Due

Sbatto la porta del mio appartamento lasciandomela alle spalle e imbocco la tromba delle scale correndo per raggiungere il piano terra. No, non sono pazzo, fare sessanta piani a piedi è semplicemente il miglior modo per riscaldarsi prima di una lunga corsa. Provare per credere.

Mi fermo solo per un secondo, il tempo necessario per fiutare nell'aria quell'odore di pace che regna a quest'ora in una città caotica come L.A. Sapete, credevo l'avrei odiata a morte questa metropoli costantemente scossa dai demoni della terra, perennemente indaffarata, soleggiata, privilegiata dai turisti. Invece ora inizia a piacermi e, a volte, penso addirittura sia grazie a lei, a questa energia dirompente che emana, se la mia vita da un insopportabile ammasso di lacrime e dolore è diventata quanto meno vivibile, respirabile. Sì, credo che respirabile sia il termine giusto.

La brezza del mattino mi accarezza la pelle mentre corro per le strade semideserte, mentre le prime luci di una nuova giornata si affacciano a colorare i palazzi, le strade, le vite comuni delle persone. È un orario perfetto, questo; è il momento che preferisco nell'arco delle ventiquattro ore, quello che vale la pena assaporare per ricordare a me stesso che essere in vita non è una condanna, che prima o poi capirò il motivo per cui il destino ha deciso di piazzarmi su questo dannato percorso.

Se sono fatalista? Credo di sì. Ho dovuto imparare a esserlo, semplicemente perché non ho avuto scelta. Ho avuto bisogno di credere che ci fosse qualcosa o qualcuno, lassù o in qualsiasi altro luogo, pronto a dettare delle regole precise per noi che ci affanniamo sulla strada della vita. Ho avuto la necessità di credere che nonostante il dolore, lo smarrimento, il vuoto asettico che mi cresceva dentro, avrei comunque potuto fare affidamento su dei punti di riferimento certi, cartelli stradali, indicazioni che mi avrebbero condotto al di fuori dell'oscurità.

Quando corro seguo un itinerario predefinito, lo faccio per non pensare, per togliermi dalle narici, dalla pelle, dalla mente, cose come quelle che ho letto ieri sera. Davanti ai miei occhi, però, resta indelebile l'immagine del pc ormai in pezzi sul pavimento del mio salotto e, per un secondo, espiro troppa aria, come se l'uomo invisibile mi avesse assestato un colpo in pieno stomaco con una forza tale da rubarmi tutto l'ossigeno che mi circola in corpo.

Impreco a denti stretti e continuo a correre, accelerando l'andatura, con i piedi che battono violentemente sull'asfalto e la musica degli AC/DC a palla nelle orecchie, con il cuore che minaccia di esplodere, ma non a causa del mio allenamento mattutino.

Dopo circa quaranta minuti mi infilo oltre l'ingresso del grande complesso che ospita il Museo di Storia Naturale e raggiungo decelerando il parco dedicato ai bambini, alla ricerca della mia panchina. Sì, lo so, fa tanto Notting Hill ma, con tutto il rispetto, in questo momento non me ne frega un cazzo di ciò che pensate. La verità è che questo è l'unico posto in città a farmi sentire ancora vivo, a darmi l'illusione di poter essere ancora il Christopher di qualche anno fa, ancora quell'uomo dall'animo leggero che aspettava di vivere un futuro luminoso... e felice.

Prendo un doppio espresso da asporto al chiosco e mi libero degli auricolari accasciandomi, con la mano libera che poggia sul ginocchio a sorreggermi, il respiro affannoso che mi rimbomba nelle orecchie e gli occhi serrati. Quando finalmente guardo di fronte a me mi accorgo che il mio tempio di pace personale è stato profanato.

Mi raddrizzo di scatto, guardandomi attorno per assicurarmi che non ci siano orecchie indiscrete ad ascoltare le assurdità che stanno per uscire dalla mia bocca, poi sbotto: «Ehi! Quella è la mia panchina!»



La ladra di panchine se ne sta spaparanzata con gli occhi chiusi, le mani rilassate all'altezza del ventre, la testa che poggia su una vecchia borsa di pelle. Mi avvicino senza preoccuparmi di disturbarla, semplicemente perché deve alzare il culo da lì e smammare.

Come dite? Sono infantile? Sarà... ma non sono affari vostri, e comunque quella panchina sarà di nuovo mia. State a vedere.

Butto là un paio di colpi di tosse aspettandomi di vederle aprire gli occhi, ma lei non si muove di un millimetro. Starà dormendo?

«Mi scusi...» ritento a voce alta.

Niente... Ma... aspetta un attimo! Oddio! Non sarà mica...

Ah, no... per fortuna si è scostata una ciocca di capelli dalla fronte... Ma allora lo fa apposta a non ascoltarmi! Brutta stronza...

«Mi scusi!» sbraito incattivito attirando lo sguardo di disapprovazione di una donna di colore che cammina nella mia direzione spingendo un passeggino.

Le sorrido debolmente e poi riporto l'attenzione sulla ragazza. Mi accorgo solo ora che indossa gli auricolari, e nel mio cervello bacato prende forma un'idea tanto stronza quanto diabolica. Senza il minimo tatto mi avvicino e le strappo le cuffiette dalle orecchie, innescando una serie di reazioni a catena che, se le guardassimo al rallentatore, bisognerebbe metterci di sottofondo una musica tipo quella del film "Lo squalo".

Lo squalo... sì, mi si addice, potrei iniziare a farmi chiamare così: "Squalo Chris"... o ancora meglio: "Braxton, lo squalo di L.A"... Oh, scusate... vaneggiavo.

Tornando a noi, lei si alza di scatto, incurante della nostra vicinanza, e urta inevitabilmente il caffè bollente che si rovescia sulla mia maglia, ustionandomi. «Porca puttana! Ma che cazzo hai che non va?» sbraito lanciando a terra il bicchiere ormai vuoto per sfilarmi la t-shirt.

Lei sbatte le palpebre, leggermente sconvolta alla vista dei miei pettorali presumo, poi si riprende a tempo di record e replica: «Che cazzo ho io?! Che cavolo hai tu! Ti ha dato di volta il cervello? Certo, sempre che tu ne abbia uno, pezzo di idiota che non sei altro!»

Mi accorgo che continua a fissare il mio petto come se non riuscisse a vedere nient'altro. «Ehi, io sono quassù! Puoi almeno guardarmi in faccia mentre mi insulti... e comunque quella è la mia panchina, perciò vedi di andartene fuori dalle palle!»

«Io... che cosa?! La tua panchina? Ma che cos'hai... cinque anni?» replica lei, stavolta fissando la mia spalla.

Questa è una ninfomane amante dei muscoli, ne sono certo, e potrei anche assecondare le sue voglie, ma stamattina non sono proprio dell'umore.

«Almeno io non sono tanto frustrato da aver bisogno di fissare dei muscoli per alimentare le mie fantasie autoerotiche notturne, invece di guardare la gente negli occhi mentre parlo!»

Lei indietreggia impercettibilmente, osservando la ghiaia sotto i nostri piedi per un attimo, prima di far lampeggiare i suoi occhi nei miei.

Porca miseria... quello... quello è... cioccolato fuso...

Poche volte nella mia vita mi sono ritrovato ad ammirare con tanta meraviglia un paio di occhi marroni, e questa è una di quelle. Si scostano a guardare un punto indefinito oltre la mia spalla, e in quel momento la realtà mi investe come un treno in corsa.

Sento il ritmo cardiaco accelerare mentre il silenzio cala pesante, imbarazzante, su di noi, mentre mi scosto per incontrare nuovamente quelle due sfere al cioccolato fondente che, sebbene incorniciate da un'espressione infuriata, non esprimono nulla.

«Sei un idiota! Chiunque tu sia!» replica finalmente la ladra di panchine recuperando la sua borsa, allunga una mano verso di me e mi spinge via per farsi spazio, poi si incammina frugando nella sacca alla ricerca di quello che, poco dopo, scopro essere un bastone telescopico bianco.

La guardo allontanarsi, lasciandomi cadere sul bordo di legno della panca, senza forze, mentre il ticchettio costante di quel bastone sulla ghiaia risuona in lontananza. Sì, stavolta avete ragione voi... sono proprio un deficiente.



Sono trascorsi due giorni, quasi quarantotto dannatissime ore, e l'immagine di quegli occhi mi sta portando alla pazzia.

Continuo a vederli. Dovunque. Sui volti delle persone che incrocio per strada, sui cartelloni pubblicitari, addirittura quando serro le palpebre. È una condanna. Una lenta e sfiancante punizione per la mia stronzaggine.

Mi sono chiesto più di una volta perché mi interessi tanto, perché sono ostaggio di questo senso di disagio che mi sta facendo venire un'ulcera perforante a furia di bere caffè e fumare sigarette, che non toccavo da tre anni ormai. E una risposta l'avrei anche trovata, ma mi rifiuto di darle voce.

Come? Siete curiosi? Peggio per voi, non lo dirò mai ad alta voce. Mai.

Mi passo distrattamente una mano tra i capelli mentre osservo la città dalla vetrata del mio studio, quando ecco che sputo a bassa voce delle parole che mi convinco essere assolutamente senza senso: «Non mi hai fatto pena, dannazione!».







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