttarcisi a capofitto.
Attraversa il corridoio accompagnato da Raul, che vedendolo particolarmente scosso non se l'è sentita di lasciarlo andare da solo. È un tipo premuroso, si vede che tiene davvero ad ogni suo paziente in maniera diversa, pensa Daniel.
Si capisce che è un padre, uno di quelli come il suo, che ai figli dimostrano l'affetto in piccoli gesti, quelli che bastano a farli sentire sempre nel posto giusto tra le loro braccia.
Non appena la vede sembra che il suo organismo smetta improvvisamente di funzionare. Si pianta in mezzo alla sala d'attesa come un chiodo, non un passo in più e non uno in meno, costringendo Raul a frenare il suo solito passo frenetico all'improvviso per evitare di finirgli addosso.
Se ne sta lì a muovere fiaccamente il capo seguendo il tempo della musica che filtra dagli auricolari.
In Daniel si risveglia il ricordo di quando le si era seduto di fianco appropriandosi un po' di quel suo momento di solitudine, dando segretamente vita al loro primo ritaglio di intimità. Non sa se sarà mai in grado di confessarglielo, ma forse prima dovrebbe riuscire a muoversi dai contorni di quella piastrella, smettendo di fissarla con quello sguardo da pesce lesso.
Il fisioterapista alle sue spalle si schiarisce la gola risvegliandolo da quel suo stato di trance e in un batter d'occhio, senza dargli neppure il tempo di riascquisire la cognizione dello spazio e del tempo la carrozzina di Althea gli sfila davanti senza degnarlo neppure di un cenno di saluto.
Le porte si chiudono dopo un arrivederci cantilenante di Raul ma lui rimane lì, prende posto su una delle seggiole in plastica azzurra e aspetta. Questa volta ha avvisato Max di presentarsi con almeno un'ora e mezza di ritardo, lui aveva annuito assorto condendo il tutto con un grugnito.
Non è di tante parole, non buone quantomeno, non lo è mai stato. Meglio stare zitti se non si ha nulla da dire, ripete ogni volta che l'amico cerca di spronarlo in qualche modo a partecipare attivamente ad una conversazione.
Ma Max ne avrebbe tante di cose da dire e Daniel lo sa. Lo sa perché è l'unico capace di leggere i suoi profondi ed ermetici silenzi, che se ascoltati bene sono in grado di raccontare passo per passo una vita intera.
In fondo, se adesso Althea lo odia per colpa di Max è perché in qualche modo quei due si somigliano molto più di quanto Daniel avrebbe mai potuto immaginare, oltre l'ordinario.
Lo stesso modo di premere il labbro superiore contro quello inferiore quando una discussione prende una piega non gradita. Lo stesso modo di perdersi in vuoti immensi con lo sguardo desiderando di non venirne mai fuori. La stessa puntualità, la stessa rabbia.
Perché per quanto lei possa essere così misurata, così attenta a dosare ogni gesto, ogni sguardo, ha una rabbia tale dentro di sé che le basterebbe stringere quei minuscoli pugni un altro po' per incastrarci il mondo e schiacciarlo, ridurlo a delle misere briciole.
La rabbia di chi non straborda di sogni, ma di chi ne ha uno, uno soltanto, tenuto custodito in un cassetto chiuso a doppia mandata nei meandri di un cuore gelato. La rabbia di chi per quel sogno avrebbe dato l'anima, di chi se n'è preso cura e malgrado ciò l'ha visto andare in frantumi.
Le ha temprato le ossa, le ha strappato la vita e gliene ha restituita una che le va stretta. Quel sogno l'ha uccisa, ma lei esiste ancora.
Si chiede come starebbe se fosse al suo posto. Varrebbe la pensa esistere così? Poi si rende conto che in questi casi con l'immaginazione non si arriva da nessuna parte. Sono cose che ti marchiano a vita, rimangono sulla carne, dentro di te. Proprio come quella stecca di ferro che si protrae dalla caviglia al ginocchio e lo costringe a zoppicare.
Da quando anche poggiare completamente la pianta del piede a terra è doloroso, Daniel si è reso conto di non aver mai vissuto abbastanza da rimanere in equilibrio su una gamba sola per più di quaranta secondi. Vorrebbe imparare, vorrebbe che ne valesse la pena, vorrebbe che fosse così anche per Althea.
Nonostante la sua fama da imbranato gli è sempre piaciuto curare i dettagli in tutto. È un ammiratore delle piccole cose, come la conta di quanti saltelli sono necessari per tracciare il perimetro della sala d'aspetto.
È questo che fa nell'attesa che Althea finisca la terapia e oltrepassi le porte semitrasparenti che lo dividono dal reparto di ortopedia, mentre pensa che forse mettendo insieme tante piccole cose come quella ne verrebbe fuori una grande, una per cui varrebbe la pena vivere, non esistere.
Quando esattamente un'ora e quindici minuti dopo la sua attesa giunge al termine il perimetro della stanza equivale a ottantasei saltelli, l'area invece a duecento sessantanove.
Ha la fronte imperlata dal sudore poiché ormai anche quel gesto infantile costituisce quasi uno sforzo immane ma non è neanche lontanamente paragonabile alle condizioni di Althea, che già di per sé possiede un incarnato che definire pallido sarebbe un eufemismo, ma in quel momento è paragonabile ad un cencio logoro.
Sembra che Raul le faccia fare i salti mortali lì dentro, pensa Daniel, ma non immagina che se fosse davvero così Althea ricomincerebbe a respirare per il piacere di farlo anziché ridurre quell'azione ad un gesto meccanico del suo organismo.
Gli sembra un deja-vu, lei che prosegue per la sua strada e lui che la rincorre, senza un motivo realmente valido ma che rappresenta comunque un buon motivo, perché si tratta di lei.
«Althea!» La chiama con quel suo modo di modellare le lettere e trasformarle in altre, mentre il cigolio delle ruote della sedia sembra ovattarsi sempre di più ad ogni centimetro che li separa.
Frena senza preavviso, poi ruota su se stessa. Esattamente come era successo la prima volta, con l'unica differenza che adesso non è solo la possibilità di far del male a lui che la spaventa.
«Volevo scusarmi, anche da parte di Max» blatera incepiscando con le parole come fossero le crepe in cui le punte in gomma delle scarpe dei bambini si incastrano mentre giocano sui marciapiedi.
Il suo volto si acciglia in un'espressione scettica. «E Max si scusa davvero o è frutto di una fantasia che ti sei fatto su di lui?» Domanda retorica, conoscendo già dentro di sé la risposta a quel quesito.
«Max è complicato» è tutto ciò che riesce a dire stringendosi nelle spalle.
«È uno stronzo» lo corregge storcendo il naso.
Max non l'ha ferita davvero, ormai ha imparato a non lasciarsi scalfire da certi comportamenti. In fondo prima di finire lì sopra non era molto diversa da lui, non avrebbe badato ad urtare i sentimenti di qualcuno prima di aprire bocca.
Adesso, non ne ha neppure voglia. Vorrebbe andare via e cancellare il volto di Daniel dai suoi ricordi, la sua risata contagiosa, il suo sorriso caratteristico che adesso sembra essere stato risucchiato da un moto di pesanti sensi di colpa.
«Uno stronzo complicato» sospira, forse ripensando alla pessima condotta dell'amico ovunque lui si rechi. Si massaggia le palpebre abbassate come se - come lei - non dormisse da giorni. «Ma a me dispiace sul serio».
«E di cosa esattamente? Di non aver avuto un minimo di spina dorsale per dire anche una sola parola o di essere uscito con Philippe Pozzo di Borgo?» Le parole fuoriescono a raffica, velenose, taglienti come lame, si insidiano sotto l'epidermide e rimangono impresse come l'inchiostro di un tatuaggio.
Forse è giunta al temine anche l'era in cui era capace di domare Max, renderlo meno distruttivo. Impedire i cataclismi generati dalla sua bocca e dalle sue mani.
È appassita anche la voglia di tirare fuori il buono da qualcuno che non intende mostrarlo a nessuno. Sono bastate poche frasi per aprirgli gli occhi sul fatto che il suo mondo non sta collassando dal giorno dell'incidente, ma già da prima aveva cominciato a sgretolarsi come foglie secche d'autunno.
«Mi dispiace di tutto fuorché di essere uscito con te. Voglio riprovarci, e non accetto un no come risposta» si impunta, perché adesso che non ha esitato un attimo a sbattergli in faccia la verità, la vuole ancora di più.
«Allora stasera mi offri da bere, ma perché lo vuoi tu, non perché te lo chiedo io. Credo nei fatti, e tu parli decisamente troppo». Gli brucia la pelle con lo sguardo catturando il suo, magnetica.
Non può non essere lei, si dice.
La vena che traccia un sottile sentiero fra l'occhio sinistro e il sopracciglio che pulsa facendosi più evidente quando si infervorisce. Quel modo di scorticarsi le mani screpolate tirando via le pellicine. Le narici che si allargano e riprendono la loro forma originale ogni volta che sbuffa nervosa dal naso.
Ogni dettaglio è troppo suo per essere nient'altro che il risultato di sostanze chimiche mirate ad impedire che si lasci morire lentamente, inerme in un letto sfatto fra le grotte buie della sua mente.
Dentro si tormenta tentando di venire a capo del primo aggrovigliato livello di quell'enigma che si trova davanti, per il quale è costretto a guardare sempre verso il basso per riuscire a scorgere qualunque cosa brami per accendersi in lei, soffocato dall'angoscia. Fuori sorride, soddisfatto in un certo senso.
Adesso però, dipende tutto da lui.
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«Nari, scegli un vestito per me» Risuona dal salotto - perfettamente coordinato secondo una scala di colori tenui, capaci di infondere una certa calma - verso colei che in pratica è la sua badante, anche se quello fa parte dei tanti termini vietati che entrambe si rifiutano di usare.
Nari non è in quella casa per aiutare Althea. Da qualche mese a quella parte l'ex ginnasta sembra aver preso parecchia dimestichezza con tutti gli appigli ai quali sostenersi e aver ben inquadrato come giocare con gli spazi a seconda del passaggio della sedia a rotelle. È stata incaricata da sua sorella di tenerla costantemente d'occhio, naturalmente con la responsabilità di evitare qualche tragedia.
La donna dalla carnagione olivastra tipica del suo luogo d'origine, fa capolino sull'uscio del grande arco che divide lo spazio aperto fra cucina e salone da tutte le altre camere. «Che colore, signorina?» Domanda cordiale con quel suo solito tono amorevole, le mani giunte in grembo e le rughe d'espressione ogni giorno più visibili.
Ormai Althea è come una figlia per lei, nonostante i suoi modi bruschi iniziali. C'erano volte in cui, soprattutto nei primi due mesi, le bastava allontanarsi per stendere il bucato oppure semplicemente per controllare a che punto fosse la cottura dei ceci perché udisse un tonfo e a seguito un frastuono di vetri infrangersi sul pavimento.
Era lei, lei che provava a tirarsi su in qualsiasi modo, tenendosi salda ai davanzali delle finestre, alle spalliere delle sedie, e puntualmente finiva per abbattersi sul pavimento. L'incapacità di fare una cosa tanto banale quanto mettersi in piedi la faceva andare fuori di testa e allora cominciava a gettare in terra e lanciare contro le pareti qualsiasi oggetto le capitasse per le mani.
Il peggio arrivava quando Nari piombava nella stanza e la trovava con una delle schegge di vetro di un bicchiere infranto, lì a pochi centimetri dal polso, e il respiro le si bloccava a mezz'aria.
Probabilmente se non è ancora accaduto niente di irrecuperabile è solo perché Nari non l'ha più lasciata da sola, non più di cinque minuti quantomeno, il tempo necessario per la pausa bagno.
La donna sulla cinquantina scuote lievemente il capo tentando di scacciare via l'immagine della sua signorina che tenta di commettere uno scempio, per riconcentrarsi sulle parole che in quel momento fluiscono dalla sua bocca.
«Indifferente, è sufficiente che non sia eccessivamente elegante ma neppure giornaliero, ho un appuntamento».
È come se il suo cuore premesse per uscirle dal petto e sfondare la cassa toracica al suono di quelle parole. La sua signorina, un appuntamento, e da quel che intuisce persino con un uomo. Vorrebbe buttarglisi al collo e abbracciarla dalla felicità ma sa bene quanto Althea odi il contatto fisico, per cui rimane al suo posto.
«Un levanda va bene?» presa dall'emozione pronuncia male il nome del colore, è un lapsus che le capita di avere solo in momenti di particolare trepidazione, nonostante i suoi numerosi corsi avanzati di italiano frequentati a spese di Althea.
Nonostante non le dispiaccia affatto vivere a Monte Carlo, alla giovane manca da morire Firenze, la sua città d'origine, e poter parlare l'italiano quanto meno in casa attenua per quanto possibile la nostalgia.
«Lavanda, Nari, lavanda» la corregge senza stizza, con voce monocorde, totalmente differente da quella venuta fuori con Daniel qualche ora prima. «E comunque sì, sarebbe perfetto» annuisce anche se distrattamente.
È strano pensare di prepararsi per qualcosa che non sia una qualche interminabile visita medica o per la fisioterapia. Pensare di dover fare davvero qualcosa, qualcosa che le persone normali - come quella che lei era un tempo, un tempo che sembra equivalere a secoli - fanno senza stare lì a pensarci troppo.
La domestica fa per allontanarsi con il suo solito passo dal ritmo soffice e cadenzato.
«Ah, Nari!» Richiama la sua attenzione prima che scompaia oltre l'arco per andare alla ricerca di un abito che faccia al caso suo. «Quando hai un attimo portami anche la collana di ametista di mia sorella, grazie» sorride di labbra per un breve istante tornando immediatamente alla sua espressione di norma imperturbabile.
«Ma la signorina Tecla detesta quando si prendono le sue cose, ricorda?» La interroga quasi a mo' di rimprovero, piegando leggermente il capo di lato.
«La signorina Tecla avrebbe dovuto pensarci prima di lasciarla qui» risponde a muso duro mentre dentro le si monta un moto tale di amarezza e nostalgia che è costretta a lasciare Nari lì impalata per andare a spalancare una finestra.
Ogni volta che si parla di Tecla ha bisogno di prendere aria, perché in fondo è allo stesso modo che le manca, come l'ossigeno ai polmoni.
Qualche ora dopo, con i soliti rigorosi quindici minuti di anticipo, è pronta nel suo miniabito color lavanda dalla gonna morbida su due balze, il corpetto ad incrocio che le fascia il busto e le maniche a palloncino che si strozzano sui polsi.
I tacchi non ha mai saputo portarli per cui non le dispiace dover scansarne l'opzione, dopotutto non avrebbe neppure dovuto camminarci. Ha optato per dei sandali dalla pianta raso terra i cui lacci vanno ad intrecciarsi lungo i polpacci robusti.
Non si guarda allo specchio da mesi, lo evita come la peste. In quella superficie riflettente è ancora incastrata la vecchia sé, quella che prima di uscire ci sfilava davanti tre, quattro, cinque volte per assicurarsi di avere un aspetto impeccabile.
Ha una paura fottuta di infrangere quella parte di sé rimasta incastonata come una gemma preziosa lì dentro, di mandare in frantumi ogni rimasuglio della sua anima da ginnasta, con lo chignon a tirarle i capelli e il borsone sotto braccio. Ha paura di arrivare lì davanti e scoprirsi un'altra, scoprire che la Althea imprigionata nello specchio non è più lei.
Le ruote cambiano la loro direzione evitando volutamente l'oggetto appeso al muro coperto da un lenzuolo bianco, come se custodisse lo spirito di un fantasma.
Nari accompagna la sua signorina nel vialetto posando piccoli passi sugli scalini di fianco alla rampa per disabili che per i primi tempi Althea evitava come la peste, a costo di far ribaltare la sedia e finire schiacciata in terra sul selciato.
Una macchina nera metallizzata la aspetta, è Adrien, il suo autista. Se non fosse stato per l'incidente non avrebbe mai immaginato di averne uno, Althea adorava guidare, anche per tragitti brevi. La sensazione di sentirsi accerchiata da altre auto ed essere capace di superarle senza problemi la faceva sentire nel posto giusto, capace di fare qualcosa che non fosse saltare.
In fondo però era quella la sua vita, rincorsa, ribaltata, triplo carpio, e non desiderava altro. Non c'era altro che fosse in grado di renderla felice allo stesso modo. E il fatto che per un solo errore tutto ciò le sia stato strappato ha fatto venire giù quella felicità come massi in caduta libera da una frana.
Adrien, un uomo che da poco deve aver superato la soglia dei quaranta, ha tutta l'aria di qualcuno che ha passato l'infanzia in quelli che nel Principato di Monaco verrebbero considerati quartieri poveri, ma nei quali vive semplicemente gente benestante - del ceto medio - che non possiede uno yatch attraccato al porto.
Gente come lei.
Non si è mai comportato in maniera particolarmente confidenziale. Il suo compito è quello di accompagnare e riportare a casa Althea ovunque ella si rechi, e lui lo svolge senza mai lamentarsi.
Il loro è un rapporto di reciproco silenzio, principalmente perché nessuno dei due ha qualcosa da dire o di memorabile da raccontare. Lui guarda la strada concentrato, lei si perde assente nelle figure sbiadite che scorrono oltre il plexiglass del finestrino.
Le domanda la meta e lei risponde con il luogo concordato insieme a Daniel, poi più nulla.
Forse è stato un azzardo quello di proporre al pilota una sorta di secondo appuntamento. Non ha paura di veder piombare un olandese furioso anche lì, ma la sua incapacità di impedire a quel ragazzo di avvicinarsi a lei la terrorizza.
Daniel è uno che prende tutto come viene senza badare alle conseguenze, sarebbe capace di buttarsi di petto in un mare di onde anomale solo per tastarne la sensazione. Ma Althea è uno tsunami controcorrente e sarebbe capace di travolgerlo e spazzarlo via senza lasciare tracce.
Perché Daniel ama la vita, ma se si legasse ad Althea probabilmente lei sarebbe costretta a strappargliene un pezzo. Sarebbe un'altra persona che soffrirebbe del suo desiderio di fuga da quella vita disgraziata e non sopporterebbe di dover rimanere anche per lui.
È tentata di comunicare ad Adrien che non ha più voglia di uscire, di fare retromarcia e tornare a casa, ma proprio quando le sue labbra di schiudono nel tentativo di farlo lui l'avvisa di essere arrivata a destinazione.
È in perfetto orario, le dieci spaccate.
Adrien scende dalla macchina dirigendosi verso il cofano in cui è ripiegata la carrozzina. La fa scorrere lungo il marciapiede fino a raggiungere lo sportello del passeggero che apre con un gesto meccanico. Althea vorrebbe sprofondare dalla vergogna quando l'autista la prende in braccio a mo' di sposa e la adagia sul sedile della sedia a rotelle di fronte agli occhi dell'intero locale che pullula di gente dentro e fuori.
Si guarda intorno ma non riesce a scorgere la figura atletica di Daniel dai lineamenti del corpo tonici, resa sghemba dal passo sincopato accompagnato dalle stampelle. Di lui non c'è traccia.
Congeda Adrien nonostante l'autista insista più volte per rimanere fin quando l'accompagnatore della sua signorina non si sarà deciso ad arrivato, ma di certo Althea preferisce evitare lo sguardo compassionevole di chi è sicuro che le verrà data buca.
Attende lì, da sola, su quel marciapiede per venti minuti. Venti minuti in cui il via vai di gente non le ha dato tregua, fra ragazzi distratti e ubriachi che urtano la carrozzina biascicando scuse improponibili e ragazze che con il loro passo elegante le sfilano davanti augurandosi di non finire mai come lei.
Cerca un angolo in cui ripararsi ma ovunque si sposti è gremito di corpi in fibrillazione che non vedono l'ora di passare l'ennesima nottata allo sbando. Le sembra di vivere un incubo, ha voglia di mettersi a gridare, a piangere, a spaccare qualsiasi cosa porti a tiro, ma soprattutto ha voglia non rivedere mai più la faccia di Daniel in vita sua.
L'ha presa in giro, l'ha lasciata sola, e questa è decisamente la cosa peggiore che potesse farle.
Allo scoccare delle undici meno un quarto estrae il telefono dalla borsetta pronta a chiamare Adrien ed implorarlo di venirla a prendere nella più totale immediatezza.
Le sue dita di arrestano prima delle ultime tre cifre del numero di telefono quando uno stridio di ruote cattura la sua attenzione come un magnete. Accostata al marciapiede c'è una BMW laccata di un blu ceruleo alquanto sgargiante.
Dalla postazione del conducente viene giù un ragazzo di cui in lontananza non riesce a distinguere bene i tratti del viso ma le sembra di non averlo mai visto prima d'ora. Il capo è coperto da un cappellino con la visiera ma i capelli rasi di un biondo scuro emergono dai lati della testa, in prossimità delle basette.
Dai sedili dietro recupera un paio di stampelle fin troppo familiari che offre a chi ha appena aperto il proprio sportello dal posto del passeggero.
È in quel momento che lo vede scendere dall'auto con indosso una camicia dalla fantasia improponibile lasciata aperta di qualche bottone sul petto e un paio di pantaloni dal nero simile al piumaggio dei corvidi, attillati ma eleganti.
I due intavolano una veloce conversazione di cui riesce a leggere di sfuggita poche frasi nel labiale, una di queste proviene dalla bocca stranamente seria di Daniel.
«Grazie mille, Fabio. Scusami ma è troppo importante».
Troppo importante. Per un istante le piace pensare che si stia riferendo a lei, poi viene travolta dal panico e in uno scatto fulmineo per quanto possibile tenta di allontanarsi senza farsi notare. Spera di raggiungere presto un vicolo riparato da cui non potrà vederla, così da lasciargli credere che non si sia presentata, che sia stato un tentativo vano.
Riesce a percorrere poco più di due metri che però sente la sua voce chiamarla. L'ha riconosciuta, e come non farlo?
«Althea!»
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