II - Lilith

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"Cosa ti aspetti?"
"Stai vagando ormai da ore senza meta"
"Non troverai niente oltre al buio"
"Accendi la tua anima"
"Guarda avanti"

Il buio si stringe attorno a me come una morsa implacabile. Le frasi che sento rimbombare nella mia mente sono sussurri, vaghi e confusi, che si mescolano alle ombre in questo luogo ignoto; si fanno strada attraverso il buio che mi circonda, incitandomi a trovare una via d'uscita da questo labirinto onirico. Sento il peso dell'incertezza e della paura stringermi il petto, mentre il suono lontano di passi riecheggia nell'aria, avvicinandosi sempre di più. Il significato di esse mi sfugge, ma un imperativo nascosto mi spinge a non arrendermi. A cercare. A trovare una via d'uscita.

Mi lascio guidare dalla curiosità, avvicinandomi con cautela al suono dei passi, il cuore martellante nel petto. Mentre si avvicinano, avverto l'aria intorno a me farsi più densa, quasi soffocante. Il cuore accelera, martellando furiosamente nel petto, un richiamo disperato alla vita in mezzo a tanta oscurità. Mi sa di presagio, eppure non riesco a smettere di seguirlo, guidata dalla mia stessa curiosità e dal bisogno primordiale di capire, di sapere. Vengo subito colta da un forte odore di ferro, o per meglio dire di sangue. Le mie mani si impregnano di quella sostanza viscosa. E con esse i miei piedi. Un brivido mi percorre la schiena, ma è troppo tardi per fermarmi.

La presenza si fa più vicina. Si vedono solo i suoi occhi. I suoi grandi occhi ocra quasi cristallini. Mi ipnotizzane, come se fossi in trappola, incapace di distogliere lo sguardo. Un tocco gelido mi sfiora la guancia, spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. La mano che mi sfiora è fredda come il ghiaccio, e il cuore sembra fermarsi quando sento i denti affilati che si posano sul mio collo, pungendolo delicatamente. La paura mi paralizza, impedendomi di gridare, di fuggire. Poi, tutto diventa nero. L'ultima cosa che ricordo è un flebile gemito, un suono appena accennato che si spegne nel nulla.

Mi sveglio con un sobbalzo, il cuore ancora impazzito nel petto. Le mani si stringono disperatamente alle lenzuola umide, mentre il respiro affannato riempie il silenzio della stanza. Il terrore dell'incubo è ancora così vivido che il mio battito cardiaco rimbomba martellante nelle orecchie e subito le mie dita tremolanti vanno a toccare il lato sinistro del collo, dove ovviamente non vi è alcun segno. Eppure, l'immagine di quei denti affondati nella mia pelle è così reale da farmi dubitare. Un sogno. Solo un sogno, ma diverso da qualsiasi altro abbia mai avuto. Di solito i miei sogni sono frammenti confusi che dimentico appena sveglia, ma questo... questo è diverso. Sento ancora il peso della paura gravare su di me, mentre il battito inizia lentamente a tornare alla normalità.

Appena ripreso il ritmo naturale del respiro, i miei occhi si spostano verso la finestra da dove filtra la luce di una brillante ed al contempo pallida luna, regina solitaria di una notte ancora troppo fonda. Qualcosa attira la mia attenzione: una figura scura si muove lentamente sul davanzale esterno. Mi avvicino e realizzo che è un gatto nero. I suoi occhi ocra, intensi e misteriosi, mi fissano con una calma disarmante. C'è qualcosa di ipnotico in quello sguardo, come se fosse in grado di leggere ogni mia emozione nascosta.

Senza dar importanza alla temperatura, mi dirigo fuori dopo aver indossato vestaglia e pantofole, l'immagine del gatto che continua a balenarmi in mente. Nonostante l'ora tarda, davanti a me si presenta una Seattle trafficata e illuminata in ogni angolo, soprattutto a causa del periodo pre-natalizio imminente. Il Natale... ricordo che da bambina contavo i giorni già dalla fine del precedente, e ora, invece, mi dà tanta malinconia, come se avessi paura di tutta quella gioia, di quella bontà che ora trovo sin troppo finta, figlia solo del consumismo e dell'esser buoni a tutti i costi, perché anche esser buoni a Natale è di moda.

Sospiro per il freddo, rabbrividendo per il contatto della mia pelle abituata alla temperatura dell'ambiente interno e delle coperte in cui ero avvolta pochi istanti prima con la sottile ringhiera di ferro. Chiudo gli occhi per qualche secondo, beandomi della leggera brezza che si è appena alzata, muovendo nell'aria ciocche sparse dei miei capelli e facendomi stringere ancora più forte a quella vestaglia di lana, unica barriera tra me e la fredda notte. Il mio sguardo si fa sempre più distratto, iniziando a fissare il vuoto, mentre l'unica cosa che mi passa per la mente è voler diventare polvere invisibile e perdermi in quel vento, volando via, fuggendo finalmente da tutti i miei problemi e i miei pensieri più neri e celati.

Tutto d'un tratto, quel rigido freddo mi fa tornare alla realtà, dissolvendo in un attimo ogni mio pensiero; decido quindi di rientrare, intuendo, per mia sfortuna, che non riuscirò più a dormire. Quando mi volto per l'ultima volta verso la finestra, noto che il gatto è scomparso. Mi domando se fosse reale o solo un sogno, una proiezione della mia mente stanca.

Le 3:12

La cosa, ovviamente, non mi sorprende; mi sono addormentata veramente troppo presto questa sera. Ma comunque decido di infilarmi nuovamente sotto le coperte, per avvolgermi di nuovo in quel calore che per mia fortuna si è mantenuto. Cerco conforto nella mia playlist preferita, infilando le cuffiette e lasciando che la musica mi avvolga. Apro uno dei libri sul comodino, immergendomi nelle novelle di Maupassant, ma anche quelle pagine, solitamente così rassicuranti, sembrano non riuscire a scacciare del tutto l'inquietudine che mi ha lasciato l'incubo. Continuo a leggere fino alle prime luci dell'alba, quando il sonno mi reclama di nuovo. Non ricordo esattamente quante pagine ho letto, solo che quando giungono le 9 del mattino, il libro è finito e con esso anche il mio breve momento di pace.

Amo Maupassant. C'è qualcosa di così oscuro e sublime nelle sue parole, qualcosa che parla direttamente alla parte più nascosta di me. Quando chiudo il libro e lo ripongo nella libreria, non posso fare a meno di sentire un vuoto, un senso di perdita che accompagna sempre la fine di un buon libro.

Guardare quell'accumulo di pagine scritte mi fa rimembrare delle ore interminabili passate in compagnia di tutti quegli autori che tanto amo. Sospirando pesantemente, apro le tende della grande finestra facendo entrare tutta la luce possibile nella stanza, ma mi accorgo dopo poco che la neve scende copiosa, movimentando quello che altrimenti sarebbe il solito cielo nuvoloso e latteo invernale.

Quel manto candido ha ricoperto ormai le strade della città, rendendo il paesaggio quasi irriconoscibile. È davvero straordinario il potere di quei piccoli cristalli che mi hanno sempre affascinato mentre li fisso nel loro cadere a terra. Ogni fiocco di neve sembra una piccola promessa di pace e tranquillità, un invito a lasciare andare il caos e abbracciare la serenità. Ma so che non è così semplice. Le emozioni dentro di me sono troppo forti, troppo radicate per essere cancellate da un semplice manto di neve.

Le mie labbra d'impulso si inarcano in un leggero sorriso ripensando alla me bambina che amava quei leggeri e silenziosi cristalli che tingevano strade, case, alberi e automobili di bianco, con cui poi giocavo per ore ed ore. Oramai, però, so benissimo che non sarà più un ricordo felice. Scaccio tutti i pensieri dalla mia testa e mi dirigo con fare ancora troppo assonnato verso la cucina, con la voglia matta di prepararmi una cioccolata calda.

Il telefono vibra, segnalando una nuova notifica. Con riluttanza allungo la mano per afferrarlo e noto i messaggi dal gruppo del corso di poesia che sono finalizzati ad un imminente incontro per ultimare l'elaborato. Di tutti quei messaggi che scorro velocemente in quanto noiosi e ripetitivi, me ne colpisce solo uno: è da parte di Beth.

Dea della seduzione

Hai intenzione di renderti utile almeno per questa volta o preferisci rimanere un peso per il gruppo?

9:15 AM

Quasi mi viene l'impulso di sbatterlo ferocemente a terra, imprecando invece con tutte le parole che mi vengono in mente. Non voglio sentir nominare la scuola, né tantomeno essere minacciata da lei. Ma che ne sa...? Ma che vuole da me? Così lo lascio velocemente e torno soddisfatta in camera mia adagiando la tazza ancora fumante sulla scrivania, dove ho sparsi su tutta la superficie fogli di canti, poemi, versi in prosa e rispettive parafrasi che ovviamente non ho intenzione di sistemare.

Forse sono troppo affezionata a quel disordine che rispecchia spaventosamente quello che ho dentro di me, così lo ignoro con un classico "Lo faccio dopo". Con la cioccolata calda tra le mani, mi siedo alla scrivania, cercando di trovare conforto nel calore della bevanda e nella dolcezza del cioccolato. Ma i pensieri di Beth e del gruppo di poesia continuano a tormentarmi. Sento la pressione di dover dimostrare qualcosa, di dover essere all'altezza delle aspettative. Ma allo stesso tempo, mi ribello all'idea di dover conformarmi, di dover seguire le regole imposte dagli altri.

Mentre sorseggio la bevanda, i miei occhi cadono su uno dei miei poemi preferiti, scritto su un foglio spiegazzato. Le parole sembrano brillare alla luce della lampada, come se cercassero di dirmi qualcosa. È un poema che parla di libertà, di trovare la propria strada, di non lasciarsi influenzare dagli altri. Quelle parole mi danno conforto, mi fanno sentire meno sola. Sorrido per la prima volta da giorni, sentendo che forse, dopotutto, c'è ancora speranza.

Sono passate ben due settimane dall'inizio della pausa natalizia che oramai è in procinto di finire.

...le 18:07...ho ancora tempo...

Mi sto ripetendo mentalmente come un mantra che è ora di finire l'ultimo libro rimasto. Altre 600 pagine volano via. Il tempo a disposizione è scaduto e domani devo tornare in aula e riprendere la mia noiosa vita da studentessa. Rinuncio all'idea di finire quella lettura per stasera, sposto il segnalibro e chiudo la copertina rigida. Mi preparo l'uniforme blu e nera, con la camicia ancora da stirare, la cravatta e la gonna scozzese, infilando i pochi libri che mi servono nella borsa.

È ormai notte fonda quando mi sdraio sul letto a pancia in giù, cercando una soluzione per rendere i prossimi giorni meno odiosi di quanto sicuramente saranno. Mentre lo faccio, i miei occhi si chiudono lenti e pesanti, posandomi dolcemente tra le braccia di Morfeo.

La mattina seguente mi sveglio con il suono insistente della sveglia. Nonostante il torpore del sonno che ancora mi avvolge, mi costringo a uscire dal letto. Guardo l'orologio: le 6:45. Sospirando pesantemente, mi rassegno al ritorno alla routine scolastica. Dopo essermi infilata la divisa, vado in cucina per fare colazione. Il mio sguardo vaga distrattamente per la stanza, fermandosi ogni tanto sui pochi decori natalizi che ho posizionato qua e là, cercando di infondere un po' di spirito festivo in quella casa altrimenti spoglia. Mentre sorseggio il mio caffè, un pensiero mi attraversa la mente: forse non tutto è perduto. Forse, con un po' di impegno, posso rendere quei giorni meno odiosi di quanto immagino. Forse posso trovare un modo per trasformare la mia solitudine in qualcosa di produttivo, in qualcosa che mi faccia sentire meno alienata e più connessa con il mondo intorno a me. Mi aggrappo a quel pensiero come a una scialuppa di salvataggio e mi dirigo verso la porta, pronta ad affrontare un'altra giornata.

👁️

«Libro IV, capitolo XXVIII»

Prendo la grande raccolta di Apuleio che ho vicino e sfoglio i capitoli fino ad arrivare a quello interessato. La favola di Amore e Psiche. Ho già letto quel libro più e più volte nella mia vita, ma ogni volta, non nego, fa il suo effetto.

«Sul serio? Abbiamo già letto tutti questo libro quando avevamo sì e no undici anni!»

Ridacchio scuotendo la testa. Layla. La solita Layla. Forse con qualcuno ho stretto amicizia al college: ci siamo conosciute all'open day, ed è stata lei a presentarsi per prima. È una ragazza semplice, ma il suo essere logorroica e fissata con il gossip mi ha subito preso e fatto sentire affine a lei. Se si pensa agli esempi di ragazze nel complesso, o erano amiche - o per meglio dire schiave - di Beth o erano spaventate da lei a tal punto da seguirla e imitarla in ogni sua decisione e modo di fare. Lei invece no. Lei quasi ringhia al passaggio della sua scia di Chanel N.5, come se fosse un cane alla vista di un gatto, ma soprattutto non mi lascia sola nelle pause e nei momenti morti delle giornate, almeno quando non è occupata nei suoi altri corsi, e va bene così.

È una delle tante volte in cui mi perdo tra le parole del professor Mitchell mentre legge con espressione e fare teatrale quei versi, facendomi venire la pelle d'oca. Detto ciò, riprendo a seguire la lezione; mi sembra quasi di diventare un personaggio di quel racconto, iniziando a chiudere gli occhi per alimentare quelle immagini che, ad occhi aperti, non potrei mai gustare così tanto.

Sobbalzo sulla sedia quando la porta dell'aula si apre di scatto, rivelando una figura maschile a me sconosciuta. Il professore, con fare irritato, smette di proseguire la sua lettura e, dopo aver tolto gli occhiali, ripone il libro sulla cattedra appena dietro di lui, stropicciandosi gli occhi.

«Signor Blake, bell'inizio di corso direi. Deduco quindi che per lei la puntualità non è tutto...»

Sbuffo per quell'interruzione inutile che rovina le scene mitiche di quel racconto che la mia mente aveva iniziato a sviluppare dall'inizio dell'ora, svanendo come polvere di stelle. È innegabile però il fatto che ci sia qualcosa in lui di estremamente attraente: alto, capelli di un nero più scuro del mio e occhi di un ocra mai visto che si muovono spostandosi ad osservare ogni singola persona nell'aula che, in quel momento, era impegnata a domandarsi incredula chi sia, creando un sottofondo simile al frinire delle cicale.

Un brivido mi corre lungo la schiena quando quelle due gemme si posano su di me, e impulsivamente annullo quel contatto, posando la mia vista altrove. Eppure avverto una strana sensazione, come di nostalgia.

Sono così presa dalla tensione che non mi accorgo nemmeno che si sta avvicinando con un'andatura piuttosto lenta in quella che si dimostra essere la mia direzione, anche perché uno dei pochi posti liberi rimasti. Mi rassegno, capendo che ormai non posso più rimanere da sola e le mie mani si muovono automaticamente per fare spazio sul banco, sistemando i miei libri e appunti in modo più ordinato, anche se dentro di me non voglio assolutamente che si sieda accanto a me. Sento i suoi occhi pesanti sulla mia figura, in attesa di un mio probabile «benvenuto» che ovviamente non arriva. Ormai rassegnato, posa la sua borsa sulla superficie in legno e si siede per quello che ritengo essere troppo vicino per rispettare la mia safe zone.

Non ho intenzione di rivolgergli parola, non dopo aver interrotto la lettura in un punto troppo importante e invaso il mio spazio. Niente e nessuno può invadere quello che da tempo è un mio territorio che tanto mi sono sudata.

Il professore riprende la lezione, ma io non riesco più a concentrarmi. La presenza del nuovo arrivato è troppo forte, troppo ingombrante per essere ignorata.

Nonostante cerchi di immergermi di nuovo nella favola di Amore e Psiche, le parole del professore non riescono più a catturarmi come prima. Mi chiedo cosa stia pensando quel ragazzo, perché sia arrivato così tardi e cosa lo abbia spinto a scegliere proprio il posto accanto al mio. E, ancora una volta, la domanda mi assilla:

Chi diavolo è?

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