III. Wrecked
Dopo una notte insonne passata a scrollare video di esibizioni su esibizioni di Althea, Daniel al mattino non solo si ritrova con due borse sotto gli occhi da utilizzare per fare la spesa di un mese e la sonnolenza di un bradipo, al trillo insopportabile della sveglia posticipata almeno quindici volte si rende conto di essere in un disastroso ritardo per la terapia.
Avrebbe dovuto staccare tutto al decimo video, quando l'orologio segnava ancora l'una e mezza di notte, ma neppure si è reso conto di essere rimasto talmente ipnotizzato da quelle acrobazie da perdere totalmente la cognizione del tempo.
Aveva altri programmi in realtà, per la prima volta in vita sua Max Verstappen, campione indiscusso in fatto di repulsione per la vita sociale, gli aveva proposto di andare a farsi una birra nel loro locale di fiducia.
Generalmente è sempre Daniel ad organizzare questo genere di cose, è lui l'animale sociale, Max al contrario è sempre più propenso ad una di quelle classiche serate pizza-partita-birra, però detesta vedere il suo migliore amico da solo.
Max Verstappen, figlio della sua stessa solitudine plasmata dal repentino cambio di case e famiglie durante tutta la sua infanzia, dall'ira di suo padre trasmessa nel suo sangue come una trasfusione, è disposto a rinunciare alla prigione arrugginita in cui alloggiano i suoi demoni per vedere Daniel felice.
Ma quella sera l'australiano sentiva sulle ossa il peso di mille incudini legate alle sue costole. La cassa toracica sembrava intenzionata a frantumarsi da un momento all'altro, minata dall'eccessivo e immotivato battito accelerato del cuore.
Si era steso al letto e aveva trascinato con sé la gamba offesa coprendola con il lenzuolo celeste un po' spiegazzato, aveva acceso il cellulare e non aveva più staccato gli occhi da quello schermo fino alle cinque del mattino.
Non ci erano volute molte clip per appurare che il punto di forza di Althea fosse il corpo libero. Energica come un uragano, elegante come il battito d'ali di una farfalla.
Era riuscito ad ascoltare solo stralci della telecronaca inglese poiché la sua completa attenzione volgeva inevitabilmente al corpo di quella fata italiana che sembrava poggiarsi su quel tappeto solo per volontà della forza di gravità. In sua assenza non sarebbe riuscito a trovare differenze fra uno di quei salti e la sensazione di volare.
I due uomini esagitati con il compito di esporre in maniera tecnica e dettagliata la difficoltà delle diagonali acrobatiche della ginnasta accennavano ad una sua futura partecipazione alle Olimpiadi.
Il volto della ragazza però, colto di sfuggita nelle inquadrature più vicine appariva molto più giovane e paffuto di quello che aveva colto la sua attenzione al primo giorno in clinica. Difatti, colto dalla sua caratteristica curiosità Daniel si era accertato che il video fosse datato 2015, un anno prima dei giochi olimpici di Rio de Janeiro, quando Althea doveva aver compiuto da non molto la maggiore età.
I risultati per "Althea Taviani Rio 2016" però, si erano rivelati fantasma, totalmente inesistenti. Gli stessi profili social risultavano attivi solo fino a otto mesi prima.
Una notte intera passata a chiedersi cosa l'avesse frenata dal vivere così giovane un sogno di tale entità che avrebbe dovuto coronarsi quell'anno, il 2021, venuto dopo la mietitrice che li aveva soffocati per mesi all'interno delle pareti delle proprie case, il 2020, lo stesso che aveva strappato via la vita alle gambe della ginnasta.
Domande che non otterranno mai una risposta. Si dice Daniel in procinto di varcare la soglia delle porte automatiche della clinica.
Non aveva avuto il coraggio di cercare un video dell'incidente o comunque di documentarsi a riguardo. Raul ha ragione, sarà lei a parlargliene se mai per qualche strano motivo ne avrà voglia.
Quarantacinque minuti di ritardo, questa volta ha superato ogni suo record finendo di certo per dare a Raul una pessima impressione di sé.
Zoppica fino alla sala d'aspetto ma la trova deserta, neanche l'ombra di una famosa sedia a rotelle parcheggiata lì vicino per fare da sostegno ad un paio di gambe simili a quelle delle bambole di pezza.
Si siede in attesa ma nessuno viene a chiamarlo nell'arco di una mezz'ora, fin quando le porte del reparto non si spalancano al passaggio di Raul che inonda il corridoio con una risata cristallina, ricambiata a stento da una Althea a cui stanotte il diavolo sembra aver bussato alla porta.
Il viso smuto, talmente pallido da sembrare trasparente, gli occhi gonfi e le labbra secche a tal punto da far invidia al clima della steppa.
Un fantasma, è così che appare agli occhi di Daniel, e vederla in quelle condizioni non fa che appesantire il macigno della sua stanchezza, come se in un modo e nell'altro tutto ciò potesse dipendere da lui.
Gli occhi di Raul abbandonano la figura cadaverica che avanza sulle ruote della carrozzina di fianco a sé per posarli su Daniel.
«Mi dispiace, Daniel. Oggi sono pieno di appuntamenti e il tuo è saltato, non ho spazio per inserirti» lo avvisa cordialmente il fisioterapista senza apparire infastidito dal suo ritardo, «Ci vediamo domani, riguardati. Ciao Althea» si congeda con entrambi prima di tornarsene nel suo regno fatto di tentativi e pessime notizie.
Quando lo sguardo ancora impiastricciato dal sonno di Daniel incontra quello vacuo di Althea lei le rivolge un cenno di saluto per poi spirgersi via fiaccamente.
Vorrebbe chiederle come sta, vorrebbe chiederle qualsiasi cosa, ma è come se avesse paura di udire un tono diverso della sua voce rispetto a quello amichevole della volta precedente. Ha paura di sentir spirare la morte dalla sua voce come alito.
L'istinto però, ha sempre prevalso in lui a discapito della ragione, per cui d'impeto scatta in piedi traballante sulla sola gamba buona e scandendo il ritmo del silenzio di quel corridoio con il ticchettio delle sue stampelle la segue.
«Althea!» La chiama a voce alta rendendosi conto solo in quell'istante quanto bene suoni quel nome sulla sua bocca - naturalmente ignaro di storpiarlo in maniera quasi abominevole, fiero della sua pronuncia italiana decisamente da revisionare.
Il leggero stridio delle ruote sul pavimento si arresta per un istante, poi fa un giro su sé stessa trovandosi quella figura un po' bizzarra a pochi metri da sé.
Le ricorda uno di quei pupazzi divertenti che apparivano nel programma The Muppets che guardava da piccola, con quei capelli ricci ancora schiacciati sulla nuca come da appena sveglio, gli occhi rattrappiti dal sonno ma pur sempre vispi e brillanti e quel sorriso tanto atipico, tanto da largo da chiedersi se le guance non ne soffrano.
È buffo. Pensa. Esageratamente buffo. Il naso prominente, un po' storto, la carnagione olivastra e quella gamba che tira sempre un po' a destra dando alla sua camminata l'impressione che stia per cadere da un momento all'altro. È proprio un cartone animato.
Vorrebbe ridere ma non ne ha le forze. Ciò che deve ammettere però, è che Daniel non è solo buffo, ma anche bello in modo estremamente anomalo, lontano anni luce da chiunque altro abbia mai definito tale.
«Ti va di andare a bere un caffè? Tanto ormai ho perso il turno» Scrolla le spalle speranzoso, tentando di non dare a vedere quanto in realtà ci tenga anche solo al fatto che lei ci stia riflettendo.
Diversi centimetri più in basso del suo sorriso però c'è il terrore. Una paura inaudita di neppure lei sa cosa.
Althea non era una che si preoccupava delle conseguenze, faceva le cose di pancia, senza pensare, era una ribelle. Dopo l'incidente le cose sono cambiate, il suo intero universo adesso si fonda sulle conseguenze di uno stupido errore, e commetterne un altro sarebbe imperdonabile.
Perché offrire a Daniel, anche solo lo spiraglio di una speranza sarebbe come spalancargli le porte della sua fortezza, perché uno come lui non si accontenta delle briciole, divora tutto.
Non è pronta ad abbattere le mura che la tengono al sicuro. Al sicuro dalla vita, dalle delusioni, dall'ennesima fonte di dolore che potrebbe riversarsi su di lei.
Perché ha così tanto dentro, ma decisamente nulla da offrire. È come un vaso che straripa d'acqua ma contiene solo fiori ormai appassiti.
Tutto questo, si dice, è troppo poco per uno come lui. Troppo capace di infrangere anche quel sorriso abissale.
«Scusa, non mi sento bene. Magari un'altra volta» lo liquida con una scusa spicciola, e senza badare al fatto che il pilota abbia già schiuso le labbra per replicare riprende la sua strada.
«Sai, la mia compagnia ha delle doti curative miracolose. Chiedi in giro, ti daranno conferma» scherza annaspando affaticato nel tentativo di raggiungerla claudicando.
Sul volto di Althea compare l'ombra di quanto più simile ad un sorriso sia mai provenuto dal profondo del suo stomaco da otto mesi a quella parte.
Nella sua mente due venti opposti soffiano in direzioni diverse, Levante e Ponente si scontrano per decretare quale sia la scelta da fare: se quella giusta, andare via, o quella che desidera, accettare l'invito.
«Va bene». Alla fine è Levante a prevalere, preannunciando la più disastrosa delle perturbazioni.
Le labbra di Daniel allora si increspano per poi tendersi in un sorriso tutto denti finché non sente le fibre delle pellicine spezzarsi. Un leggero sapore metallico gli bagna la lingua non appena le ritira in una riga dritta con lo scopo di celare quell'esagerata felicità.
Non sa se spingere la carrozzina possa rappresentare per lei un gesto di galanteria, ma poi ripensa alle parole di Raul.
Non trattarla come se avesse costantemente bisogno di cure. Una cosa del genere.
Vorrebbe darsi uno schiaffo sulla fronte quando si rende conto che per riuscire ad aiutare lei prima dovrebbe essere in grado di reggersi in piedi senza le stampelle, una prospettiva ancora fin troppo lontana.
Che poi in fondo, tutti vorremmo a fianco qualcuno che si prenda cura di noi. Tutti, ma non Althea.
L'ultima cosa al mondo che vuole è sentirsi ciò che realmente è, handicappata. La compassione, la pietà, le danno il voltastomaco ogni volta che le legge negli occhi di chi la guarda.
Se ha accettato l'invito di Daniel è per una sola ragione: lui non l'ha mai guardata così, neppure la prima volta che si sono incontrati. Perché è danneggiato come lei, la tela strappata di un quadro di fama mondiale.
Le cammina di fianco, issandosi ritmicamente ad ogni passo con l'ausilio delle stampelle. Visto da fuori è uno spettacolo patetico, due poveri disgraziati, simili ma con destini diversi. Da dentro invece, è tutta un'altra storia, una sconosciuta, ancora tutta da raccontare.
Di fianco alla clinica, solo qualche metro più in là si trova una caffetteria in stile bohemian, con delle panche in legno al posto dei tavoli, il menù scritto con il gesso su una lavagnetta, le pareti abbellite da piantine a cascata dalle foglie lucide illuminate dalla luce riflettente del sole attraverso le finestre e dalle lampadine pendenti dal soffitto.
Daniel offre con piacere in prestito una sedia ad una coppia rimasta senza, tanto ad Althea non serve. Quell'impeto gli rivolta le budella, come se non avesse mai pensato niente di più cattivo in vita sua.
Dissimula, ma nel tentativo di accostare le stampelle alla parete finisce per lasciarle scivolare per terra provocando un frastuono poiché nella caduta urtano le gambe della panca accanto alla loro.
Che figura di merda, pensa chinandosi per recuperarle mentre gli occhi dell'intero locale si posano su quel ragazzo imbranato che ha creato una caotica interruzione nel corso della loro giornata.
Riemerge un po' come una talpa dalla sua tana per poi mettersi a sedere dopo aver incastrando le stampelle per i manici nell'angolo di una parete con una leggera rientranza appena dietro Althea.
Lei non dice nulla ma lo guarda trattenendo una risata fra le labbra. Non vuole offenderlo né metterlo in imbarazzo, ma crede di non aver mai conosciuto una persona così sbadata.
«Perdonami, devo ancora abituarmi» si scusa barcollando un po' per mettersi comodo sullo sgabello.
Poggia il gomito sul tavolo sorreggendo il mento con il pugno ed è allora che Althea nota il tatuaggio che decora la sua pelle, poco più giù del polso, quasi a metà dell'avambraccio.
Free. Libero.
La libertà, l'essenza dal sapore magico che lega Daniel alla vita. Tutto ciò di cui ha bisogno Althea, tutto ciò che desidera essere, libera.
Libera da quella dannata sedia a rotelle, libera dalla sensazione di sentirsi incatenata alla Terra solo perché esiste ancora qualcuno che piangerebbe per lei, libera di morire se lo desidera.
Lui non le chiede nulla che riguardi l'incidente o le sue condizioni. Daniel parla con Althea, non con la sua sedia a rotelle, perché desidera conoscerla davvero, perché non esiste essere umano che l'abbia mai incuriosito così tanto.
La sua parlantina spigliata, le sue movenze, il modo che ha di ravvivarsi i capelli che ogni tanto gli ricadono in ricci ribelli sulla fronte. Tutto in lui sembra emanare uno charme che per Althea è come un vulcano in eruzione: uno spettacolo da ammirare da lontano, poiché più si è vicini al magma più è facile scottarsi.
In fatto di conoscenze e relazioni però, Althea ha sempre avuto un punto debole: gli uomini carismatici; e dio se Daniel trasuda carisma da tutti i pori.
Nelle sue bizzarre anomalie è l'unico che da tempo immemore è in grado di tenerle la mente occupata, riempiendone ogni spiraglio. Anche quando ormai il caffè è bello che finito da un pezzo una parola tira l'altra e del tempo è ormai sfumata via la cognizione.
Se solo Althea si rendesse conto che il sorriso che le si crea alla bocca dello stomaco non è sbagliato, che non è una cosa da cui fuggire via a gambe levate - si fa per dire - forse riuscirebbe a viversi quel momento con serenità, e invece è lì a torturarsi le mani da sotto il tavolo.
Quando ormai ha strappato via tutte le cuticole dai bordi delle sue unghie che sanguinano contro i suoi palmi, il suo sguardo si posa distrattamente su un dettaglio che la fa ridere sotto i baffi.
Daniel se ne rende conto solo quando è costretta a portarsi una mano alla bocca per non renderlo visibile ai suoi occhi.
«Che ho fatto?» guarda confuso il suo stesso petto credendo di essersi macchiato ma la risata ormai vivida e cristallina di Althea riguarda ben altro.
«Belli i calzini» fa lei con fare canzonatorio mentre i calzettoni azzurri a pois arancioni sui quali spiccano degli ananas giganti fanno capolino dai sottili risvoltini dei suoi jeans scuri.
Avvampa e se avesse uno specchio davanti probabilmente si accorgerebbe di essere rosso fin sopra le orecchie. Forse quell'incidente non ha alterato solo le sue condizioni fisiche, gli ha donato anche l'imbarazzo a lui precedente sconosciuto, o comunque sempre ben celato.
«Di ottima fattura, se vuoi domani ne porto un paio anche per te»
Ridono insieme, ed improvvisamente sembra che la caffettiera sia deserta, che la gente sia sbiadita nello spazio, dispersa nel tempo, e ci siano solo loro due rinchiusi nella loro bolla di scarabocchiata tranquillità.
«Hai una bella risata» Stupenda, avrebbe voluto commentare alla vista di come la punta della sua lingua si incastri appena tra le due arcate di denti, ma lei è così bilanciata. Ogni suo gesto è così misurato che sembra stia camminando su un filo teso nel vuoto e tema di cadere. Ciò che lo spinge a contenersi è che se lo facesse lui probabilmente non ci sarebbe lei ad impedirgli di precipitare. «Dovresti ridere più spesso».
Se ci riuscisse lo farebbe. Sapesse Daniel quanto Althea ama ridere, quella sensazione che proviene dal profondo, neanche lei sa dove, e le inonda il corpo di un brivido che ora come ora le ispira solo nostalgia.
Era tutta sorrisi Althea, adesso infranti come i suoi sogni.
Non fa in tempo a chinare il capo sulle sue mani adesso distese e rilassate sul suo sgrembo che la campanella posta in cima alla porta d'ingresso trilla annunciando l'ingresso di qualcuno. È quel rumore a spezzare la magia, e quello che ne segue.
A guardarsi intorno alla ricerca di qualcuno è un ragazzo biondo dai capelli lievemente arruffati, il profilo affilato e lo sguardo tagliente che saetta attraverso gli occhi di ghiaccio da un tavolo all'altro per poi piantarsi sul loro.
È Max Verstappen. È cresciuto molto dall'ultimo Gran Premio a cui Althea ha assistito nel vecchio salotto della casa dei genitori, allora entrambi potevano avere diciotto anni.
«Dico, la pausa caffè dell'INPS è finita o mi fai aspettare altre due ore?» Si rivolge a quello che fino a pochi secondi fa era il suo interlocutore con fare spazientito, senza curarsi degli occhi della gente che pian piano si posano su di lui mentre a grandi falcate supera le panche che lo dividono dalla loro.
Già di per sé, la battuta di cattivo gusto infastidisce Althea, ciò che però comincia ad accelerare il timer della sua pazienza è il modo in cui il ragazzo si rivolge a Daniel facendo finta che lei non esista.
Non è la prima volta che accade. Non è la prima volta che si sente tagliata fuori da una discussione perché la gente non è in grado di vedere oltre le ruote della sua sedia o la placida visuale delle sue ginocchia che si toccano inermi su di essa.
Daniel si mostra smarrito e lei è certa che lo sia. Nei minuti passati insieme ha appurato una cosa, ovvero che Daniel è totalmente incapace di simulare le emozioni. Tutto ciò che mostra è realtà nuda e cruda abbellita da una vena unica di ironia.
«Saluta Philippe Pozzo di Borgo e andiamo». Ne ha sentite tante di battute così in vita sua, le ha sentite scorrere sulla sua pelle, scivolare via come acqua, ma mai in modo così arrogante, come se lei davvero non potesse neppure sentirlo.
La goccia che fa traboccare il vaso.
«Senti un po', ma tu credi di poter parlare così solo perché sono handicappata oppure perché ti rode che abbia vinto più mondiali di te?» E per un istante la vecchia Althea pare risalire in superficie con ogni grammo di energia rimasto nel suo corpo, arrampicarsi lungo quelle pareti lisce fino a riemergere.
Quella lingua tagliente di cui i suoi genitori la rimproveravano sempre, velenosa e impertinente.
Si ritrova addosso uno sguardo di fuoco, sa che in un modo o nell'altro l'ha riconosciuta. In fondo con il troppo freddo ci si brucia, e gli occhi di Max sono talmente glaciali da divampare come fiamme. Ha toccato un tasto dolente.
Non gli da il tempo di rispondere che saluta l'australiano con tono siderale e fa per spingere le ruote della sedia fuori dalla caffetteria.
Le sembra di trovarsi in uno di quei sogni caotici in cui gli scenari mutano da un momento all'altro. Prima la paura, poi la quiete, poi di nuovo la tempesta.
Alle sue spalle, quando ormai il caldo afoso di mezzogiorno la investe fuori dalla porta, percepisce un ticchettio ormai facilmente riconoscibile.
Sente la voce di Daniel chiamare il suo nome alle sue spalle, sebbene sappia già che non riuscirà a raggiungerla accelera il movimento delle sue braccia.
Avrebbe dovuto dare ragione a Ponente quando le ordinava di declinare l'invito e andar via come se niente fosse.
Non è più tagliata per le cose normali.
Non mi ritengo particolarmente soddisfatta della riuscita di questo capitolo, l'ho scritto e riscritto ma mi sembra sempre troppo vuoto, troppo piatto, come se effettivamente mancasse qualcosa.
Alla fine, ho deciso di pubblicarlo comunque perché la storia deve andare avanti e di certo non sarà un capitolo mal riuscito a bloccarla.
In ogni caso, spero di aver reso l'idea di questa prima uscita occasionale e un po' bizzarra fra Althea e Daniel. E se in questo momento il vostro desiderio è quello di strozzare Max vuol dire che sono riuscita nel mio intento, e spero di riuscirci anche nel farvelo rivalutare più avanti😉.
Vi spoilero solo che non si odieranno per sempre quei due, per fortuna di Daniel.
Intanto voglio ringraziarvi di cuore per le 700 letture, un traguardo che sicuramente non mi aspettavo di raggiungere così in fretta. Grazie per i voti, per i commenti, per aver anche solo provato ad immergervi in questa storia, siete il mio punto di forza.💙
P.S. Per chi non avesse capito la battuta di Max, Phillippe Pozzo di Borgo è il protagonista tetraplegico del film "Quasi Amici".
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