Dieci

Cecilia sta facendo il diavolo a quattro per parlare con il primario del reparto, mentre io cammino avanti e indietro lungo il corridoio, suscitando la curiosità delle infermiere che entrano ed escono dalla stanza in cui hanno portato Lex. Lo so, sto facendo la figura del futuro papà isterico, ma non posso fare a meno di pensare alla sua espressione impaurita quando l'abbiamo raggiunta in hotel, alle parole cariche di terrore che sono uscite dalle sue labbra, a come mi ha stretto la mano in cerca di appoggio, o consolazione, o chissà cos'altro.

Quando, finalmente, il medico si avvicina a mia sorella, non gli lascio nemmeno il tempo di aprire bocca che subito inizio a tempestarlo di domande: «Come sta? Posso vederla? E il bambino... lui... lei... dannazione, il bambino sta bene, vero?!»

Il Dottor Wilson – così c'è scritto sul cartellino appuntato sul suo camice – sorride debolmente, prima di dire: «Devo dedurre che lei sia il fidanzato della signora Baker...»

Chi... io? Sta parlando con me?

Mi guardo intorno con fare cospiratorio, per poi rispondere: «Ehi! Le sembra che io abbia l'aria di uno che si fidanza?!»

Cecilia si porta la mano alla fronte sospirando, mentre Wilson indietreggia appena, prima di replicare: «Mi scusi, ma se lei non è un parente o il fidanzato, allora non posso proferire parola sullo stato di salute di Miss Baker... Per caso sapreste fornirmi il recapito di un familiare?»

No, dico... ma questo lo sa con chi sta parlando?! Sono talmente fuori di me che sto per rispondere al caro Dottor Wilson che se non mi assicura immediatamente che Lex sta bene, è meglio per lui se si trova un posto di lavoro in Alaska a curare le emorroidi alle alci, quando un tizio delle dimensioni di un armadio a quattro ante ci interrompe ansimando: «Scusate, si trova qui Alexandra Baker?»

Mi volto di scatto, incuriosito dall'espressione di mia sorella, una di quelle à la ti-prego-prendimi-qui-e-ora, mentre sbotto: «E tu chi cazzo sei?!»

Mister Muscolo alza un sopracciglio, con la stessa espressione che potrebbe avere un elefante nel guardare una formica preparata in allestimento da guerra, prima di sghignazzare: «Christopher, giusto?»

Ma che cazzo ha da ridere questo?! Voglio dire: okay... sei più alto di me di qualche centimetro, massimo tre, e okay... hai dei muscoli tanto gonfi che potresti prendere il volo alla stregua di un Airbus 380, ma... che cazzo ridi?

«Hai indovinato» replico di malavoglia, mentre afferro la mano che mi porge per stringergliela. «Devo dedurre che tu invece sia...»

Almeno non è cretino, visto che si affretta a completare la frase dicendo: «Sono Tray, suo cugino».

Resto immobile a fissarlo, per poi spostare lo sguardo sul medico e infine riporlo nuovamente su di lui, totalmente esterrefatto, quasi mi avessero appena rivelato che la terra è cubica. Okay, non che ci sarebbe qualcosa di estremamente sbagliato se fosse davvero così, però cre-

«Mi scusi, Mr. Braxton, devo parlare con Mr. Baker riguardo la salute della sua amica...» mormora Wilson interrompendo i miei vaneggiamenti, per poi allontanarsi al fianco di Mister Universo.



Quando, finalmente, Troy... ehm... scusate, Tray, esce dalla stanza di Lex, mi fiondo su di lui alla disperata ricerca di una dannata spiegazione, ma non ho nemmeno il tempo di aprire bocca che subito esclama: «Ehi, Chris! Sei ancora qui... bene... Lex vuole vederti, mi ha sbattuto fuori dalla stanza e mi ha mandato a cercarti, anche se devo ancora capi-»

Non lo ascolto un secondo di più, mentre mi allontano per raggiungere Alexandra che, sdraiata su quel letto, con gli occhi chiusi, fa tornare a galla la parte più spaventosa dei miei ricordi. Deglutisco a vuoto mentre mi avvicino, prima di sfiorare le sue dita con le mie e sussurrare: «Lex, sono qui».

Lei apre gli occhi rivolgendomi uno dei suoi sorrisi, uno di quelli tanto spontanei che potrebbero illuminare a giorno una città intera, e poi mormora: «Hai spaventato Tray...»

«Io? Ma ce l'hai presente, tuo cugino? Potrebbe stendere con un pugno John Cena!» replico serio, mentre lei invece scoppia a ridere. «Come ti senti?»

Lex sospira stringendo la mia mano, per poi ammettere: «Sto meglio... con te accanto sto sempre meglio, Chris...»

«Beh, è ovvio... voglio dire, è risaputo che io...»

«Sei un idiota borioso, questo lo sai vero?» mi interrompe sghignazzando.

La osservo disorientato per qualche secondo, prima di replicare: «Oh... ehm... dovrei prenderlo come un complimento?»

«Forse...»

«Lex, che cosa è successo?» la incalzo, tentando di tenere a bada l'agitazione.

Lei si porta la mano libera alla pancia, prima di dire: «Il medico ha detto che si tratta di un piccolo distacco della placenta, ma visto che rientro nel primo trimestre di gravidanza dovremmo cavarcela con una settimana di riposo, o poco più, e del progesterone... mi dimetteranno in giornata...»

«Dovremmo?» sbotto, mentre l'inquietudine di poco fa si trasforma in panico.

Lo sguardo di Lex si incupisce all'istante, mentre io mi accorgo di aver dato aria alla bocca senza pensare, di nuovo. Non ho nemmeno il tempo di rimediare, che lei sfila la mano dalla mia presa, prima di sottolineare: «Il bambino e io, Chris... noi dovremmo cavarcela... non preoccuparti, non pretendo assolutamente nulla da te».

«Lex... io non... non intendevo dire che...» balbetto alla ricerca delle parole adatte per non scivolare nella melma più di quanto non abbia già fatto.

«Ancora una volta, Chris, che cosa intendevi dire? Perché ho l'impressione che tu ti stia ostinando a giocare questa carta con me? Quella del re nero, inavvicinabile, cinico, quando poi mostri dei lati di te che farebbero venire il diabete anche a un tizio allergico ai carboidrati?»

«Io non sono dolce!» replico stizzito, incrociando le braccia al petto.

«Non lo sei? E il nostro ballo nella rotonda del pendolo? Quella musica... il modo in cui mi stringevi... tutto questo non è romantico

«Quello è... è... corteggiare una donna... almeno credo...» blatero.

«Chris, quello è aprirsi con una persona a cui tieni... semplicemente questo... mostrare le proprie debolezze non significa essere meno virili...» insiste, cercando nuovamente la mia mano.

La osservo arrossendo e lo so che non dovrei pensare una cosa simile, ma per fortuna lei non può accorgersene. Deglutisco a vuoto e mi schiarisco la voce, prima di sfoderare la mia consueta sfacciataggine e chiedere: «Credi davvero che io sia virile?»

Lex sorride di nuovo, mentre mormora: «La tua voce lo è: profonda, leggermente graffiata... e rassicurante. E lo sono le tue mani, curate ma non troppo, che stringono ma non stritolano...» Le parole le si bloccano in gola all'improvviso, costringendola a deglutire e a sfilare le dita dalla stretta delle mie, prima di aggiungere: «...adattandosi alle mie in un modo che al momento definirei... strano...»

Vorrei tanto riuscire a ribattere qualcosa di sensato, invece me ne resto immobile, con le dita che solleticano ancora per essere state a contatto con le sue, a districarmi tra quella sensazione meravigliosa che non provavo da tempo, quella che mi fa sentire accettato e importante per come sono realmente, al di là della facciata che dimostro o delle prestazioni sessuali che elargisco, e l'angoscia che mi attanaglia lo stomaco da quando Lex mi ha raccontato della violenza subita. La verità è che mi sento inadeguato alla situazione... Per la miseria, io non so un cazzo di bambini! Per non parlare dell'allattamento... Ehi! Aspettate un attimo... sto per caso vaneggiando su un possibile futuro assieme a lei? L'ho fatto?! No... credo abbiate letto male... sicuramente è co-

«Lex, piccola, possiamo tornare a casa!» sbraita Tray, irrompendo nella stanza con un fottuto sorriso a trentadue denti, talmente splendente che nemmeno gli attori di Beautiful sarebbero in grado di competere.

Lo fulmino con lo sguardo mentre Lex sposta la sua attenzione da me a lui, arrivando a ignorarmi completamente per ascoltare le baggianate sulle quali il cugino si sta dilungando, quando finalmente lo sento mormorare: «Scusate... ho interrotto qualcosa per caso?»

Lex volta appena la testa nella mia direzione, per poi tornare a concentrarsi su Tray e affermare: «No, nessuna interruzione, andiamocene a casa».



Ansimo come un vecchio fumatore incallito, aggrappandomi al palo della luce di fronte all'ingresso del grattacielo, imponendomi di rallentare il battito cardiaco e assumere una parvenza di dignità, prima di arrancare oltre le porte di vetro e salutare con un cenno della mano il portiere, che corre a chiamare l'ascensore.

Lo so, sono patetico. Correre la bellezza di quattro miglia e mezzo fino a Silver Lake con il chiaro intento di vederla, per poi tornare a casa sempre di corsa, perché non ho avuto il coraggio di bussare alla sua porta, è da malati di mente. La verità è che sono un idiota, ma questo sicuramente lo avevate intuito anche senza il bisogno che ve lo ribadissi io. Il fatto è che da quando siamo rientrati da San Francisco, tre giorni e mezzo fa, non ho avuto nemmeno il coraggio di telefonarle, tanto le sue parole mi hanno destabilizzato. E vi assicuro che evitare di prendere in mano quel dannato telefono è stato difficile almeno quanto il tentativo di trattenere l'impulso di salire in auto e precipitarmi da lei, o quello di rispondere alle cinque telefonate con le quali ha provato a contattarmi.

Sicuramente vi starete chiedendo perché mi stia comportando in questo modo dopo quello che Lex mi ha confessato, voglio dire... dovrei esserne felice, no? Beh, la realtà è che ho il terrore di compiacermi, ho paura di scoprire che potrebbe non dispiacermi il pensiero di condividere un futuro con lei, anche se è troppo presto, anche se quasi sicuramente io non sarei in grado di comportarmi da padre, anche se non ho ancora il coraggio di ammettere a me stesso che, forse, questa bellissima, giovane e indipendente donna ha la capacità di far sciogliere a poco a poco la spessa cortina di ghiaccio che ho innalzato attorno al mio cuore.

Sto per infilarmi sotto la doccia, quando il mio iPhone prende a squillare, costringendomi a tornare sui miei passi in fretta e furia, deciso ad affrontare questa situazione una volta per tutte. Ma nel momento esatto in cui sto per snocciolare la mia serie infinite di scuse miste a salamelecchi nel tentativo di farmi perdonare da Lex, ecco che una voce maschile, seriosa e alquanto alterata, sbraita: «Porca puttana, Chris! Dopodomani è il compleanno di Charlie! Ce ne siamo completamente dimenticati... che cazzo facciamo adesso?!»

«Calmati, Matt» replico serafico, mentre mi stropiccio gli occhi con la mano libera. «Prenotiamo da qualche parte, magari in quel posticino che...»

«Pensi che non ci abbia già pensato? È tutto maledettamente pieno!» ringhia il mio amico.

«Okay, fammi pensare... Ah! Ci sono! Evitiamo la festa e le compriamo un paio di Louboutin... non le piaceva quel modello con...»

«Le abbiamo regalato quelle scarpe l'anno scorso, a quella festa alla quale tu non ti sei nemmeno degnato di partecipare... per questo le hai promesso un party meraviglioso quest'anno, per farti perdonare!» sbraita ancora, costringendomi a staccare il ricevitore dall'orecchio e a strizzare le palpebre.

«Okay... senti... chiamo Marisa e faccio preparare le stanze per gli ospiti...» borbotto malvolentieri, passandomi nervosamente le dita tra i capelli.

Matt esita per qualche istante, con il respiro pesante che mi raggiunge dall'altro capo della linea, prima di mormorare incredulo: «Stai parlando di Malibu? Pensavo che... ecco... pensavo...»

«Charlie è come una sorella per me, e se le ho promesso una festa di compleanno come si deve, be', è ciò che avrà. Chiama la sua fidanzata, verrà anche Cecilia e...»

«Alexandra?» azzarda lui con voce debole.

«Ci sto lavorando, Matt» mento osservando la mia immagine riflessa nello specchio del bagno. «Verrò in ufficio nel pomeriggio.»



Sono fermo di fronte a questa dannata porta da... non lo so nemmeno io da quanto. Mi guardo attorno, nel tentativo di individuare le finestre dei vicini, tanto per essere sicuro che non chiamino la polizia perché spaventati dal mio comportamento a dir poco ambiguo. No, dico... vi rendete conto di quanto in basso sono caduto? Ho paura persino di suonare un campanello, dannazione!

Sbuffo per l'irritazione, ripetendo a me stesso che, in fondo, non ho motivo di essere così nervoso, e allungo la mano verso il piccolo pulsante bianco. All'improvviso, però, la porta si spalanca, rivelando la brutta copia di Superman che mi fissa con un ghigno sulle labbra.

«Mi chiedevo quanto ci avresti messo a bussare...» esordisce lui, incrociando le braccia al petto.

«In realtà pensavo di suonare il campanello, ma sai, mi stavo chiedendo quale delle due opzio-»

«Christopher», mi interrompe osservandomi con l'aria di uno che sta ascoltando i ragionamenti di un pazzo, «sono sicuro che le tue congetture potrebbero anche risultare interessanti, ma ora devo andare... e credo che tu e Lex abbiate molto di cui discutere. Seconda porta a destra.»

Lo osservo mentre si infila in un grosso SUV nero, prima di mettere in moto e fare retromarcia lungo il vialetto, per immettersi nel traffico della tarda mattinata.

Sbircio dentro casa, prima di fare un passo oltre la soglia e chiudere la porta alle mie spalle, lasciando vagare lo sguardo nella piccola ma accogliente cucina, e accorgermi di trattenere il respiro solamente quando la voce di Lex taglia il silenzio, chiamando il nome di Tray.

Mi schiarisco la voce imboccando il corridoio che porta alla sua stanza, fermandomi sulla soglia quando la intravedo, distesa su un letto troppo grande per una sola persona, il computer sulle gambe e una musica di sottofondo a farle compagnia.

Batto le nocche un paio di volte contro lo stipite della porta, prima di ciarlare: «Onde evitare che tu mi lanci addosso qualcosa di molto pesante, o molto appuntito, o addirittura molto tecnologico, vorrei che sapessi che mi disp-»

«Chris?!» esclama interdetta, puntando inconsapevolmente i suoi meravigliosi occhi color cioccolato su di me.

«No... no ti sbagli... non sono Chris... io... io sono... vediamo, ti piace il nome Doug?» blatero ritrovandomi a dondolare sui piedi come il peggiore degli idioti.

Lex fa una smorfia di disapprovazione, prima di suggerire: «Perché non riprovi?»

«Oh... ok... vediamo... ecco! Sì, io sono Andrew...» ritento.

«Questo mi piace... ha un bel suono... prego, Andrew... come mai da queste parti?» chiede lei sghignazzando, mentre digita qualcosa sulla tastiera del pc fingendo indifferenza.

«Ecco... io sono un amico di Chris, e, sai, non si è sentito molto bene in questi giorni. Così mi ha mandato qui per dirti che è molto preoccupato per te... e per... per il... bambino... e... che ti ha pensata ogni istante e... credo abbia bisogno di te.»

«Vieni qui, Andrew...» mormora lei allungando una mano sulle lenzuola a pois blu.

«Ehi! Non vorrai concedere tanta confidenza a uno sconosciuto!» replico stizzito, ottenendo come risposta una delle sue risate cristalline.

«A uno sconosciuto no...» mormora irrigidendosi appena, prima di aggiungere: «Ma a un amico travestito da messaggero sì... a te sì, Chris...»

Siedo accanto a lei, afferrandole la mano, incurante del fatto che probabilmente non desideri un contatto fisico con me in questo momento, per poi mormorare: «Ho avuto paura, Lex...»

«Paura di cosa? Di esserti mostrato per ciò che sei?» chiede stringendo inaspettatamente le sue dita alle mie. «Tu non sei lo stronzo che vuoi far credere di essere, e, per quanto ti sforzi, io non la penserò mai in questo modo.»

«È un po' più complicato di così, Alexandra... è... maledettamente complicato... e io non so...» Le parole mi muoiono in gola, mentre osservo le nostre mani unite e il mio anulare sinistro spoglio della fede nuziale.

La guardo disorientato, mentre sposta il pc sul comodino e si rannicchia sul fianco, le sue dita ancora intrecciate alle mie quando mormora: «Chris, perché sei venuto qui? Perché non sei sparito e basta? Sono confusa, devo ammetterlo... mi sembra di essere in balia di un elastico, vittima di un moto simile a quello che esegue ininterrottamente quel pendolo accanto al quale abbiamo ballato».

Sospiro fissando il paesaggio oltre la portafinestra che dà sul delizioso giardino, scorgendo il lago poco più in là, e intanto mi chiedo come potrei rispondere a questa affermazione tanto veritiera quanto frustrante, quand'ecco che la diga che conteneva il mio coraggio fino a qualche istante fa inizia a creparsi, lasciando scorrere l'adrenalina nelle mie vene, inducendomi a esclamare: «Vieni con me a Malibu!»

«Come hai detto, scusa?» sussurra aggrottando le sopracciglia. «Non posso alzarmi dal letto fino a sabato mattina... e poi, che cosa c'entra Malibu con il discorso che stavamo facendo?!»

Deglutisco a vuoto, stringendo la sua mano nella mia, prima di confessare: «Lex, tu vuoi sapere il motivo che mi spinge alla fuga, vuoi conoscere la verità... e... ecco... ti chiedo solo del tempo... in fondo dobbiamo imparare a conoscerci, no?»

«Già» bisbiglia lei sospirando. «Vorrei solo essere sicura di non farmi del male. Vedi... stare con te è così... è talmente divertente, e rilassante, e... piacevole, che ho paura di abituarmici. Ho paura di arrivare a darti un ruolo in questo casino che è la mia vita, e ho paura di non poter sopportare di doverti cacciare a passi lunghi e ben distesi qualora mi facessi soffrire.»

«Era una minaccia?» chiedo lasciandomi sfuggire una risatina.

Lex si morde il labbro in quel modo che... lasciamo perdere in che modo, per poi confessare: «Diciamo che Tray si arrabbierebbe molto».



Ecco, lo sapevo... lo sapevo, dannazione!

Sbuffo per la nausea lanciando un'occhiata allo specchietto retrovisore, per assicurarmi che quell'idiota di Tray tenga le mani ben fisse sul volante, mentre si dilunga in un qualche amabile discorso strappamutandine con Cecilia. La cretina nel frattempo ride come una ragazzina al primo appuntamento, neanche Mister Muscolo fosse l'ultimo portatore sano di notti magiche al mondo.

Lo so, vi state chiedendo che cosa diavolo ci faccia mia sorella nel carro funebre di Troy... Tray... beh, comunque diavolo si chiami! Ecco, la questione è molto semplice: quando, circa mezz'ora fa, la mia adorata Ferrari ha preso posto accanto al lugubre carrozzone di Superman, nel parcheggio del Dodger Stadium, tutto lasciava pensare che quella rintronata di Cecilia si ricredesse riguardo il fascino – del tutto celato a mio parere – del cugino di Lex, ma non è stato così. Dovete sapere che la mia sorellina ha iniziato a civettare con Mister Bicipite con tanto di bava alla bocca, scroccandogli un passaggio fino a Malibu, mentre Lex ha dovuto infilarsi nell'abitacolo ristretto del mio gioiellino. Non che mi dispiaccia restare solo con lei, sia chiaro, ma mi sono ritrovato a sudare freddo ogni volta che l'auto ha incontrato un'irregolarità sul manto stradale, tanto che inizio a chiedermi se non fosse stato meglio evitare di chiederle di venire con noi per il weekend.

Quando finalmente imbocchiamo il vialetto della villa, tiro un sospiro di sollievo, per poi lanciare un'occhiata a Lex, che dorme tranquilla accanto a me.

Allungo una mano e lascio scorrere le dita sulla sua guancia, godendomi il contatto con la sua pelle e rinchiudendo la voglia di sfiorare le sue labbra con le mie in un angolo molto, molto remoto della mia psiche.

Lei sospira sbattendo le palpebre per prendere coscienza di dove si trovi, mentre io indugio con la mano sul suo viso, accorgendomi che tutto questo mi ricorda tanto un qualcosa che devo aver visto da qualche parte... forse un cazzo di film roman-

«Lo so a cosa stai pensando, Braxton...» mormora cogliendomi di sorpresa. «E no, io non sono la Bella Addormentata...»

«Beh, in realtà dovrei dissentire...» borbotto catturando la sua attenzione.

«Cosa stai cercando di dirmi, Chris?»

«Che ti trovo bellissima... senza trucco, in abito da sera... persino in accappatoio... Beh, ad essere sinceri in accap-»

«Chris?» mi interrompe arrossendo leggermente. «Che ne dici di portarmi in spiaggia?»



Stringo tra le dita le sbarre del cancello in ferro battuto, il fiato corto e una fitta costante al fianco a suggerirmi che forse ho corso un po' troppo.

Lo so a cosa state pensando... vi chiedete che cazzo ci faccia ridotto così, sull'orlo dell'infarto e grondante liquidi che nemmeno la fontana del Bellagio riuscirebbe a farmi concorrenza, invece di occuparmi dei preparativi per la festa di compleanno di Charlie. Beh, mettiamola così: è evidente che devo aver sottovalutato l'effetto che avrebbe avuto su di me il fatto di tornare in questo posto. Forse mi illudevo di potercela fare se non fossi stato solo, di poter affrontare a testa alta i ricordi che questo luogo avrebbe inevitabilmente fatto riemergere se Lex fosse stata accanto a me, di riuscire a scontrarmi con l'ombra indelebile degli ultimi giorni trascorsi con Serena senza sentirmi nuovamente soffocare. E invece eccomi qui, in affanno, dopo una delle tante corse cui mi costringo nella speranza di schiarirmi le idee, nuovamente piegato in due, esattamente come tre anni fa, come quando l'ho lasciata andare.

Arranco accanto alla sfilza di auto di lusso parcheggiate sul vialetto di accesso, avvicinandomi al portone d'ingresso a doppio battente, mentre lancio una rapida occhiata alla veranda che dà sul giardino retrostante la villa, dove Matt, Cecilia e Mister Muscolo si stanno occupando dell'allestimento per il party. O meglio, è Matt, quello che se ne sta più o meno occupando, intrappolato in un modo talmente imbarazzante tra i cavi del suo antiquato armamentario da dj, che a confronto Venom nella ragnatela di Spiderman era libero come una farfalla. Mi lascio sfuggire una smorfia di disapprovazione nel momento stesso in cui la mia attenzione viene catturata dalla risata civettuola di mia sorella che, coppa da Martini tra le dita e occhi a cuoricino, ride alle battute sicuramente demenziali di quel bellimbusto di Tray.

Scuoto la testa mentre attraverso l'ingresso della casa, con quel leggero profumo di lavanda che mi investe come allora, quasi non fossero trascorsi circa due anni da quando ho deciso di andarmene da qui, nella speranza di ricominciare a respirare dopo la morte di Serena, con le sue foto – le nostre foto – che ancora riflettono gli ultimi sprazzi della luce calda del tramonto che si mescola alla penombra della sera. E ogni suo sguardo intrappolato in una di quelle cornici è come una stilettata al cuore, gelida, che mi si infila tra le costole e attraversa quel muro di cemento armato che credevo di essere riuscito a erigere attorno al mio dolore, e che ormai si sta sgretolando, rendendo inutili le mie fatiche al fine di arginare l'angoscia, vanificandole a tal punto da non farmi più capire se quello che sento martellare nel petto sia il mio cuore in delirio a causa dello sforzo fisico appena sostenuto, o se invece sia vittima della tachicardia dovuta ai ricordi.

Le imprecazioni di Matt – a quanto pare ancora intrappolato nel suo bozzolo di cavi – e le risate dei nostri amici mi riportano bruscamente alla realtà, costringendomi a sospirare mentre ricordo a me stesso che non è il momento di lasciarsi andare alla nostalgia, che Charlie si merita una festa che le rammenti quanto tengo a lei, e anche che non posso presentarmi ai miei ospiti in queste condizioni, con le sembianze di uno che ha dormito nella cesta delle divise sporche di una squadra di football reduce dalla finale del Super Bowl.

Attraverso la mia stanza liberandomi della t-shirt, pregustando l'attimo in cui mi infilerò sotto la cascata tiepida per lavare via la stanchezza dovuta all'attività fisica, mista a quella malinconia che mi indurrebbe a evitare i festeggiamenti, quand'ecco che lo scroscio dell'acqua al di là della porta del bagno semi aperta mi costringe a bloccarmi, del tutto incredulo.

Stringo i pugni con forza, mentre il gocciolio si interrompe. Eppure, questo la mia mente sembra non recepirlo, tanto sono vivide nella mia testa le immagini di mia moglie, stretta a me, contro le mattonelle di quella maledetta doccia, dopo una lunga giornata trascorsa al sole. Mi guardo attorno, confuso, con la mente che prende in considerazione mille ipotesi sull'identità del seccatore che si è avocato il diritto di usare il mio bagno, quand'ecco che il mio sguardo si posa su di un piccolo trolley grigio, lasciato in disparte accanto all'ottomana a ridosso della vetrata che permette una meravigliosa vista dell'oceano al tramonto.

Mi ritrovo a dover seguire l'istinto, che con una forza invisibile mi trascina verso l'uscio della stanza da bagno, costringendomi a scostare la porta un po' di più, quel tanto da sentirmi irrigidire nuovamente alla vista di un bikini blu con le stelline che penzola giù dal lavandino in pietra grezza. Deglutisco a vuoto, tentando di ordinare alle mie gambe di retrocedere, di indurre i miei occhi a fissare il parquet in legno chiaro, mentre la voce celestiale che riconoscerei tra mille intona le note di New York New York, togliendomi ogni dubbio riguardo l'identità della persona che sta uscendo dalla doccia.

Serro le palpebre, mentre un'ondata di aria tiepida mi investe come brezza di primavera al profumo di bagnoschiuma, quello di Serena, quello che amavo odorare direttamente dalla sua pelle bagnata. E mi ritrovo ad aver paura di aprire gli occhi per poi scoprire che purtroppo non è lei, quella che potrei vedere, bensì un'altra donna. Sono incastrato nuovamente in quel limbo di incertezza, lo stesso che mi accompagna da giorni, incapace di decidere se lasciarmi andare agli impulsi o se restare ancorato allo spirito di mia moglie, che diventa evanescente ad ogni secondo trascorso in compagnia di Lex.

L'anta di vetro della cabina si apre piano, mentre io resto immobile, a esitare, mentre le eventuali conseguenze di un'azione avventata come quella cui normalmente mi lascerei andare di riflesso mi riempiono la testa. No, dico... avete la minima idea delle ripercussioni che tutto questo potrebbe avere sulla mia sanità mentale, già così vicina ad andare a farsi fottere? E, soprattutto, avete presente come potrebbe reagire lei? L'angoscia che le provocherebbe trovarsi in una situazione del genere, dopo quello che le è... Dannazione, non riesco nemmeno a pensarci! E non crediate che la mia intenzione sia anche solo quella di immaginare di poter fare del male a Lex, di rievocare in lei ricordi così devastanti, di indurla a confondere quello che sarebbe il tocco carico di affetto delle mie mani sul suo corpo con quello viscido di un essere senza pietà... sebbene la voglia di vedere la sua pelle diafana libera da inutili indumenti mi spingerebbe a seguire il mio inconscio, anziché la ragione.

Sto per indietreggiare, mantenendo le palpebre ben chiuse, quando il rumore di qualcosa che si schianta a terra mi costringe inavvertitamente a guardare, e, porca puttana, sarei falso come una banconota da tre dollari se vi dicessi che non è spettacolare la visione che mi ha appena ipnotizzato.

Lex è nuda, si muove cautamente con gesti eleganti, mentre raccoglie i capelli umidi in una crocchia disordinata, mentre dalle sue labbra esce un'imprecazione a voce bassa per aver rovesciato il vaso contenente un'orchidea bianca. Non riesco a spiegarlo... non ce la faccio proprio a restituirvi una descrizione che renda giustizia alla bellezza di questa donna, non posso che restare incantato dinnanzi a tanta sensualità e dolcezza, mescolate assieme così sapientemente da indurmi a credere che il mio cuore non possa reggere un momento di più.

Invece resto immobile, a riempirmi gli occhi di lei: della sua pelle, dei suoi fianchi ancora non modificati dalla gravidanza. Piccole gocce d'acqua scendono dai capelli raccolti per poi scivolare sulle spalle, esili ma aperte, quasi a dimostrare di poter sostenere il peso del mondo, e poi lungo la spina dorsale leggermente in evidenza. Non avete idea di quanto vorrei poter essere una di quelle lacrime di acqua dolce, per scorrere sulla sua carnagione leggermente arrossata dal sole, sul suo sedere, non perfetto ma adorabile, e sulle gambe lunghe e slanciate.

Credo sia la prima volta nella mia vita in cui mi ritrovo a pregare una qualche entità superiore affinché Lex non si volti proprio in questo momento, perché, ve lo posso assicurare, non so se riuscirei a rispondere delle mie azioni. Fortunatamente, lo specchio di fronte al quale lei si trova riesce a regalarmi una visione meravigliosa, seppur parziale, del resto del suo corpo, del ventre appena arrotondato dai primi mesi di gravidanza, delle solite dannatissime gocce che rotolano sui suoi seni facendomi perdere del tutto il lume della ragione.

Osservo incantato quella piccola ruga che compare ogni qual volta è evidente che stia riflettendo su qualcosa o si stia concentrando per trovare ciò che vorrebbe afferrare, proprio come in questo momento, ora che le sue mani vagano a vuoto alla ricerca dell'accappatoio che si trova a una trentina di centimetri dalle sue dita. E non sapete quanto vorrei farmi avanti per aiutarla a recuperarla, quella maledetta vestaglia in spugna, invece sono del tutto incapace di muovere anche solo un muscolo, tanto è potente questo incantesimo: una magia che mi costringe ad ammirare tanta meraviglia senza poter spiccicare parola.

Finalmente Alexandra afferra l'indumento desiderato, annunciando la fine di questa dolce tortura, e proprio in questo momento, poco prima di avvolgersi nel telo bianco, noto un ultimo, delizioso particolare impresso sulla sua carnagione chiara: un tatuaggio che corre all'altezza delle costole, appena sotto il seno destro. Sono parole d'inchiostro nero, scritte in una calligrafia un po' incerta, la sua forse, che recitano "Let me play among the stars", mentre una miriade di stelline vi si spargono attorno, quasi fossero state soffiate da una fata invisibile e rese brillanti dalle ultime gocce di umidità sul suo corpo, come se potessero davvero risplendere di luce propria.

Una vibrazione mi riporta bruscamente alla realtà, facendomi sussultare. Come dite? No, vi assicuro che non si tratta di ciò che pensate, anche se devo ammettere che in questo momento il mio amico là sotto è tutt'altro che tranquillo.

Infilo la mano in tasca, nel vano tentativo di disattivare la suoneria del mio iPhone, prima che Lex possa accorgersi della mia presenza, ma nell'istante esatto in cui le prime note degli AC/DC risuonano nell'aria immobile è delirio. Alexandra lancia un urlo stringendosi nell'accappatoio, per poi appiattirsi contro il piano in legno a supporto dei due lavandini, lo sguardo terrorizzato di chi non ha idea di cosa stia per accadere, mentre io impreco ad alta voce, ritornando nella mia stanza dopo essermi sbattuto la porta alle spalle.

«Charlie che cazzo vuoi?!» sbraito contro il ricevitore, realizzando un momento dopo che in realtà sto reggendo il telefono al contrario.

«Ehi, è questo il modo di fare gli auguri alla tua migliore amica, razza di stronzo?» sbotta lei prima di scoppiare a ridere, seguita da Penelope.

«Vieni ad aprire il portone, Mister Raffinato, siamo qui fuori!» sbraita la sua ragazza, prima che la comunicazione si interrompa e un fastidioso strombazzare di clacson dal vialetto mi confermi l'arrivo della Mercedes grigio perla della festeggiata.

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