Quindici

Mi specchio per l'ultima volta, lanciando l'ennesima occhiata allo sguardo incuriosito del giovane uomo che mi si riflette davanti. C'è una luce singolare nei suoi occhi color pioggia, una trasparenza che non notavo da tempo, forse troppo; un'eccitazione che non credevo avrei più intravisto dietro a quel pesante velo di inquietudine che ne offuscava la vitalità.

Sorrido a me stesso, scuotendo il capo per l'incredulità, mentre le immagini della notte scorsa si infiltrano sornione tra i miei pensieri. Le mani di Lex sul mio viso, il dolce suono della sua voce che mi implora di calmarmi, il respiro leggero sulle mie labbra, mentre con quel suo bacio tenta di assicurarmi che andrà tutto bene, che in fondo anche lei non può più fare a meno della mia presenza.

Perché è questo che siamo, Lex ed io, due sistemi isolati che si sono incontrati per qualche stramba legge della fisica, due corpi a sé stanti che sono giunti alla perfetta condizione di entropia. E il bacio di ieri sera, ne è la prova calzante. Mi sento ancora pervadere da quell'energia incandescente, quello stesso ardore che si è diffuso dalle sue membra per infiltrarsi nelle mie, proprio nell'istante esatto in cui le nostre labbra si sono incrociate. Avverto di nuovo sulla pelle quella sensazione di calore rovente che si è fatto strada fino al mio cuore, diramandosi poi inevitabilmente in ogni cellula del mio essere.

Il suono del campanello mi riporta alla realtà e mi costringe ad allontanarmi dalla cabina armadio per dirigermi verso l'ingresso. Il cuore è in tumulto e quando spalanco la porta per accogliere Lex, per poco non manca un colpo . La osservo incantato per qualche secondo, prima di afferrarla per i fianchi e attirarla a me, respiro contro respiro. E ci provo ad aspettare, a far funzionare il cervello, ad ascoltare quella vocina che mi suggerisce di andarci piano, ma non ci riesco. Premo le labbra sulle sue, come ho fatto ieri sera, e respiro il suo sapore stringendola a me, percependo appena il suono del suo bastone che scivolandole di mano cade a terra, perché le sue dita sono troppo impazienti di infilarsi tra i miei capelli. Restiamo incollati per qualche minuto e quando lei si scosta ansimando lievemente non posso fare altro che sorridere.

I suoi polpastrelli si posano delicati sulla mia bocca, alla ricerca del mio sorriso, e quando lo trovano la sento sussurrare: «Ti sono mancata per caso?»

«Non è che potresti chiedermelo di nuovo dopo un altro bacio? Mi manca l'aria...» bisbiglio.

«Cerchi di fare il cascamorto con me, Avvocato Braxton?»

«Lo sai che non farei mai nulla per metterti a disagio, vero?» replico in preda a un crescente sentore di panico. «Lo sai che non sei costretta a fare nulla che tu non voglia...»

Il suo sorriso si spegne all'istante, mentre la sua mano scivola di lato ad accarezzarmi il volto ben rasato. «Rilassati, Chris... facciamo un passo alla volta, okay?»

Sospiro nel vano tentativo di liberarmi di quella lieve sensazione di angoscia che mi perseguita ogniqualvolta mi avvicini troppo a Lex, quasi fossi cosciente di camminare su un campo minato e avessi il terrore di far svanire nel nulla quel poco di confidenza conquistata con tanta fatica. E nel perdermi in quei suoi occhi scuri, mi sento assalire da quel dannato stato di contrizione che invano ho tentato di relegare nell'angolo più oscuro della mia psiche, e che continua quindi a fermentarmi nell'animo. Di cosa sto parlando? Beh, di quel senso di colpa che mi attanaglia le viscere per non avere ancora trovato il coraggio di parlarle di Serena, per non saper affrontare nuovamente quel diavolo indomabile che è il dolore per la perdita di mia moglie. Perché la verità è che sono terrorizzato, letteralmente. E non mi riferisco a Lex o al sentimento che sento crescere giorno dopo giorno nel mio cuore, bensì a quello che potrebbe accadere se le poche certezze che ho, quelle che stringo nel pugno quasi avessero la consistenza della polvere, potessero svanire da un momento all'altro, portando con sé quel briciolo di speranza cui mi aggrappo con tanta determinazione per non scivolare nuovamente nell'apatia.

Annuisco debolmente contro le sue mani, prima di raccogliere il bastone e condurla in casa. Il soggiorno è illuminato unicamente dalle candele, la musica aleggia lieve per la stanza e il profumo della sua pelle mi invoglia a stringerla nuovamente tra le braccia. Afferro la sua borsa per sfilargliela dalla spalla, ma inavvertitamente mi muovo troppo in fretta, scatenando una reazione a catena disastrosa. Lex sussulta per lo spavento, prima di tentare di riprendere la shopper vintage dalle mie mani, che cade a terra rovesciando il proprio contenuto sul pavimento. Impreco a bassa voce, chinandomi per rimettere tutto in ordine, quand'ecco che mi si gela il sangue nelle vene.

Mi ritrovo tra le mani un modulo riportante i dati anagrafici di Lex, in alto, a sinistra, l'albero della vita a mo' di logo e sotto la frase: "Il diritto di essere figli". Mi alzo lentamente, dimentico della borsa sul pavimento tanto sono impegnato a leggere quelle poche righe che mi infondono un senso di inquietudine mai provato, il cuore che batte veloce e le dita che tremano leggermente. «E questa che roba è?!» chiedo in un sussurro.

Lex inarca le sopracciglia, prima di chiedere: «Di cosa parli, Chris?»

«Di... questo... Lex, che cazzo è? Un'agenzia di adozioni?! Che cosa... non avrai intenzione di...» blatero con la voce arrocchita dall'angoscia inaspettata che mi ha ridotto le gambe alla stregua di due fogli di gelatina.

«Non sono affari tuoi, Chris» replica gelida, le braccia tese in modo incerto di fronte a sé, per poi abbassarsi piano nel tentativo di recuperare le sue cose.

La afferro per un polso, costringendola ad alzarsi per scrutare in quello sguardo di cioccolato fuso ancora una volta, per cercare di capire se è davvero ciò che vuole. «Vuoi davvero abbandonare quel bambino?»

«Lasciami andare, Chris!» sbotta strattonando il polso intrappolato nella mia mano.

«No. Non ti lascerò finché non sentirò uscire dalla tua bocca che questo bambino non lo vuoi!»

Lex serra le palpebre, quasi fosse cosciente che l'ho letto in fondo ai suoi occhi che liberarsi della creatura che le sta crescendo in grembo non è davvero ciò che desidera. Le lacrime le scendono sul viso, mentre si porta una mano alla bocca per soffocare un singulto, infine, dopo un sospiro, mormora: «Non ho altra scelta».

La lascio andare e stringo le dita nei pugni chiusi per accantonare l'istinto di afferrarla di nuovo, prima di replicare: «Lo sai che non è così. Tu hai già deciso di donargli la vita... e lo so che posso solo lontanamente immaginare quanto sia spaventosa l'idea di rivedere in quel bambino tutto ciò che ti è successo... ma lui non ha colpe...»

«Ci devo riflettere, Chris. È una decisione che spetta a me, e per quanto tu...» Le parole sembrano morirle in gola, mentre sospira e si porta una mano alla fronte, prima di concludere dicendo: «Per quanto tu sia importante, non voglio che ti affezioni troppo all'idea che certamente ti sei fatto di noi».

«E che idea mi sarei fatto di noi?! Sentiamo... sono curioso...» replico acido.

«Credi che potremmo essere una famiglia, ma io non ho intenzione di rovinarti la vita... te lo ripeto: non sono affari tuoi!»

«Lex» ringhio avvicinandomi. «Tu sei affar mio, è chiaro? Lo sei perché... dannazione, davvero non ti accorgi di cosa stai facendo?!»

La osservo mentre cerca con le mani la seduta del sofà per accomodarsi, affondando le dita tra i capelli sciolti. Poi, con la voce che lascia trasparire la frustrazione, ammette: «No, Chris... che cosa starei facendo di tanto eclatante?»

Cado in ginocchio dinnanzi a lei, afferrandole le mani per portarmele al petto, catturando la sua attenzione. Il silenzio cala pesante su di noi, mentre io mi perdo tra i miei pensieri alla ricerca di quel coraggio che ho smarrito, perché glielo vorrei dire in tutte le lingue del mondo come mi sento, perché vorrei anche urlarlo a tutti i venti esistenti se solo ci riuscissi. Invece mi ritrovo a deglutire, in balia di quel solito sentimento a cui ho il terrore di attribuire un nome, a cui mi rifiuto di dare un appellativo. E, dannazione, se non trovo il modo di catturare quel demone mutaforma furibondo, quello che mi impedisce di liberarmi del passato, lo stesso che modifica la propria sostanza per colpire esattamente dove il mio animo presenta già delle crepe, sono certo che la felicità cui aspiro tanto prepotentemente non arriverà mai.

«Mi dai un motivo per voltare pagina, Lex. Lo fai ogni giorno... e... per quanto possa essere complica-»

«Voltare pagina?» chiede lei interrompendomi. «Che cosa significa? Da cosa stai scappando, Chris?»

Il respiro mi si smorza in gola, mentre il mio mostro personale sfodera gli artigli per aggrapparsi al mio cuore. Lo sento agitarsi, il terrore, compiacersi di avere ancora una volta il potere di soggiogare la mia mente, tanto da indurmi a mentire: «Era solo un modo di dire».



Ci siamo sentiti spesso durante l'ultima settimana. Lex e io intendo, tra messaggi e telefonate abbiamo sopperito alla mancanza di tempo per vederci, quasi come due adolescenti dipendenti dallo smartphone. E abbiamo parlato di molte cose, tranne che dell'assurda idea di dare in adozione il suo bambino.

Sbuffo fuori il fumo della sigaretta, relegando in un angolo remoto della mia mente il senso di colpa per non aver avuto le palle di raccontarle di Serena quando, l'ultima volta che ci siamo visti, me lo ha chiesto. Fisso distrattamente le auto che si fermano nel parcheggio riservato agli uffici del Procuratore Distrettuale, dove avrei dovuto incontrare Dean più o meno dieci minuti fa, sospirando per l'impazienza. Sto imprecando a bassa voce, mentre ricontrollo i messaggi sul telefono, quand'ecco che la mia attenzione viene catturata da un'auto che definire singolare è un eufemismo.

Il delizioso ringhio del motore di una spettacolare Mercedes Ali di gabbiano si acquieta in prossimità dell'ingresso del palazzo, la carrozzeria di un classico grigio metallizzato che risplende ai raggi del sole mattutino, mentre la portiera dal lato del conducente si alza con un movimento elegante. Ma non è tanto l'auto a farmi restare a bocca aperta, quanto la persona che ne esce sistemandosi il nodo alla cravatta color cobalto, prima di infilare una giacca di ottima fattura. Bill Price controlla l'orologio da polso, prima di avviarsi con passo distinto verso le porte a vetri del grattacielo.

«Ehi! Che cosa stai guardando?» chiede una voce maschile alle mie spalle.

Mi volto di scatto, tentando di non imprecare mentre incontro gli occhi verdi di Dean, infine borbotto: «Vuoi farmi prendere un infarto?!»

«Buongiorno anche a te, Mister Simpatia!» mi apostrofa acido, mentre chiude i bottoni della giacca nera lasciando vagare lo sguardo per il parcheggio. «Oddio... ma quella... ehi, ma l'hai vista quella Mer-»

«È di Price!» sbotto interrompendolo. «L'ho visto arrivare, poco fa... Alice non c'è, credo sia un bene...»

«Ne sei convinto? Dio, Chris... e se il giudice non dovesse accettare il patteggiamento?» chiede con voce tremante, mentre ci avviamo a passo deciso verso la porta a vetri.

Gli lancio un'occhiata furtiva, mentre sulle labbra mi si apre un ghigno malefico, poi, con tutta la sicurezza che ho, replico: «Beh, in quel caso lo distruggerò in aula».



Okay, l'incontro preliminare non è andato esattamente come speravo. Già, avete capito bene... il giudice non ha accettato il patteggiamento, fissando la data dell'udienza tra qualche settimana, ma almeno abbiamo le registrazioni delle telecamere di sorveglianza di casa Price da visionare, oltre alle informazioni che l'investigatore privato mi ha inviato dieci minuti fa. Rassicuro Dean per l'ennesima volta, battendogli la spalla. Poi mi infilo in auto, facendo partire la chiamata mentre esco dal parcheggio per immettermi nel traffico della tarda mattinata.

Lex risponde al quinto squillo, la voce che lascia trasparire l'ansia, mentre chiede: «Ehi, come è andata?»

«Poteva andare meglio... ma ce la caveremo. Tu, piuttosto, che cosa stai facendo?»

«Stavo per andare a pranzo, perché?» replica incuriosita.

Trattengo il respiro per un secondo, chiedendomi se la mossa che sto per mettere in atto potrebbe compromettere tutti gli sforzi fatti per arrivare fin qui, infine mi armo di tutto il coraggio che possiedo e dico: «Prenditi il pomeriggio libero, devi venire con me».

Interrompo la comunicazione senza permetterle di replicare, tentando di inghiottire quel magone che non mi dà pace, perché, dannazione, questa situazione mi ricorda tanto un momento meraviglioso del mio passato. Ne sento il profumo come se fosse ieri, sebbene l'auto non sia la stessa e la donna che sto raggiungendo non sia Serena.

Eppure, per un maledetto momento, nella mia mente è balenata l'immagine di mia moglie, del suo sorriso, e tra me e me mi sono detto che dovevo muovermi, perché erano già passati dieci minuti dall'inizio della sua pausa pranzo. E tra i tanti pensieri che si sono accavallati nell'arco di qualche decina di secondi, c'era anche la proposta che avevo intenzione di farle. L'avrei portata sul molo, e lì l'avrei implorata di regalarmi la possibilità di diventare padre. Perché, ve lo assicuro, eravamo perfetti assieme, lei e io, e non ci mancava nulla per essere felici, tranne un bimbo da veder crescere. E invece la telefonata di Sean cambiò i miei piani, e il resto di quella giornata lo passammo in ospedale a decidere cosa fare della vita di Serena, perché gli esami dicevano che si trattava di un male particolarmente aggressivo e non c'era tempo da perdere.

Ma ecco che la realtà mi investe di nuovo, come una raffica di vento gelido, ricordandomi che è Lex che devo incontrare, che è lei che mi toglie il sonno, che è per lei che il mio cuore ha ripreso a battere a un ritmo normale. Premo sull'acceleratore, inspirando profondamente per togliermi l'odore acre del dolore dalle narici, e prego perché la mia idea funzioni.

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