Nove
«Chris! Per l'amor del cielo, fermati!» mi supplica una voce fin troppo familiare.
Lex, al mio fianco, mi trattiene stringendomi l'avambraccio, mentre io mi fermo malvolentieri, solamente perché se proseguissi rischierei di farla cadere. Mi volto lentamente, affondando le mani nelle tasche e fissando le mie scarpe italiane in vernice, per combattere l'impulso di mandare a quel paese l'unica rappresentante della mia famiglia che non odio con tutto il cuore. E per nascondere la mano, che si sta gonfiando a dismisura.
«Chris, ma che diavolo ti è preso?!» sbraita Cecilia, riprendendo fiato a stento, una mano all'altezza del cuore quasi fosse davvero in grado di contenere le palpitazioni. «Gli hai rotto il naso!»
Alzo lo sguardo su di lei, fino a incontrare i suoi occhi – i primi che abbia incrociato da quando entrambi siamo stati concepiti – e mi lascio sfuggire un sospiro. Esatto, avete indovinato di nuovo, la donna bellissima in abito da sera che in questo momento mi osserva esterrefatta è la mia sorella gemella: stessi occhi, stessa bocca, due caratteri diametralmente opposti. Per non parlare delle nostre vite.
Cecilia lancia un'occhiata curiosa a Lex, che se ne sta immobile a fissare un punto indefinito sulla parete di fronte a sé, in attesa di capirci qualcosa. «Cecilia, lei è Lex... e Lex, lei è... mia sorella...» borbotto.
Lex volta la testa di scatto verso di me, per poi mormorare: «Non me ne avevi mai parlato!»
Alzo le spalle fingendo noncuranza, mentre replico: «Non c'è molto da dire».
«Chris, cosa diavolo stai blaterando?» esplode mia sorella.
«Oh, sta' zitta, Cece! Lo sanno tutti che sei sempre stata, e sempre sarai, dalla sua parte!»
La guardo indietreggiare di un passo, quasi l'avessi colpita con un pugno invisibile allo stomaco. «Come puoi dire questo? Devo ricordarti chi c'era accanto a te quando stavi male?! Devo ricordarti con quante dannate urla ho dovuto riempirmi le orecchie durante quelle notti? Con quanta fatica ho dovuto trattenere le tue crisi isteriche?! Come puoi anche solo pensare che io sia dalla sua parte?»
La osservo mentre si avvicina con passo incerto, mentre afferra il mio avambraccio per sfilarmi la mano dalla tasca dei pantaloni, mentre esamina la contusione sulle mie nocche. «Lo odio quanto te, Chris. Lo odio perché non c'è mai stato, perché non si è nemmeno degnato di partecipare al tuo dolore, perché...» Le parole le muoiono in gola nell'istante in cui la fulmino con lo sguardo, rivolgendo una rapida occhiata verso Lex, per farle capire che lei non sa nulla del mio passato.
Cecilia stringe le labbra in una smorfia di disapprovazione, mentre lascia la mia mano; i suoi occhi grigi che mi rivolgono una serie di rimproveri a cui non può dar voce, i pugni stretti lungo i fianchi. «Lex, è stato un piacere fare la tua conoscenza. Spero avremo modo di incontrarci ancora» mormora infine, prima di stamparmi un bacio sulla guancia e andarsene.
Resto immobile a fissarla, fino a quando non la vedo scomparire all'interno dell'ascensore, mentre quel dannato senso di vuoto si fa strada dentro di me, più aggressivo che mai, affamato di sentimenti inespressi, di desiderio di amore incondizionato. La mano di Lex si posa delicatamente sul mio volto, riscuotendomi dal torpore che mi si accanisce contro ogni dannata volta che la mia mente registra un distacco.
Riporto lo sguardo nei suoi occhi di cioccolato fuso e mi lascio andare al tocco leggero delle sue dita, mentre sussurra: «Andiamo, dobbiamo medicare quella ferita».
Serena afferra la mia mano con decisione, mentre Sean si accomoda di fronte a noi, inspirando profondamente e sistemandosi gli occhiali da vista sul naso.
È strano... sono sicuro che stia per accadere qualcosa di orribile, ma la luce calda del pomeriggio fa capolino dalla grande vetrata che permette una meravigliosa vista sul nostro giardino, contribuendo a rendere l'atmosfera nel soggiorno tranquilla e accogliente.
«Avanti, ti ascoltiamo» lo incita lei con un filo di voce, la fede al suo dito che mi si sta conficcando nella carne.
Chiudo gli occhi, mentre le parole del medico, che negli ultimi due anni è diventato praticamente un amico fidato, mi rimbombano nella testa con un fragore assordante. Quando li riapro mi ritrovo a fissare l'uomo dinnanzi a me senza avere la forza di muovere un muscolo, con il solo rumore sordo del sangue che mi pulsa nelle orecchie, a ricordarmi di essere ancora su questa dannata terra, e la mano di Serena stretta saldamente nella mia.
«No» mormoro con voce atona.
«Christopher, mi dispiace così tanto...» replica Sean, prima di alzarsi dalla poltrona, girare intorno al tavolino con il piano in cristallo per avvicinarsi a mia moglie e appoggiare una mano sulla sua spalla.
Serena afferra le sue dita, che ormai non trasmettono più quella speranza di salvezza, quella promessa di riscatto dalla morsa della malattia, prima di sussurrare: «Hai fatto del tuo meglio Sean... mi hai regalato due an-»
«No!» sbraito scattando in piedi, in preda al panico. Ma l'angoscia è troppa per permettermi di reggermi in posizione eretta. Mi accascio a terra, con le mani che stringono con forza sulle ginocchia, mentre l'aria si dibatte per entrare e uscire a fatica dai miei polmoni, mentre il mio cuore brama soltanto una via di fuga da questa tortura.
Sean si avvicina lentamente, un braccio teso verso di me, l'altro a proteggere idealmente la donna divorata dal dolore che siede senza forze sulla poltroncina a poco meno di un metro da noi, e, nell'esatto istante in cui la sua mano mi sfiora il bicipite, è delirio.
La rabbia, mista a quel senso di smarrimento che potrebbe provare un marinaio nel bel mezzo di una notte densa di nebbia senza nemmeno un faro in lontananza a indicargli una via di fuga, si abbatte su di me come un uragano. All'improvviso, non so nemmeno come, sollevo il tavolino da tè con il piano di vetro e faccio leva con tutta la forza che ho, ribaltandolo gambe all'aria, mentre una miriade di schegge trasparenti, fogli e aggeggi tecnologici si riversano sul pavimento, accompagnati da un rumore assordante, quello delle mie urla.
Mi afferro i capelli, mentre le mani di mia moglie cercano il mio viso, mentre mi lascio andare alle lacrime, non trovando altro modo di fornire una via d'uscita al dolore, mentre i miei singhiozzi si mescolano ai suoi, silenziosi, mentre tutto diventa all'improvviso confuso.
Sussulto in preda al panico, con le mie stesse urla che tuonano nella testa, con il profumo di Serena nelle narici, con la sensazione delle sue lacrime calde sul viso. Mi stropiccio gli occhi inspirando profondamente, nel vano tentativo di riacquistare un minimo di lucidità e capire dove cazzo mi trovi, ed ecco che, quando la mia mente esegue un rapido riassunto degli eventi nelle ultime dodici ore, mi ricordo di essere nel letto della prestigiosa suite del Fairmont Heritage. Scatto a sedere, guardandomi attorno, la testa che pulsa e il panico che mi stringe la bocca dello stomaco... o forse è colpa della sbronza... non lo so.
Accanto al letto una bottiglia di Belvedere quasi vuota mi suggerisce che forse ho esagerato ieri sera, mentre il vago ricordo di Lex che se ne va sbattendo la porta mi riconferma il fatto che sono un idiota, anche se non ne ricordo esattamente il motivo. Mi libero del leggero piumone e arranco verso il bagno, sfilandomi i boxer con il chiaro intento di raggiungere la doccia, quando la mia attenzione è catturata dalla mia immagine riflessa nello specchio vicino alla porta del bagno. Mi fermo per un momento a contemplare il mio ritratto: un corpo scolpito dalla dedizione, i capelli in disordine, quegli occhi color pioggia, stanchi e arrossati, velati da lacrime, la barba appena accennata sulla mascella disegnata... un corpo tanto bello quanto privo di anima, privo di quella speranza di felicità che pensava di aver ritrovato. Scosto lo sguardo e scuoto la testa per riprendermi, per liberarmi della necessità impellente di stringere nuovamente mia moglie tra le braccia, per liberarmi della brama di sentirmi ancora come allora.
Sto per infilarmi sotto il getto bollente della doccia, con la mente che viaggia veloce, nel tentativo di ricordare esattamente cosa possa aver fatto infuriare Lex, e le sinapsi che lavorano a perdifiato per suggerirmi come rimediare, quando qualcuno bussa alla porta. Mi blocco dove sono, lasciandomi sfuggire un lamento, prima di avviarmi verso l'ingresso della suite. Quando spalanco la porta mi pento di averlo fatto: Cecilia mi osserva corrucciata, le braccia incrociate sul petto e la totale indifferenza nei confronti della mia nudità.
«Cece, che cazzo vuoi?!» mugolo arretrando, mentre lei si infila oltre la porta della stanza.
«Fatti una doccia e vestiti, andiamo a pranzo» replica lanciando la borsa sul divano. «Dobbiamo parlare!»
«Io con te non vengo da nessuna parte» borbotto attraversando il soggiorno per raggiungere il bagno, seguito dal tacchettio delle sue scarpe sul parquet. «E non ho nessuna intenzione di parlare con te. Devo vedere Lex e scoprire cosa diavolo ho combinato...»
La stronza si avvicina allo specchio per controllare che il rossetto non si sia sbavato, mentre io mi insapono velocemente, prima di chiudere gli occhi sotto la pioggia di acqua calda. Infine dice: «Le hai suggerito di farsi gli affari suoi... aspetta... le parole esatte sono state: "Che diavolo vuoi che ti di-"»
Si blocca guardandomi storto, mentre esco come una furia dalla doccia per afferrarle gli avambracci. «Mi stai prendendo per il culo?»
«Chris, lasciami per cortesia, mi stai inzuppando il vestito!» sbotta lei divincolandosi, per poi aggiungere: «Era arrabbiata, e non aveva torto! Quando mi hanno chiamata sono corsa qui, e ti ho trovato mentre blateravi a proposito del fatto che lei non potesse capire, che ti avesse tolto il sonno e la capacità di essere razionale... che tu non potessi ricaderci di nuovo, che non avresti retto se avessi perso anche lei».
Cazzo! Ora ricordo... Quando siamo rientrati ho iniziato a bere... ricordo le sue parole di disapprovazione al quinto bicchiere, e di come insistesse nel sapere di che cosa parlasse Cecilia quando ho ingoiato il contenuto del settimo, e di come l'abbia mandata al diavolo quando...
«Che cos'altro le ho detto?» chiedo in preda al panico.
«Non le hai parlato di Serena, se è questo che vuoi sapere, ma se non fossi arrivata non so davvero come sarebbe andata a finire...»
«Che... che cosa vuoi dire?» boccheggio.
«Che avevi bevuto troppo, idiota! Ora rivestiti e vai da lei a scusarti» mi esorta interrompendo il flusso dei miei pensieri. «Vi aspetto nella hall, ho prenotato al Waterbar per tre.»
Resto immobile a fissarla per qualche secondo, indeciso se trattenermi o abbracciarla, infine mi avvolgo un asciugamano attorno alla vita ed esco dal bagno, mordendomi il labbro e stringendo i pugni per costringermi a non tornare indietro.
Lex è silenziosa, fissa il vuoto dinnanzi a sé, mentre il vento gioca con i suoi capelli leggermente ondulati per via dell'acconciatura indossata ieri sera, le mani strette all'altezza del ventre, il respiro lievemente affannoso.
Faccio un passo oltre la portafinestra che dà sul meraviglioso terrazzo della sua suite, chiamando il suo nome a bassa voce, per evitare di spaventarla, mentre mi aspetto di incrociare una di quelle sue espressioni che tanto adoro, una di quelle deliziosamente infuriate, che mi incantano ogni volta, quasi non avessi mai visto nulla di più intrigante, ma nell'istante esatto in cui i suoi occhi di cioccolato fuso incontrano i miei mi blocco dove mi trovo.
Quello sguardo è lo stesso che ho sognato qualche ora fa, lo riconoscerei anche al buio, e voi sapete quanto io sia terrorizzato dalle tenebre. È privo di luce, reso opaco da quello spesso velo di dolore, da quell'agonia senza speranza, da quel tormento dal quale non si può sfuggire, paragonabile solo allo strazio che credo si possa provare nel bruciare vivi in un rogo. Deglutisco a vuoto, nel vano tentativo di scacciare quella sensazione di impotenza, la stessa che mi si agitava nel petto fino a meno di un'ora fa, quando mi sono svegliato in preda al panico nel mio letto.
Mi avvicino lentamente, osservandola mentre cattura con le dita affusolate una lacrima sfuggita al suo controllo. «Lex, stai bene?» chiedo con voce tremante.
Lei sussulta appena, stringendosi nell'accappatoio di spugna, mentre si rannicchia sulla poltroncina di vimini e dice: «Che cosa ci fai qui? Non sono nemmeno vestita...»
«Mi ha fatto entrare la donna delle pulizie. Cecilia mi ha raccontato cos'è success-»
«Non voglio sentire le tue scuse, Chris» mi interrompe perentoria. «Ho sentito abbastanza ieri sera.»
In questo momento mi sento un tale idiota che, credetemi, se potessi prendermi a calci nelle palle da solo lo farei.
Copro la distanza che ci separa accucciandomi di fronte a lei, per prendere le sue mani tra le mie, provocandole un debole sussulto nel momento esatto in cui la nostra pelle si sfiora: una scossa che si propaga dalle sue dita alle mie e che si espande a dismisura per raggiugere il mio cuore, che inizia ad accelerare il ritmo dei propri battiti.
Mi lascio scappare un sospiro, prima di alzare lo sguardo su di lei e mormorare: «Non intendevo ferirti, non pensavo veramente ciò che ho detto, Lex... non intendevo insinuare che tu non sappia cosa siano il dolore e la frustrazione... non pensavo davvero che...»
«E allora a che cosa pensi, Chris? A cosa si riferiva tua sorella?» insiste lei, stringendo le mie dita tra le sue.
Sono costretto ad alzarmi e indietreggiare, tanto mi fa male quella domanda, mentre nella mia mente ritornano vivide le immagini che hanno tormentato il mio sonno la scorsa notte: Serena, le sue lacrime, le mie urla, una miriade di schegge di vetro, simili a quelle di un cuore di cristallo che è andato in mille pezzi...
Lex scatta in piedi, ma subito si accascia appoggiandosi al tavolino in teak per non perdere l'equilibrio, boccheggiando, con la mano nuovamente sul ventre e le labbra serrate a contenere un gemito.
«Che cos'hai?» sbotto in preda al panico, mentre la sorreggo stringendola a me.
«Niente... credo che dovrei mangiare qualcosa» mormora scivolando via dal mio abbraccio.
«Lex, ti prego... è evidente che qualcosa non va... fammi chiamare mia sorella... è un medico...»
«Sto bene, Chris. Ora, se non ti dispiace, vorrei riposare» replica passandomi accanto per raggiungere la camera da letto. «Fammi sapere a che ora rientreremo stasera.»
La guardo scomparire nella sua stanza, incapace di insistere, perché quella sensazione di dolore mi scorre ancora sotto la pelle, impedendomi di ragionare con lucidità. Esco in corridoio e mi infilo nell'ascensore per raggiungere Cecilia nella hall, che mi aspetta sfogliando una rivista per ingannare il tempo.
Quando mi avvicino mi scruta attentamente, prima di accogliermi in un abbraccio tanto stretto quanto rassicurante, uno di quelli a cui non rinuncerei per nulla al mondo, uno di quelli che mi fanno sentire a casa ovunque mi trovi, con il profumo dei suoi capelli che mi riporta alla mente l'aroma della pelle di nostra madre. La stringo a mia volta, affondando il naso nella sua spalla, lasciandomi cullare da quelle braccia tanto esili quanto forti, le uniche sulle quali ho potuto contare quando il mio mondo è andato completamente in fumo.
Cecilia mi osserva di sbieco, mentre scosto la sedia per invitarla ad accomodarsi, prima di prendere posto accanto a lei in silenzio. Continua a fissarmi mentre ordino per entrambi, mentre assaggio il vino che il maître mi versa col contagocce in quello che invece di un bicchiere sembra una boule, mentre mi lascio andare contro lo schienale della sedia imbottita sospirando.
«Chris, ti va di parlarne?» mi esorta lei, appoggiando poco elegantemente i gomiti sul tavolo per poi prendersi il viso tra le mani.
Scuoto la testa, proprio come farebbe un bimbetto di fronte a una domanda che lo intimorisce a morte. In effetti è proprio così che mi sento: in preda alla paura più stupida, eppure più angosciante, che abbia mai dovuto affrontare. Lo so, lo so di aver detto che era arrivato il momento di lasciare che Serena riposasse in santa pace, sono cosciente di avere il diritto di ricominciare a vivere, di avere il diritto di amare ancora, e di avere il dovere di permettere agli altri di amarmi per come sono... ma l'idea di troncare qualsiasi legame col passato, il solo pensiero di rivivere certe sensazioni, certi sentimenti, con un'altra persona, mi terrorizza a morte.
Gli occhi grigi di mia sorella mi scrutano ancora, attenti, e nella sua espressione riesco a scorgere un sottile velo di preoccupazione, mista alla rabbia repressa per il mio comportamento di ieri sera. State pensando che sia un figlio degenere, non è così? Quasi sicuramente vi starete anche chiedendo quale uomo non si preoccuperebbe per la salute del padre che ha preso a pugni la sera precedente... Be', la risposta è semplice: non me ne frega un cazzo di come possa sentirsi oggi quel pezzo di merda.
Eppure Cecilia si rifiuta di rimproverarmi, di proferire anche una sola parola, limitandosi a tentare di percepire il mio monologo interiore, quel dialogo privato che sto avendo con me stesso, tra i meandri della mia mente annebbiata.
Sento le dita della mano destra tremare, mentre cerco di contenere la rabbia dovuta al ricordo di mia moglie, mentre provo a comprendere cosa mi stia succedendo, con quale razza di coraggio io stia combattendo contro me stesso, con la chiara intenzione di liberarmi di lei. Dannazione, lo so a cosa state pensando... e ve lo posso assicurare, non sono affatto contraddittorio!
Quel maledetto sogno è ancora vivido nella mia testa, con quella fottuta scena che si ripercuote ostinata tra i miei pensieri, tanto che mi sembra di averla vissuta non più di qualche ora fa, quando invece realizzo che sono già trascorsi tre dannatissimi anni.
Cecilia continua a non fiatare, osservando attenta l'espressione che in questo momento mi si sta dipingendo sul volto. Dio, ne sono certo, sarei in grado di incutere timore anche a me stesso, se non fossi talmente pieno di me da avere il coraggio di sbraitare al mondo che io, Chris Braxton, non ho paura di nulla. Tranne che di amare ancora.
Mi porto la mano sana alla bocca e la nocca dell'indice mi finisce involontariamente tra la morsa dei denti. Ma il dolore che mi incendia il petto è decisamente più forte di quello fisico, mi impedisce di distrarmi, di ritrovare la lucidità, di guardare negli occhi di mia sorella per leggervi dentro tutta la sua preoccupazione nei miei riguardi.
Non sono in grado di dedicarle il tempo che merita, a lei, che senza che le fosse stato chiesto si è caricata sulle spalle il peso dei miei giorni vuoti. Lei, che ha condiviso con me quel dolore che tutt'oggi è ancora in grado di divorarmi fino allo scheletro.
Ed ecco che una nuova fitta mi squarcia il petto a metà, mentre l'immagine della mia Serena attraversa lenta i miei ricordi, mentre quei suoi occhi stanchi e quelle sue labbra da baciare attimo dopo attimo, senza sosta, si impossessano di nuovo della mia mente, fino a farmi perdere il controllo.
Stringo tra le mani i lembi della tovaglia, con tanta forza che rischio di far cadere a terra tutte le stoviglie di porcellana, e istintivamente serro le palpebre, quasi volessi proteggermi da quel passato che sono consapevole non mi lascerà mai. E in un attimo Serena è di nuovo qui, come un boato che continua a pulsarti nella testa e non ti abbandona. Il suo ricordo, dentro di me, ha un suono piacevole, come quel dolore che non vuoi far cessare perché è l'unico rimedio che ti resta per continuare a sentirti vivo.
E nella testa ho ancora l'immagine di Sean che guarda mia moglie incredulo, mentre piano si rialza, si asciuga le lacrime, mi poggia la mano sulla spalla e infine chiede: «Tè?»
E nella testa sempre Sean, che continua a fissarla, e io che lo so a cosa sta pensando, anche se non me l'ha mai detto, forse perché non ha mai avuto il fegato di farlo. È sempre stato molto professionale, sebbene fosse in grado di infonderci lo stesso coraggio che trasmetterebbe un amico, per continuare a combattere la malattia.
Glielo avevo letto negli occhi, a Sean, lo sapevo che se lo sentiva che Serena ce l'avrebbe fatta. Ci aveva creduto lui, prima di noi. Anche lui si era fatto ammaliare da quel sorriso a trentadue denti che non l'abbandonava mai, quasi volesse dargliela una bella lezione a quel cancro di merda, come se avesse voluto dirgli che a lui non si sarebbe mai piegata. Che non l'avrebbe mai schiacciata. E mi piace pensare che mia moglie questa guerra l'abbia vinta, che non si sia mai lasciata abbattere, che mi sia stata solo portata via.
Di questo si era innamorato Sean, della sua voglia di vivere, del suo coraggio, del suo sorriso. E con quel sorriso aveva fatto credere a tutti noi che ce l'avrebbe fatta. Serena d'altronde era così, non potevi non amarla. Si è fatta in quattro per insegnarmi a cadere nelle sabbie mobili senza affondare. E questo io non me lo potrò mai perdonare, il fatto di essermi lasciato consolare mentre a morire era lei.
Cazzo! Ma come ho potuto arrivare a tanto? Come ho potuto fare questo a mia moglie? Come ho potuto dimostrarle di aver paura, mentre lei tentava di spianarmi la strada per una vita che avrei dovuto continuare a vivere senza il suo conforto?
E... porca puttana, io vi giu-
«Chris!» la voce di mia sorella è grondante di angoscia. Riesco a leggerle in quegli occhi – che sono il riflesso dei miei – che ha sopportato fin troppo questo mio momento di lunga assenza, e che anche lei non è più in grado di reggere oltre. «Adesso basta, dobbiamo parlare.»
Sto per replicare che non posso, che devo ancora arrivare alla conclusione del mio ragionamento, anche se questo potrebbe farmi sembrare del tutto pazzo, quando il mio iPhone vibra nella tasca interna della giacca.
Lo estraggo in fretta, quasi fossi stato investito da un presentimento angosciante, e ascolto la voce di Lex, mentre singhiozza dall'altra parte del ricevitore: «Chris, sto male... ti prego, vieni a prendermi».
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