I. Boulevard Of Broken Dreams
A volte l'amore snaturato che la gente è capace di provare verso i propri sogni è proprio ciò che al mondo miete più vittime.
La sensazione di potersi rigirare il mondo tra le dita come fosse una biglia per poi inghiottirlo con l'unico scopo di riempirsi il cuore può essere il modo perfetto per soffocare.
Mandare tutto giù e poi rendersi conto che i tuoi palmi sono vuoti, così come il tuo stomaco, perché il cosmo è lì, incastonato a metà della trachea.
Hai perso tutto, ma non riesci comunque a lasciarlo andare.
È questo ciò che prova Daniel al suo primo giorno di riabilitazione dopo l'incidente che gli ha impedito di correre la sua seconda stagione con la scuderia McLaren.
Con un universo intero ad ostruire ogni spiraglio da cui poter respirare.
Eppure sorride a Raul, colui che gli si presenta come il suo fisioterapista, dal ciuffo a mo' di cresta di gallo per via del gel e una macchia di marmellata appena visibile sul camice bianco.
Si lascia condurre lungo il corridoio di una sala d'aspetto con l'ausilio delle stampelle a reggere il suo passo sincopato.
Quelle due aste d'acciaio coperte da una parte in gomma nei manici sono come due protesi che a costo di strisciare per tutta la vita vorrebbe strapparsi via.
Ha sempre preso tutto di petto Daniel, ma mai così tanto di cuore. Mai niente aveva fatto così male da riuscire a contaminare la sua allegria genuina fino a trasformarla soltanto in una facciata di cortesia.
Raul gli indica una delle sedie in plastica blu sistemate a schieramento di fronte alle porte del reparto per poi dirgli di aspettare lì ancora qualche minuto.
Infine, il fisioterapista gli dà una pacca sulla spalla, come a voler dire niente di irriparabile, ma Daniel sa che dopo quell'incidente qualcosa in lui si è rotto, e non solo fisicamente.
I pezzi di ciò che ha perso però, sono sparsi per la pista, laddove uno schianto dall'intensità di cinquantuno G l'ha scaraventato in una realtà che prima d'ora aveva vissuto solo nei suoi incubi.
L'uomo in camice bianco si igienizza le mani sfregandole fra di loro più volte prima di rivolgergli un sorriso cordiale e sparire oltre le porte del reparto di ortopedia.
Il moro, nella sua costante iperattività non fa che spostare le stampelle da un lato all'altro della sedia, mordicchiarsi le unghie, sfregarsi le dita sugli occhi per poi affondarle nei ciuffi ricci.
«Prima volta?» una voce lo desta dai pensieri che lo tormentano e non appena le rivolge la sua attenzione si ritrova davanti qualcosa che non fa altro che risvegliare in lui la convinzione che la vita se la prenda sempre con le persone sbagliate.
Qualche ciuffo di capelli castani le incornicia il viso dai lineamenti dolci mentre il resto le ricade sulle spalle in soffici onde.
Gli occhi di caleidoscopio in cui diverse gradazioni di marrone e verde si fondono sono spenti, vacui, come se ne fosse stato risucchiato via ogni residuo di vita.
Con l'aiuto delle proprie mani, senza che Daniel - destabilizzato - faccia niente, si sforza di issarsi dalla sedia a rotelle per occupare una di quelle di plastica.
Vicino a lui, ma non di fianco. Con una seduta di distanza, a fare da separè.
Il ragazzo non le stacca gli occhi di dosso con l'impressione di aver già visto da qualche parte quegli occhi, ma non quello sguardo.
Non risponde alla sua domanda, è più che evidente che fosse retorica, e che lui provi la stessa sensazione di un pesce fuor d'acqua sul punto di rigettarsi in mare.
In quello sguardo Daniel ricorda la vita, i lampi di felicità che saettavano ad ogni volteggio visto dallo schermo della TV le poche volte che aveva il tempo di passare a trovare i suoi genitori.
Di colpo l'immagine annebbiata della somiglianza di quel volto scuro a quello di una stella che un tempo brillava di luce propria squarcia i suoi ricordi come un fulmine a ciel sereno.
«Ma tu sei Althea Taviani, la ginnasta» afferma sicuro, pronunciando il suo nome con una cadenza pessima che arrotonda la t e la h in una specie di f, trasformandolo praticamente nella scuola delle Winx.
La guarda insistentemente mentre altre parole aleggiano a mezz'aria, incerte se uscire oppure no dalla sua bocca. Si comporta come uno di quegli ammiratori increduli di aver appena incontrato l'idolo del momento, beccandosi di rimando un'occhiata satura di malinconia.
Lo era, forse prima che le ruote assumessero la forma delle sue gambe, dimenticando la potenza di uno slancio, i brividi di un salto.
Lei però, in quel corpo a cui sono ridotte le ceneri di una campionessa, nasconde ancora tutti i volteggi del suo cuore, congelati in una bolla senza tempo.
«E tu Daniel Ricciardo, il pilota di Formula 1. Il mondo è piccolo ma avrei preferito incontrare da un'altra parte una celebrità, magari in uno di quei famosi locali a Monte Carlo». Scrolla le spalle reclusa nel silenzio ermetico in cui si cala per estraniarsi da quella bizzarra presentazione.
Daniel sorride, ma il suo volto non è solcato da uno di quei sorrisi a trentadue denti, uno di quelli che gli scavano le guance fino a farsi male.
Quello di Daniel è un sorriso di labbra, chiuse come se gliele avessero cucite. Un sorriso di rimpianti, per aver vissuto forse troppo, ma mai abbastanza.
Per aver corso a perdifiato dietro i suoi sogni rimanendo con in pugno un cumulo di nulla cosmico.
Si somigliano, loro due. Hanno versato lacrime amare per raggiungere la vetta, e la vita li ha spinti giù al momento dell'ultimo gradino.
Entrambi dopo anni di sangue e sudore avrebbero potuto raggiungere la gloria, e invece si ritrovano lì, a fissare assorti un orizzonte a caso.
Lì, dove i grandi dello sport vanno a finire quando la vela decide di virare dal lato sbagliato portandoli alla deriva.
Lì, dove si infrangono le stelle. E di loro nel firmamento non rimane altro che la magia del ricordo.
«Ma tu quest'anno non eri candidata alle Olimpiadi?» Si sforza di domandare l'australiano, anche se dopo aver pronunciato quelle parole sente di essere stato indelicato, di aver girato il dito nella piaga.
Lei piega gli angoli della bocca all'insù, senza mai lasciarli sfociare in un reale sorriso, poi annuisce.
Forse un giorno questo ragazzo tornerà a correre, è ciò che balena per la mente di Althea, ma lei non sentirà mai più la sensazione del respiro in equilibrio sulla trave, dello stomaco che si contorce con le mani aggrappate alle parallele.
Althea è destinata a vivere il resto dei suoi giorni sul sedile di quella carrozzina e il sogno della sua prima Olimpiade è scivolato via dai suoi palmi come sabbia, come la forza è sfumata via dalle sue gambe.
Per lei vivere ormai è ridotto a qualcosa di automatico.
Più che vita la sua può chiamarsi esistenza, poiché l'unico motivo per cui a suo parere si trova ancora al mondo è quello di dover scontare chissà quale castigo divino che la condanna ad essere il residuo di una campionessa.
Solo ciò che ne rimane.
Le porte del reparto si spalancano al passaggio di un ragazzo sulla ventina, accompagnato probabilmente dalla madre, che saluta goffamente Raul prima di andare via.
Non appena si accorge della sua presenza il fisioterapista rivolge alla giovane ex ginnasta un'occhiata quasi da fratello maggiore.
Daniel si ritrova a pensare che i due debbano conoscersi ormai da molto. Ipotizza, anche se un po' con l'amaro in bocca, che fra di loro possa esserci qualcosa che vada oltre il semplice rapporto medico - paziente.
«Come vanno i dolori, Althea?» Domanda l'altro premuroso, stirandosi il camice con le mani.
Sono atroci, tutte le notti, mi sembra di poter morire soffocando le urla in quel maledetto cuscino, vorrebbe rispondere, ma lo liquida con un: «Meglio, grazie».
È il fenomeno dell'arto fantasma a darle il tormento.
Le sue gambe sono ancora attaccate al suo corpo, ma è come se le avessero tagliate via, e nonostante non reagiscano ad alcun tipo di stimolo, ogni notte quando le distende sul materasso sembra che qualcuno si diverta a dilaniare le sue carni come un macellaio.
Nessuno la sente, affonda il viso nelle lenzuola tanto da riuscire ad attutire le urla disperate di dolore fin quando l'aria non le viene a mancare.
Odia sentirsi dire che tutto andrà bene, perché desiderare di morire ad ogni calar del Sole non è qualcosa che potrà mai avere un lieto fine.
Non vede l'ora che ogni notte finisca, e al tramonto la paura si accresce in lei fino ad annodarle la gola.
Anche se costretta a passare tutte le mattine lì quantomeno è lontana dai demoni del buio della sua camera da letto.
Anche se il suo unico desiderio varcate le porte della clinica è quello di fuggire via. Le stanno strette le sue pareti spoglie, le pretese dei pazienti, la puzza di disinfettante.
Rincorsa, salto raccolto avanti e un atterraggio perfetto laddove tutto questo è solamente un incubo da cui risvegliarsi.
Raul invita Daniel a seguirlo, e in un momento di distrazione del fisioterapista il ragazzo dalla gamba fasciata da un ingombrante tutore si volta e sottovoce le chiede: «Sei qui anche domani?»
Lei risponde di sì soltanto con un'alzata di sopracciglia, come per chiedere sarcasticamente: dove altro potrei andare?
Il pilota sfoggia un sorriso spontaneo, questa volta uno di quelli alla Daniel Ricciardo, che per un'istante abbaglia la vista della ragazza.
I due uomini si dirigono verso le stanze dedicate ai macchinari utili alle esigenze di Daniel, mentre Althea, per ingannare l'attesa infila lo spinotto delle cuffie nel jackpot del cellulare per lasciare che gli auricolari scivolino ad accarezzare i suoi timpani.
Lei è sempre lì, ogni giorno con un'ora di anticipo. Odia i ritardi, sono quelli a contaminare il ritmo cadenzato del tempo secondo quale la Terra gira.
Sono i ritardi a mandare tutto all'aria, e non si tratta solo di appuntamenti rimandati. È colpa di un ritardo, di un passo falso, se ogni giorno Althea è rinchiusa nella sua bolla di demoni a quattro ruote.
Probabilmente a lungo andare quella clinica da gabbia si tramuterà in casa, ma fino ad allora per Althea casa rimarrà il GAMBA prima di ogni gara.
Nel frattempo, sulle note del pezzo che avrebbe fatto da base alla sua esibizione, immagina ad occhi chiusi il dorso della schiena barcollante per via della gamba offesa di quel ragazzo appena incontrato.
La sua pelle ambrata, i muscoli contratti delle spalle e il ticchettio delle stampelle che rompono il silenzio aderendo alle piastrelle del pavimento.
Dallo strascico di quel passo a mo di punto e virgola nella sua mente si genera una corsa, e d'improvviso non è più Daniel il protagonista di quella visione, è di nuovo lei.
Lei che si libra in aria in un esecuzione perfetta di un salto che ha abbandonato le scene ormai da tempo immemore.
Lo stesso salto che l'ha portata lì, dove aprendo gli occhi si ritrova di fronte alla realtà.
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