II. The Scientist
All'interno di una stanza le cui pareti sono interamente coperte lungo tutto il perimetro da macchinari dagli schermi luminosi Daniel è disteso su un lettino rivestito da panno carta.
Se ne sta lì a guardare il soffitto e lanciare a volte qualche battuta per rompere il ghiaccio mentre Raul immette onde elettromagnetiche nella sua gamba malandata.
Il fisioterapista è un tipo alla mano, non chissà quanto socievole ma tanto da lasciarsi trasportare dalle uscite ironiche del suo paziente.
I due parlano per la metà del tempo del più e del meno senza addentrarsi in argomenti troppo personali, fin quando l'australiano non decide di tirare in ballo un elemento in particolare.
«La ragazza all'entrata...» Comincia tentando di non dar a vedere il particolare interesse verso quella discussione.
«Althea». Fa Raul con nonchalant dandogli le spalle e cominciando a disinfettare l'apparecchio.
«Sì, lei. Come ci è finita in sedia a rotelle?»
Il pilota si tira su sui gomiti per squadrare meglio il profilo affilato dell'altro assorto nel riporre gli attrezzi del suo lavoro.
«Questo sarà lei a raccontartelo, se ne avrà voglia. È una persona molto riservata, parla a stento». Spiega Raul facendo cenno a Daniel di alzarsi dal lettino porgendogli le stampelle.
Si rimette in piedi goffamente tirandosi dietro gran parte del panno carta che finisce strappato sul pavimento.
Si scusa con un'occhiata eloquente ma il moro deve esserci abituato poiché in un gesto robotico recupera i fogli da terra e li appallottola, per poi gettarli nel cestino di fianco alla porta di ingresso.
«Perdonami se te lo chiedo, c'è qualcosa tra di voi? Fuori ho visto un'intesa particolare». La sua indole curiosa, forse anche un po' impertinente non ci mette molto a venir fuori, difatti si becca di rimando una risata imbarazzata di Raul.
«Tu invece vai sempre dritto al punto, eh?» Risponde scuotendo lievemente il capo e Daniel assorto si sorprende di come neanche un singolo capello si azzardi a finire fuori posto e non seguire le diagonali tracciate dal ciuffo.
Il fisioterapista inarca un sopracciglio ed un sorriso innocente solca il suo viso dalla carnagione diafana. «Ho due figli, e non con lei. Hai campo libero, almeno credo». Gli rivolge un occhiolino e Daniel sorprendentemente arrossisce.
L'imbarazzo non è mai stato uno dei suoi punti deboli, al contrario, generalmente il suo compito è quello di sdrammatizzare nelle situazioni di tensione, non esserne l'origine.
«No ma non intendevo per questo». Si gratta la nuca mentre gli occhi si socchiudono a mezzaluna e i denti un po' sporgenti premono per venir fuori in una risata.
«Te lo hanno mai detto che non sai dire le bugie, Daniel?» Incalza l'altro mentre fa per accompagnarlo alla porta.
«Spesso» ammette un po' impacciato.
È quel tipo di persona capace di donare colori anche al grigiore di quella clinica, di rendere le cose più banali piccole fonti di vita indispensabili.
Con la sua spontaneità, il suo fare da bambino dispettoso è una ventata d'aria fresca in quella cappa di fumo che soffoca chiunque ci metta piede.
È ciò che servirebbe ad Althea, pensa Raul, per recuperare quel brandello di amore per la vita custodito nei meandri del suo cuore. Tenuto stretto, sigillato, per paura che possa esserle strappato via anche quello.
Si appoggia alla porta chiusa, così da impedire al pilota di uscire subito e chiudere lì la conversazione. «Allora magari sarebbe ora di smettere di raccontarle anche a te stesso».
«Che intendi dire?» Appare confuso, come se nonostante si stesse sempre parlando di lui non si aspettasse che la conversazione sarebbe virata così sul personale.
«La tua gamba non è ridotta poi così male, la recupererai anche se con un po' di fatica, ma sarà difficile tornare ad essere il pilota di una volta».
Daniel si sente carezzare una spalla, come ad un bambino a cui si dice che il suo cagnolino è stato portato in campagna.
Sul volto di Raul fa da padrona l'amarezza. Chissà quanta gente passata di qui si sarà sentita dire le stesse cose, pensa Daniel, chissà quanta gente ci ha creduto davvero.
Ma in fondo se lo aspettava che prima o poi sarebbe arrivato quel momento, quello in cui un segno del destino gli avrebbe spiattellato in faccia la verità.
La voce della sua coscienza risuona fra le pareti della sua mente in un eco insopportabile, ma in fondo non si sbaglia poi così tanto.
È il passato. Daniel Ricciardo, il talentuoso pilota RedBull è solamente il passato, un lontano ricordo. Forse il suo tempo è scaduto, forse la clessidra che gli permetteva ancora di riempirsi cuore e polmoni di ciò che più ama al mondo si è capovolta, e la sabbia è scivolata via.
I pensieri lo tormentano. Sin da bambino ha sempre pensato che avrebbe corso per tutta la vita, invece forse avrebbe dovuto dare ragione a Max quando gli diceva di fermarsi finché era ancora fra i grandi, di non ridursi ad essere l'ombra sbiadita di una leggenda come tanti altri.
«Sono anni ormai che non sono più il pilota di una volta, non mi aspetto grandi sorprese». Dissimula, dichiarandosi rassegnato.
«Fai bene, meglio tenere basse le aspettative».
«Hai detto le stesse cose anche a lei?» Un lampo risveglia i suoi occhi che in un guizzo risalgono dal camice fino al volto di quel giovane uomo.
In quel momento ricorda che lì fuori, ad aspettare, c'è qualcuno che un po' gli assomiglia. Qualcuno a cui le macerie del mondo che aveva costruito stanno crollando rovinosamente addosso.
È questo che lega costantemente il pensiero di Daniel a quegli occhi di caleidoscopio, il modo in cui per entrambi un singolo errore sia stato capace di ribaltare da capo a piedi una vita intera.
«Althea non tornerà più a fare la ginnasta, non tornerà più a camminare» confessa chinando il capo amaramente.
Daniel sente la terra tremare sotto ai suoi piedi, come se il centro della Terra avesse deciso di collassare proprio in quel momento, lasciando che pian piano le placche si disintegrino fino a giungere al pavimento di quella stanza.
Quanti anni avrà quella ragazza? Ventiquattro, venticinque? Si chiede. Forse anche lei, come lui, si sente il passato, in uno sport in cui gli anni d'oro giungono al termine poco dopo i venti.
Ma Althea non avrà più la possibilità di dimostrare il contrario, di insegnare al mondo che l'età non è la morte della carriera.
Una farfalla dalle ali spezzate a cui è stata strappata via la magia di sentirle sbattere dietro la sua schiena e spiccare il volo.
Una vita passata in bilico su una trave per poi ritrovarsi a costruire un equilibrio su una sola metà del corpo, come se l'altra l'avessero tagliata e poi buttata via.
Quel corpo che come il suo è stato teatro della distruzione, ma che al contrario di Daniel, non sarà mai più in grado di riaprire il suo sipario.
In un istante di egoismo si ritrova ad essere grato per non aver sfiorato la possibilità di finire come quella ragazza, però poi la coscienza rimorde, e forse per non sentirsi annegare nel senso di colpa affonda nella curiosità.
«E allora perché fa riabilitazione?» Chiede spingendosi involontariamente in avanti.
Per non perdere l'equilibrio si aggrappa ad uno di quei tavolini con le ruote su cui di solito i medici adagiano i loro attrazzi, facendoli cadere per terra rovinosamente.
È sempre stato fin troppo maldestro, ma l'ausilio delle stampelle non ha fatto altro che incrementare la sua tremenda inclinazione alle brutte figure.
Si scusa ripetutamente con il fisioterapista e tenta di chinarsi a raccogliere quanto rovesciato ma finisce soltanto per provare un dolore lancinante alla gamba.
L'altro se la ride sommessante. Sul suo volto non c'è neppure un guizzo di insofferenza per il danno appena provocato dal suo paziente, semplicemente anch'egli si china per radunare in una valigetta tutti gli utensili.
Forse per distrarre Daniel, già paonazzo in viso, riprende la loro precedente discussione, lasciando che su quel piccolo disastro cali un velo pietoso.
«Ci sono tanti motivi medici, la prevenzione dalle piaghe da decubito e dalla spasticità, il mantenimento della mobilità articolare. Ma penso che per lei si tratti di altro». Spiega assorto, chiudendo con un solo gesto della mano la cerniera di quella valigetta per poi rimettersi in piedi e poggiarla distrattamente su uno dei macchinari.
«Non chiedermi cosa, la risposta è la stessa. Te lo dirà lei quando ne avrà voglia» taglia corto poi, senza dargli neppure il tempo di aprire bocca.
Mentre si salutano, a Daniel balenano in testa i mille motivi per cui Althea desideri frequentare quella clinica, ed il solo e unico che lo tormenta davvero è il bisogno di aggrapparsi all'ultima speranza, anche quando non c'è.
Rimanere appesi ad una corda per non precipitare, anche quando ormai si è spezzata, perché mollarla significherebbe accettare di star cadendo nel vuoto mentre il fondo si fa sempre più vicino.
«Daniel!» La voce di Raul alle sue spalle richiama la sua attenzione e si volta ad ascoltare cosa abbia ancora da dire. «Non trattarla come qualcuno che deve essere costantemente accudito, non è quello che vorresti per te».
È la verità, ma Daniel non ha idea da quale ferita lasciata aperta Raul sia riuscita a tirarla fuori. Non ha idea di come faccia a sapere che da quella mattina ogni volta che batte le ciglia il volto di quella ragazza sembra riaffiorare dentro di lui.
Annuisce e basta, poi si incammina da solo lungo il corridoio infrangendo circa ogni due secondi il silenzio con il rumore delle stampelle che aderiscono al pavimento per poi staccarsi nuovamente.
Fuori dalle porte del reparto la trova ancora lì, su quella stessa sedia di plastica azzurra sulla quale non si è accorta di essere leggermente scivolata, facendo lo stesso in un sonno profondo con gli auricolari nelle orecchie.
È tentato di svegliarla. Sarebbe la cosa più giusta da fare, avvisarla che il suo turno è arrivato e poi filare via, visto che Max probabilmente è già lì sotto da venti minuti ad aspettarlo impaziente come sempre. Ma non lo fa.
Daniel non lo fa.
Bensì prende posto accanto a lei, non più con una seduta di distanza, forse con neanche due centimetri a dividere il suo fianco da quello della ragazza.
Le sfila una cuffia e la indossa al suo posto, lasciandosi cullare da una canzone che da ragazzino faceva da colonna sonora alle sue delusioni.
The Scientists dei Coldplay concilia il sonno di Althea, mentre Daniel, appena appropriatosi di uno dei suoi auricolari, guarda dritto davanti a sé, per non rimanere impigliato nella bellezza angustiata di chi dorme al suo fianco.
Vorrebbe sorreggerla per la vita ed aiutarla a rimettersi a sedere composta. Probabilmente la sua schiena sarà in pezzi appena sveglia, ma le sue gambe non avranno il compito di assisterla per rimettersi in piedi.
Il cellulare gli vibra in tasca ripetutamente e lui ride senza guardarlo, immaginando Max che digita scocciato sulla tastiera del cellulare domande bizzarre, del tipo se gli stiano facendo anche un clistere oltre alla terapia.
È fatto così il suo migliore amico, il suo esatto opposto, sempre scontroso e con quell'aria da narcisista egocentrico pieno di sé. Con quel suo modo di affrontare tutto a muso duro, talmente duro che quando ci va a sbattere le barriere crollano.
Forse se fosse nato come Max anche lui sarebbe uscito illeso da un impatto dall'intensità di cinquantuno G, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Ma lui è Daniel, lui cade, non come Max che gira e rigira è sempre in piedi. Daniel cade continuamente, si fa male e ci riprova, ha sette vite come i gatti, e dovesse sprecare anche la settima si farebbe abbonare l'ottava solo sfoggiando uno di quei suoi sorrisi enormi.
Daniel è Daniel, e come lui ce ne sono pochi, ma deve ancora scoprirlo.
Deve ancora scoprire che la sua ottava vita se ne sta lì inerme di fianco a lui, ad annegare nei sogni sulle note di quella canzone.
È ancora ignaro di tutto quando agli sgoccioli di quella melodia restituisce silenziosamente la cuffietta alla sua proprietaria, recupera le stampelle e dopo un ultimo sguardo si allontana verso l'uscita.
Lungo quei corridoi pieni di spigoli che sembrano ripiegarsi dietro le sue spalle si avvia verso l'ossigeno che gli manca lì dentro.
Oltre le porte automatiche trova Max con il sedere poggiato alla fiancata della sua Aston Martin senza perdere di vista lo schermo dell'orologio digitale che gli fascia il polso.
Sbuffa sonoramente non appena alza lo sguardo su di lui, «È l'ultima volta, domani torni a piedi» pronuncia a mo di minaccia.
È sempre l'ultima volta, lo è da cinque anni a quella parte, ma in fondo Max è sempre lì ad aspettarlo e lamentarsi dei suoi canonici sei minuti di ritardo, oggi diventati tredici.
«Ho una stecca di ferro fissata da chiodi nella gamba, sarò giustificato ad essere lento, no?» Scherza invitandolo a spostarsi con una pacca sulla spalla per poter salire in macchina.
Max una volta aperto lo sportello con teatrale ossequiosità prende le stampelle dell'amico per poi allontanarsi con lo scopo di sistemarle nel cofano.
Raggiunge successivamente il sedile del guidatore mentre l'altro può sgusciare comodo su quello del passeggero.
«Vallo a dire a Brown, vediamo se sei giustificato» inarca le sopracciglia in risposta lanciandogli un'occhiata eloquente.
La nuca di Daniel aderisce al poggiatesta e ruota lievemente il capo per squadrare il profilo acuminato di Max tagliare in due la visuale della città oltre il suo finestrino.
«Quanto ci metterà a sostituirmi secondo te?» Domanda remissivo, tanto che il compagno di fianco per poco neppure lo riconosce.
Il biondo sospira pesante, poi ingoia a vuoto facendo sì che il suo pomo d'Adamo tracci due volte la lunghezza del suo collo, «Sbrigati Dan, sbrigati a guarire» Dice soltanto con un tono di voce grave.
Daniel è uno dei migliori piloti con cui abbia mai gareggiato fianco a fianco, ma soprattutto è il suo migliore amico, forse la persona a cui Max tiene di più al mondo, nonostante gli sia difficile ammetterlo per via del suo carattere piuttosto chiuso.
Non ha mai voluto così bene neanche alla sua famiglia, non quanto ne vuole a Daniel. L'unico motivo valido per mandare una gara a puttane con una manovra quasi mortale dopo averlo visto schiantarsi contro la barriera.
L'unico motivo valido per farsi quasi soffiare definitivamente il mondiale da Lewis Hamilton.
Per Max, Daniel è l'unico motivo al mondo per cui valga la pena perdere.
E adesso, vederlo così è come un tritacarne che gli divora lo stomaco, un magone alla gola tanto grande da ostruire non soltanto il respiro poiché si estende a macchia d'olio come una metastasi, fino ad avvolgere ogni centimentro del suo corpo.
Vedere Daniel, quel concentrato di vita capace di far saltare in aria il mondo intero con una delle sue idee folli, sbiadirsi lentamente, come l'alone di una macchia di detersivo, è deleterio.
Per questo, mette in moto mentre l'amico riempie il silenzio accendendo la radio da cui proviene una canzone che nessuno dei due conosce, ma entrambi non ci fanno caso.
Al moro piacerebbe sapere cosa passa per la testa dell'amico, d'altro canto Max preferisce tenere sotto custodia segretissima i suoi pensieri, poiché oltre quel velo malinconico che sembra essere calato sul suo viso, di Daniel riscopre una scintilla di una luce nuova, mai vista prima.
Gli piacerebbe conoscerne l'origine, viaggiare fino a raggiungere la visione della genesi di quella miccia che minaccia di esplodere con la stessa lentezza con cui il mondo si sta estinguendo intorno a loro, calpestato dalle ruote della Aston Martin.
Invece, non fa altro che cambiare canzone e riaccompagnare suo fratello mancato al palazzo che include l'appartamento sito a qualche minuto dal suo in quel del Principato di Monaco.
Gli restituisce le stampelle aprendo la portiera dell'auto e dopo un saluto amichevole lo osserva andare via con quell'andatura sbilenca e un sorrisetto ebete che gli solca il viso da circa metà del viaggio.
Si chiede chi sia quel sorriso, a chi appartenga davvero, perché non è un sorriso alla Daniel Ricciardo quello che a Max rimane impresso sotto le palpebre come l'inchiostro di un tatuaggio.
È un sorriso alla Althea Taviani, con un solo angolo della bocca all'insù a scavare una fossetta nella guancia mentre il resto sembra voler scomparire in una linea curva sottile, ma questo Max ancora non lo sa, neppure Daniel lo sa.
Perché sono otto mesi che il mondo ha dimenticato cosa sia anche solo l'ombra di un sorriso sul volto di Althea.
Otto mesi che di lei non rimane altro che un ammasso di carne, ossa e circostanza, mentre il suo unico desiderio è quello di sprofondare nell'abisso che ha dentro, di restarci, fino a dimenticarsi anche l'inerzia di provare a risalire.
Daniel vorrebbe vivere in eterno solo per riuscire a fare ogni cosa al mondo, perché chiuso oltre le porte di quell'ascensore si rende conto che gliene mancano ancora molte.
Althea non desidera altro che morire, togliersi dai piedi quella maledetta sedia a rotelle una volta per tutte. Perché anche il suo ultimo sogno è andato in frantumi, perché senza saltare non si può imparare a volare.
Max vorrebbe che Daniel potesse avere un tasto reset ed usarlo per non imbattersi in una simile tragedia, ma non sa che l'incidente è soltanto l'inizio.
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