Capitolo 2

E costa cara la fragilità

per chi un posto nel mondo non ha

Sabbia - Ultimo

Trovare Annabeth Chase appoggiata alla porta d'ingresso del bagno era l'ultima cosa che Percy si aspettava sarebbe successa quel giorno.

La ragazza lo guardò uscire da uno dei tre bagni e dirigersi verso il lavandino per lavarsi le mani. Il metallo del rubinetto sotto le dita del ragazzo era freddo, così come l'acqua che vi usciva dal rubinetto.

Percy si chiese se Annabeth fosse entrata consapevole del fatto fosse solo in bagno. O se, magari, non le importava ci fossero altri ragazzi. Ma soprattutto, cosa ci faceva lì?

Non la conosceva, nonostante avessero frequentato entrambi le stesse scuole fin dalle elementari. Non che ci fossero altre alternative. La piccola cittadina in cui erano cresciuti non offriva altre opportunità e New York era decisamente troppo lontana da lì. La vita da pendolare era impensabile.

Percy le lanciò un'altra occhiata, mentre prendeva della carta per asciugarsi le mani. Annabeth si stava guardando le converse rosse, le mani dietro la schiena, appoggiate alla porta di legno. Una ciocca le doveva essere uscita dalla coda di cavallo e le cadeva dolcemente sul viso chiaro e dai lineamenti delicati. La felpa blu le abbracciava il busto e le arrivava fino a metà coscia, nascondendo le sue forme. I jeans chiari erano, però, attillati e lasciavano intuire delle gambe snelle e, quasi sicuramente, toniche. Il suo zaino verde giaceva a terra, accanto a lei.

In quel momento Percy si rese conto che non si era mai preso un momento per guardare davvero Annabeth Chase. I suoi occhi indugiarono un secondo di troppo sulle sue gambe lunghe. Si chiese come sarebbe stato vederle muovere nella piscina coperta della Halfblood High. Percy era quasi sicuro che, se Annabeth avesse deciso di dedicarsi al nuoto, avrebbe ottenuto risultati eccellenti. Come in tutto ciò cui decideva di dedicarsi. O forse no. Per ottenere ottimi risultati in vasca non sarebbero bastate le raccomandazioni di suo padre.

– Ciao. – le disse perché, era evidente, lei non sembrava intenzionata a parlare.

Annabeth si schiarì la voce. – Ciao.

Percy attese che dicesse altro, ma la ragazza continuava a fissarsi le scarpe senza dire altro.

Nel corridoio, la campanella che segnava l'inizio della seconda ora suonò, ma Annabeth non si mosse. Che avesse deciso di saltare l'ora? Non sarebbe stato da lei. O forse sì?

Percy scoppiò a ridere. – Ehm, ti sei accorta che è appena suonata la campanella? Dobbiamo andare a lezione. Oppure hai deciso che non ti interessa?

Annabeth si prese ancora qualche secondo prima di alzare il capo e guardarlo negli occhi.

– Mi dispiace. Per quello che è successo durante l'ora di algebra.

Percy rimase interdetto. Cosa stava dicendo?

Dato che alla ragazza non sembrava importare che avessero lezione, Percy si sedette sul ripiano dei lavandini, le gambe penzoloni sulle piastrelle grigie.

– Perché ti dispiace? Adesso credo di aver capito le equazioni di primo grado. Penso sia una vittoria, no?

Annabeth scosse il capo con decisione. – No. Cioè, sono contenta che tu abbia capito come risolverle, ma... mi sono comportata male. Avrei dovuto fingere di non sapere come fare. O avrei potuto rifiutarmi di andare alla lavagna, o...

– Frena, frena un attimo! – la interruppe Percy. – Non penso che tu abbia fatto qualcosa di sbagliato.

Annabeth sgranò i grandi occhi grigi. – Oh. Davvero?

Percy scosse il capo. – Non è colpa tua se sei la cocca degli insegnanti. Non è colpa tua...

– Cosa hai detto?! – lo interruppe lei. Si staccò dalla porta di legno, e le converse cigolarono sulle piastrelle lucide del pavimento. Si avvicinò a Percy che, ancora seduto sul ripiano del lavandino, riusciva a guardarla perfettamente negli occhi. Di che colore erano? Gli sembravano azzurri, anche se c'erano delle sfumature che non era sicuro di riuscire a cogliere sotto la luce al neon della scuola. Di sicuro adesso brillavano colmi di rabbia e frustrazione.

– Non posso credere che tu lo abbia detto veramente! Io, io... non riesco a crederci!

Annabeth si allontanò da lui, mostrandogli le spalle incurvate, come se portasse un peso troppo gravoso per lei. Si voltò di nuovo, e a Percy non sfuggì una lacrima sul viso della ragazza.

– Ma sai cosa c'è? Non mi interessa cosa pensi. Non mi interessa niente, né di quello che pensi tu né di quello che pensa il resto delle persone in questa stupida scuola! – continuò ancora, prima di dirigersi in fretta verso la porta del bagno. Afferrò il suo zaino verde e se ne andò senza dire altro.

Percy rimase a guardare la porta che si chiudeva in fretta.

Cosa era appena accaduto?

***

– Che sia benedetto il martedì! – borbottò Grover, prima di addentare con ingordigia la prima delle due enchiladas che aveva nel piatto. Il sugo gli colò sul mento e sul pizzetto ispido.

Percy osservò il piatto del suo amico, poi guardò la sua banana e il suo misero tramezzino. Lo invidiava. Lo invidiava da morire in momenti come quelli, ma se si fosse concesso anche soltanto metà della sua porzione, sarebbe stato troppo appesantito per dare il meglio negli allenamenti di quel pomeriggio. Non aveva voglia di sentire la ramanzina del suo allenatore.

In quel momento notò Annabeth che entrava in mensa, da sola. Si mise in fila per prendere da mangiare e, quando dopo pochi minuti le furono servite le sue enchiladas, si diresse verso il tavolo in fondo alla mensa, uno dei pochi rimasti vuoti.

Percy aveva continuato a pensare al loro breve scambio nel bagno per tutta la mattinata. Gli dispiaceva aver ferito Annabeth e, per un attimo, gli aveva sfiorato la mente l'idea che, forse, le voci che circolavano su di lei non fossero vere.

– Perché stai guardando la Chase? – gli domandò Grover. I suoi occhi scuri brillavano, interrogativi.

– Nulla. – rispose Percy in fretta. Non era sicuro di volerne parlare con lui, ma forse avere un suo parere lo avrebbe aiutato a sbrogliare la matassa.

– In realtà... – iniziò allora. – Oggi è successa una cosa alquanto... bizzarra? Non saprei neanche come definirla.

Raccontò a Grover cos'era successo nel bagno e, alla fine, il suo migliore amico scoppiò a ridere.

– Quella ragazza non ha tutte le rotelle a posto, dovresti saperlo. Non starci troppo a pensare. – gli rispose. – Lo sanno tutti.

***

Mi dispiace, Annie, ma oggi non riesco ad esserci per la nostra consueta videochiamata del martedì. Molti bambini sono malati e, purtroppo, non posso permettermi neanche di riposare.

Mi manchi molto. Spero che vada tutto bene.

Annabeth rilesse il messaggio un paio di volte, prima di posare il cellulare sulla scrivania e gettarsi sul letto.

Avrebbe voluto parlare con sua madre, vedere il suo sorriso... e invece non poter parlare con lei si era rivelata l'ennesima delusione di una giornata partita decisamente con il piede sbagliato.

Si sentì invadere dalla voglia di piangere e urlare, ma si trattenne. Strinse tra le mani il copriletto rosa con le stelline gialle, lo stesso di quando era bambina. Strinse la stoffa morbida finché le mani non le fecero male e, piano, sentì la rabbia e il dispiacere evaporare via.

Domani sarebbe andata meglio. Domani sarebbe stato diverso.

Sbuffò, sconsolata. Se voleva che le cose andassero meglio, doveva innanzitutto partire da sé stessa. Le serviva un piano.

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