Capitolo 3
If I told you I was down I was down would you help me
Told you I was down I was down would you lift me up
I need your strength I'll be up someday
If I told you I was down I was down would you lift me up
Lift Me Up, OneRepublic
– La stai di nuovo fissando. – gli sussurrò Grover, mentre chiudeva l'armadietto posto esattamente accanto a quello di Percy.
– Non è vero. – rispose l'amico, abbassando però lo sguardo verso le sue New Balance blu mare. Sapeva di avere torto, ma quando si era reso conto che l'armadietto di Annabeth Chase era praticamente accanto al suo, non era riuscito a fare a meno di guardare la ragazza che, sempre con il suo zaino verde sulle spalle, sceglieva con cura quali libri le sarebbero serviti per la lezione successiva. Anche quel giorno i capelli biondi erano raccolti in una coda di cavallo morbida che le sfiorava la schiena ogni volta che scuoteva leggermente il capo.
– Rachel non ne sarebbe contenta. – mormorò Grover. Percy scoppiò a ridere.
– Cosa c'entra ora Rachel?
– Non siete usciti insieme, la settimana scorsa? – Grover lo guardò con aria complice. Erano amici da sempre, eppure Percy si stupiva ogni volta di quanto lo conoscesse a fondo. Era una cosa meravigliosa, pensò, avere nella propria vita qualcuno che lo conoscesse davvero. Qualcuno su cui poter contare, sempre.
E lui, quante persone aveva così, nella propria vita? In quel momento, gli vennero in mente soltanto Grover e sua madre.
Cercò di reprimere la sensazione di tristezza che gli era arrivata, all'improvviso, fino alla gola. Le persone su cui contare avrebbero potuto essere di più, se solo suo padre avesse deciso di rimanere nella sua vita.
A volte, la consapevolezza che diciassette anni prima avesse preferito il mare invece di rimanere al fianco di sua madre e di suo figlio in fasce, gli faceva ancora male. A volte faceva così male, che gli sembrava quasi di soffocare. A volte, l'unico modo per tornare a respirare era uscire per buttarsi in mare o in piscina, e nuotare fino a quando gli arti e i polmoni non gli bruciavano per la fatica. A volte succedeva ancora. E se era vero che il tempo alleviava le ferite, quanti giorni, mesi o anni dovevano ancora passare prima che tutto quel disastro facesse meno male?
Non aveva una risposta, non sapeva se l'avrebbe mai avuta. Si diceva, tentava di convincersi che, in fondo, andava bene così. Finché avrebbe avuto sua madre e il suo migliore amico accanto a sé, sarebbe andato tutto bene.
– Siamo usciti, è vero, ma non è successo nulla di che. – rispose al suo amico, chiudendo a sua volta l'armadietto. Annabeth, nel frattempo, sembrava essersi volatilizzata in mezzo alla folla di studenti, ognuno diretto verso la propria classe.
– Avete in programma di uscire ancora? – gli domandò Grover.
– Non lo so. – rispose Percy, con sincerità. Uscire con Rachel era stato divertente, gli aveva dato modo di spegnere un po' la testa e non pensare agli allenamenti o a sua madre, sola a casa insieme a Gabe il Puzzone e ai suoi amici squinternati.
Forse avrebbe dovuto mandarle un messaggio e chiedere a Rachel di vedersi, quel pomeriggio.
***
Annabeth mise sul banco la copia di "Lettere a Milena". Quel volumetto, in realtà, apparteneva a sua madre, ma Annabeth, quando la sera prima lo aveva visto in uno dei ripiani più in alto della libreria, non aveva esitato a prenderlo. Aveva iniziato a leggerlo avidamente e, alla fine, quella notte aveva dormito ben poco.
Ora la testa le faceva male. Sentiva le palpebre pesanti, mentre appoggiava lo zaino a terra e prendeva posto nel suo piccolo banchetto. La sera prima non era riuscita a lasciar andare i due amanti, rapita dal loro carteggio e dal loro desiderio, ma in quel momento se ne pentiva amaramente.
La lezione di matematica sarebbe iniziata a breve. Chissà se la Professoressa Dodds si sarebbe presentata con un nuovo taglio di capelli.
D'un tratto, vide Percy Jackson entrare in classe. Svelta, distolse gli occhi dal ragazzo, afferrando il libro e aprendolo ad un pagina a caso.
112 [Praga, 25 settembre 1920]
Milena, tu non puoi capire esattamente di cosa si tratti o in parte si sia trattato, non lo capisco nemmeno io, tremo sotto l'attacco, mi tormento fino alla follia...
– Spero che il libro sia affascinante, ma vorrei parlarti di una cosa importante.
La ragazza alzò gli occhi, incontrando quelli verde acquamarina di Percy.
Le mancò il respiro per un attimo. Non rispose.
– Mi dispiace per ieri, non avrei dovuto trattarti in quel modo.
Annabeth continuò a non rispondere, ma arrossì visibilmente per l'imbarazzo. Si era tormentata tutto il giorno precedente per essere entrata nel bagno dei ragazzi a parlare con lui. Certo, non poteva sapere come sarebbe andata la conversazione, quando era entrata, ma dopo... dopo si era sentita così male.
– Mi dispiace. – insistette Percy.
Annabeth deglutì. Distolse lo sguardo dagli occhi del ragazzo, riportandoli sul libro che stringeva ancora tra le mani. Le pagine ingiallite dal tempo profumavano di antichità e passato.
– Accetto le tue scuse. – gli rispose, finalmente. – Ma a un'unica condizione. E ti avverto, non sono disposta a cedere. Su nessun punto.
Percy increspò le sopracciglia, e spostò il peso sull'altra gamba. Quel giorno indossava una semplicissima tuta da ginnastica nera. Il contrasto con la pelle diafana era evidente. Tutta quell'oscurità addosso, lo faceva sembrare così... tenebroso, pensò Annabeth.
– Ehm... quale sarebbe la condizione? – le domandò lui, il tono evidentemente incerto.
– Avvicinati. – gli chiese Annabeth. – Non voglio che tutta la classe ci senta.
Percy chinò il capo verso la ragazza, avvicinandosi a lei, e i capelli scuri gli caddero sulla fronte.
– Io sono brava in matematica. E fin qui non ci piove. – iniziò Annabeth. – In realtà, sono brava in un sacco di materie, studio molto, eppure tutta la scuola è convinta che i miei risultati non siano altro che il frutto dei miei, come dire, agganci all'interno della scuola. Niente di più falso.
La ragazza si interruppe per un secondo, soppesando le parole da dire.
– Ecco la mia proposta: io posso aiutarti concretamente in matematica. So il fatto mio, so come funziona. Posso aiutarti a migliorare, così la Dodds la smetterà di prenderti di mira. Ma tu... tu dovrai aiutarmi con gli altri. Dovrai convincerli che ho voti alti perché me li merito davvero, non perché mio padre insegna alla Halfblood High School. Non mi interessa come farai, voglio soltanto che mi aiuti.
Il ragazzo rimase in silenzio per qualche secondo, senza sapere come rispondere. Da un lato, aveva disperatamente bisogno di ripetizioni di matematica. Essere soltanto un campione di nuoto non gli avrebbe garantito una borsa di studio per la New York University. Aveva bisogno di voti alti in tutte le materie. Ma aiutare Annabeth a migliorare la sua reputazione... gli sembrava un'impresa impossibile.
Annabeth non aveva amici, Percy lo sapeva. La ragazza se ne stava sempre per conto suo, persino durante la pausa pranzo. Nessuno le rivolgeva mai la parola. Come avrebbe potuto lui, da solo, aiutarla?
– Ehm... posso provare ad aiutarti, ma...
– Non voglio che tu ci provi, voglio che tu ci riesca. – lo interruppe bruscamente Annabeth. – Io non proverò a darti ripetizioni di matematica, io riuscirò a farti prendere almeno una dannatissima B. Io non provo mai a fare le cose, io ci riesco sempre, Jackson.
E Percy aveva così tanto bisogno del suo aiuto, ne era consapevole. Sua madre non si sarebbe mai potuta permettere la retta del college. Era suo dovere impegnarsi al massimo per non deluderla e diventare una stella del nuoto. Era tutto ciò che sua madre aveva sempre voluto per lui. E Percy era disposto a tutto pur di renderla felice.
– Ci sto. – disse alla fine.
Annabeth sorrise, grata. – Grazie, Testa d'alghe. Ci vediamo domani pomeriggio in biblioteca.
Percy annuì. Dentro di sé sentiva che quell'accordo era una pessima idea.
E, in fondo, aveva ragione.
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