Capitolo 8
Mischio le lacrime col vino rosso
e ti sento nei discorsi di chi mi sta intorno.
Il capolavoro, Ultimo
Gabe non era in casa quando Percy, Annabeth e Grover si sedettero al tavolo della cucina quello stesso pomeriggio.
Percy offrì loro del caffè. Annabeth lo bevve in fretta, bruciandosi la gola con quel sapore amaro.
I capelli biondi le ricadevano morbidi sulle spalle. Se li era sciolti sull'autobus, e il loro profumo aveva fatto voltare Percy nella sua direzione e, inevitabilmente, aveva pensato che le stessero bene, quelle morbide onde bionde. Avrebbe dovuto tenerli sciolti più spesso.
– Hai contattato tuo padre? – chiese Grover, mentre posava con delicatezza la tazza azzurra sul tavolo in legno.
– No. – rispose Percy. – Non vuole avere niente a che fare né con me, né con mia madre. Probabilmente nemmeno mi risponderebbe.
– Dovresti provarci, Percy. – Annabeth si scostò una ciocca di capelli dagli occhi grigi che in quel momento sembravano leggergli fin dentro l'anima.
C'era qualcosa di familiare, in quegli occhi, qualcosa che lo faceva sentire compreso, capito. Qualcosa che non lo faceva sentire solo in quel disastro che era diventata la sua vita.
– Provarci non costa nulla. – continuò Annabeth. – Hai un suo contatto?
– Ho un indirizzo. Credo sia di un appartamento a Brooklyn. Mio padre è sempre in viaggio per lavoro, ma ogni tanto torna sulla terraferma.
– È un ottimo inizio.
Annabeth aprì il pc, pronta a prenotare i biglietti per il primo treno disponibile per Brooklyn, ma poi le venne un'idea.
Sorrise, e richiuse il PC.
– Sai, credo dovremmo aver paura di quel sorriso. Non penso porti niente di buono. – intervenne Grover.
– Mio padre ha un'auto. E io ho la patente. E se...
– L'ultima volta che io e Grover siamo saliti su un'auto insieme, non è andata a finire proprio bene. – commentò Percy, scherzando sì, ma solo fino a un certo punto. Non moriva dalla voglia di rivedere suo padre, e non sapeva nemmeno se quel giorno sarebbe stato in quell'appartamento.
Cosa avrebbe dovuto dirgli? Erano anni che non si incontravano di persona, e non era nemmeno sicuro che lui inviasse del denaro a sua madre.
Fare il viaggio in treno gli avrebbe dato modo di pensare, di riflettere.
– Non sarai da solo. Ci sarò anche io. – disse Grover. Il ragazzo si alzò in piedi e gli tese la mano. – Facciamo un accordo. Dove andrai tu, andrò anche io. Sarò il tuo guardiano, oltre che il tuo migliore amico. Ci siamo dentro insieme, a questa storia. E in fondo sai anche tu che possiamo fare un lavoro migliore della polizia.
Percy si sentì grato, in quel momento. Non era solo. Aveva Grover. Aveva Rachel. E aveva Annabeth che, per quanto fosse entrata nella sua vita solo di recente, si stava rivelando davvero un'amica.
Non era solo.
Insieme potevano venirne a capo.
– Andata. – rispose Percy, poi strinse con forza la mano tesa del suo migliore amico. Si voltò verso Annabeth, trovandola già pronta a fare altrettanto con lui.
– Grazie, ragazzi.
Non disse altro, non ce n'era bisogno.
Andò in camera di sua madre, cercò nei cassetti un quadernino malconcio, e lo portò in cucina.
Sfogliò le pagine finché non trovò un numero di cellulare appuntato su quella pagina ingiallita quasi vent'anni prima. Era la grafia di sua madre, e il nome accanto al numero non lasciava spazio ad alcun dubbio.
Prese un respiro profondo, prima di digitare il numero sulla tastiera del telefono e premere il tasto di chiamata.
Primo squillo.
Secondo squillo.
Terzo.
Al quarto, Poseidone finalmente rispose.
***
Il viaggio in macchina verso Brooklyn era stato più tranquillo del previsto.
Annabeth guidava senza fretta e, in fondo, Percy avrebbe dovuto aspettarselo.
Rachel non era con loro, ma andava bene così. Aveva un corso di pittura, e Percy pensava fosse giusto che lottasse per realizzare i suoi sogni con la stessa tenacia per cui lui lottava per realizzare i suoi.
A 16 anni, tutti hanno un sogno da realizzare. Tutti hanno voglia di lottare, di dare il meglio. E tutti sono forti abbastanza per farcela.
Il palazzo di Brooklyn in cui Poseidone viveva aveva una sala d'aspetto in cui il portiere li aveva fatti accomodare, in attesa del rientro.
Poi Poseidone era arrivato, e l'aria nella stanza si era fatta quasi dura, tanto era diventata irrespirabile.
Suo padre era sempre uguale: alto, atletico, forse con qualche capello bianco in più. I vestiti eleganti mettevano in risalto la sua figura, rendendolo affascinante, desiderabile.
Poseidone lo aveva guardato, gli aveva sorriso.
Percy non si era mosso, non aveva ricambiato il sorriso.
Lui, Grover e Annabeth lo avevano seguito all'ultimo piano.
Ovvio, pensò Percy, lui e sua mamma faticavano a coprire tutte le spese mentre suo padre poteva permettersi un attico a Brooklyn dove, per altro, non trascorreva che poco tempo.
La moquette rossa attutiva i suoni dei loro passi. L'appartamento, moderno, odorava di vaniglia.
– Volete da bere? – chiese loro Poseidone, chinandosi sotto il bancone della cucina e prendendo una bottiglia di vino rosso. – Questo è davvero buonissimo. Viene da un piccolo borgo in Toscana, Montepulciano. Non so se ne avete mai sentito parlare, ma è famoso per la produzione di vino.
– Siamo minorenni. – gli ricordò Annabeth, le mani nelle tasche posteriori dei jeans e i capelli ancora sciolti sulle spalle nascoste in una felpa rossa.
Poseidone le sorrise.
– Se il problema è questo, posso tranquillamente pagare un autista per riportarvi a casa. Sei tu che guidi, giusto?
Annabeth lo guardò, interrogativa.
– Si vede la sagoma delle chiavi nelle tasca anteriore dei tuoi jeans. – le rispose.
Annabeth si tirò giù la felpa, coprendole le tasche. Poi gli rispose:– Io prendo solo un bicchiere d'acqua. Naturale.
– Io anche. – rispose Grover che, fino a quel momento, non aveva detto molto. Continuava a fissare Poseidone, cercando di trovare sul suo viso gli stessi tratti di Percy. Ma, in fondo, l'unica cosa che avevano in comune erano gli occhi verde mare.
– Tu cosa vuoi, figliolo?
Annabeth e Grover trattennero il fiato, in attesa della risposta del loro amico.
– Curioso che, soltanto ora, ti ricordi di avere un figlio. Bevo volentieri un bicchiere di vino, grazie.
Poseidone sorrise, poi riempì due calici di vino. Prese una bottiglia di acqua San Pellegrino e ne versò un po' dentro due bicchieri d'acqua in cristallo. Li porse Ad Annabeth e a Grover, mentre Percy afferrò da solo il proprio calice di vino, afferrandolo per la coppa.
– Non avere fretta, ragazzo. Tieni il calice per lo stelo, non per la coppa. Altrimenti scalderai il vino, rovinando la degustazione. E bevi con calma, lascia il vino il bocca per qualche secondo, prima di deglutire. La senti anche tu quella sensazione in bocca? Questo è un vino pieno, corposo. Di qualità. Si possono dire tante cose degli italiani, ma il vino... il vino lo sanno fare dannatamente bene.
Percy annuì controvoglia, e seguì le istruzioni di suo padre. Anche un palato inesperto come il suo doveva ammettere che, quel vino, era di un livello superiore.
– Grazie per la lezione, paparino. – gli rispose con tono di sfida.
Poseidone posò il calice sul bancone della cucina.
– Non parli spesso con tua madre, giusto?
– Adesso è complicato parlarci, sai? È scomparsa da due mesi. Lo sapevi?
L'uomo trasalì e impallidì all'improvviso.
– Scomparsa?
– Già, papà. Da due mesi.
– Non... non lo sapevo.
– Quando è stata l'ultima volta che le ha parlato? – intervenne Annabeth.
– Io... le ho mandato un messaggio la settimana scorsa, per dirle che ero tornato a New York e che mi sarei fermato più del solito. Le ho chiesto di vederci. Non mi ha mai risposto, ma non mi sono preoccupato. Ho pensato solo che non ne avesse voglia.
– Perché avrebbe voluto vederti? – gli chiese Percy, stizzito.
– Io e tua madre ci vediamo ogni volta che torno in città.
– Non è vero.
– Certo che è vero. – Poseidone riprese il calice di vino. Ne bevve un sorso, e con un gesto del capo, invitò Percy a fare lo stesso. Si avvicinò a una mensola in legno e prese una cornice in argento. Sally sorrideva, nella fotografia. Accanto a lei, Poseidone le teneva un braccio sulle spalle. La stringeva, la teneva vicino a sé. Un gesto intimo.
– Mia madre non me lo ha mai detto. – sussurrò il ragazzo. Sua madre aveva l'aria felice, in quella fotografia. Gli occhi le brillavano.
– Che tu voglia crederci o no... io amo tua madre. Da sempre. E amo te. Anche se sono assente. Io trovo sempre il modo di sapere come stai, cosa fai. E sono orgoglioso dei tuoi traguardi e dei tuoi successi.
Percy non rispose, troppo sconvolto e attonito per parlare.
Poseidone continuò.
– Di solito torno una volta ogni tre mesi, scrivo a tua madre, ci vediamo in uno Starbucks qualsiasi. Lei prende sempre un cappuccino al caramello. Io una cioccolata calda. Non te lo ha mai detto, e questo un po' mi ferisce, ma... non posso intervenire nelle sue scelte di madre. Sono tuo padre, ma non ne ho alcun diritto.
Percy continuò a non dire nulla. Afferrò di nuovo la fotografia, l'unica prova di quello che stava dicendo suo padre. Era la verità, inutile provare a ribattere o a replicare.
Ma, cavolo, quella sensazione nel petto... faceva male.
Quante altre cose sua madre non gli aveva detto?
– Lei dov'è? – gli chiese allora Percy, trovando finalmente il coraggio di guardarlo negli occhi.
– Non ne ho idea, figliolo. Ma posso aiutarvi a trovarla.
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