3. Pace

"Zio Dam!"

Un sorriso gigantesco, uno di quelli che sembra coprire tutto il viso, una cascata di riccioli scuri e ribelli, due occhi profondi e brillanti. Tutto sorriso e ricci, il figlio di Chiyuki era un raggio di sole sotto copertura, suo zio Damon l'aveva sempre pensato.

Alla soglia dei quattro anni si dimostrava già riflessivo e curioso, anche se aveva una nota ribelle e selvaggia, probabilmente eredità del padre, che lo rendeva tale e quale a tutti i suoi coetanei. Per fortuna di sua madre non era un bambino testardo, spiegandogli le cose con calma si riusciva sempre a raggiungere il compromesso, e quella era una delle cose che Damon amava di più di lui. Spesso parlavano a lungo insieme, di tutto e di niente come solo con i bambini si può fare, e il risultato di quelle conversazioni riusciva a sorprenderlo ogni volta.

Poter ammirare dal vivo il processo cognitivo di un bambino è un dono che viene concesso a pochi, avere il libero accesso al loro mondo che sfugge alla grigia logica degli adulti è una di quelle cose che fa rivalutare un'intera esistenza. Era capitato anche a Damon, che dopo la nascita di sua sorella e di suo nipote aveva scoperto di desiderare altro nella vita. Grazie ad Oscar e Olivia gli si era aperto un mondo che fino a quel momento ignorava, un mondo pieno di una sana dose di realtà condita da magia e gentilezza: il mondo dei bambini. Non era un mondo fatto di fiabe e perfezione, a volte c'era da strapparsi i capelli, ma l'amore per quei due bambini l'aveva spinto a documentarsi, buttarsi, provare. Così, un giorno, dopo aver riportato a casa Oscar dall'asilo, aveva acceso il computer e, senza il minimo dubbio, aveva mollato letteratura e si era iscritto a scienze della formazione primaria. Basta fantasmi di carta ad abitare le sue giornate, d'ora in avanti voleva mettere tutto se stesso per riempire i suoi giorni di urla e risate, schiamazzi, pennarelli lasciati aperti, tappi perduti, manine sporche di colla e sorrisi pieni di gioia. Voleva insegnare all'asilo, circondarsi ogni giorno di quell'amore semplice e spontaneo che i bambini dimostrano a chi si prende cura di loro. Il cuore aumentava i battiti al solo pensiero. Diventerò un maestro all'asilo.

Aspettava da tanto una svolta nella sua vita e finalmente l'aveva trovata. I nuovi studi lo appassionavano, i suoi compagni di corso gli piacevano e aveva iniziato ad uscirci, nonostante avessero qualche anno in meno di lui. Era strano, si sentiva come un liceale anacronistico. Posto giusto, persone giuste, tempo sbagliato. Però se n'era fatto una ragione in fretta, in fondo quei sei, sette anni, che lo separavano dai suoi nuovi amici non pesavano così tanto anzi, quei ragazzi erano per lui come una ventata d'aria fresca e frizzante. A modo loro gli stavano insegnando quello che nell'adolescenza si era perso: le feste infrasettimanali, le serate che tirano avanti fino alla mattina, le lezioni con l'hangover, i pomeriggi in spiaggia con il sole che picchia in testa mentre si studia, gli scatoloni di piazza passati come bong seduti sugli asciugami, preparare un esame tutti stretti sul pavimento di una camera disordinata a darsi addosso i libri per la disperazione. Gli piaceva la sua nuova vita, per la prima volta se la sentiva calzare a pennello.

Oscar gli si buttò fra le braccia, sicuro di essere preso al volo. Damon lo sollevò con un braccio, tenendo stretto nell'altro sua sorella.

"Oscar! Che ti avevo detto? Non puoi saltare addosso allo zio quando ha in braccio Olivia!" Chiyuki spuntò dalla cucina, i ciuffi che sfuggivano ribelli alla coda disordinata, la mani bagnate che stringevano distrattamente un asciugamano.

"Ma ce la fa!" protestò il bambino, stringendogli le braccia attorno al collo. "È forte lo zio Dam!"

Chiyuki scosse la testa, posando le mani sui fianchi.

"Tu e il tuo ego dovreste proprio smetterla di dargli corda."

"Dai, Chiks, finché ce la faccio godiamocela. Presto questo ometto sarà più alto di entrambi noi due e vedrai, quella volta sarà lui a portarci in braccio! Vero, Oscar?" il bambino rise, strofinando il visino contro il suo collo, colto da un istante d'imbarazzo.

Chiyuki sorrise alzando gli occhi al cielo.

"Come volete, ragazzi."

Poi si era avvicinata a Damon e con delicatezza aveva preso fra le braccia Olivia, sorridendole piena di dolcezza.

"Ciao, principessa" le aveva posato un bacio sui capelli, scostandole qualche ciuffo ribelle, rivelando l'inconfondibile neo che le ornava il centro della fronte. "È andata bene all'asilo oggi?"

Olivia annuì, passandosi fra le manine la collana con la chiave di Chiyuki, osservandola con gli occhi luminosi di interesse.

"Dami mi ha fatto portare le fotocopie dei gattini da colorare, erano bellissime" sorrise, con le guance arrossate dal piacere.

"Wow, ma è meraviglioso. Le fotocopie con i gattini, eh? Ho sempre adorato i gattini."

Olivia le sorrise, lasciando la presa sulla sua collana, concentrandosi sui nuovi orecchini della ragazza.

"Che dici, Liv, andiamo a fare merenda? Ho appena finito di tagliare la frutta."

Gli occhi della bambina si illuminarono, puntandosi nei suoi, pieni di improvviso entusiasmo.

"Sì! È buona la frutta!" agitò le gambine emozionata, facendo ridere tutti quanti. "Andiamo, zia Cici!"

Chiyuki la posò a terra, scompigliando i ricci del figlio, che le si era affiancato e aveva allungato raggiante la mano verso quella di Olivia. La bambina la strinse con sicurezza, avviandosi insieme ad Oscar verso la cucina, Damon e Chiyuki subito dietro di loro che li osservavano con il sorriso.

"In questi momenti non sembrano nemmeno reali" commentò Chiyuki a mezza voce. "Sembrano saltati fuori dalle pubblicità delle uova di Pasqua."

Damon le sorrise, aiutando la sorella a sedersi sulla sedia. Era più bassa dei suoi coetanei, in una famiglia di spilungoni come la sua aveva preso dal padre. Sarebbe rimasta una bambolina in eterno, e forse a Damon l'idea non dispiaceva.

"Allora forse li stiamo crescendo bene."

"Non lo penseresti dopo aver dato un'occhiata alla cameretta di Oscar."

Oscar rimase con la forchetta a mezz'aria, un pezzo di fragola infilzato e l'espressione corrucciata, tutta la somiglianza con suo padre in evidenza.

"Dopo metto in ordine! Giuro!"

"Bravo il mio ometto" Chiyuki gli pettinò i capelli con le dita, sorridendo, gli occhi traboccanti di dolcezza.

Damon le si era avvicinato.

"Manipolatrice" le aveva sussurrato, con un sorrisetto. Lei gli aveva tirato un accenno gomitata contro le costole, ridacchiando.

"Ho imparato dalla migliore sulla piazza."

Si guardarono e si sorrisero. Emily sarebbe stata fiera di lei.

***

"Sto iniziando un po' a perdere lo smalto" sospirò Chiyuki, gli occhi puntati sui due bambini che, seduti sul tappeto ai piedi del divano, giocavano con le costruzioni. Olivia progettava una scuderia con recinto per il suo cavallino, Oscar costruiva la casetta dei suoi sogni, con tanto di stanza per l'albero di Natale. Chiyuki sorrise.

"Sai, non riesco più a stare dietro agli studi. Ho cannato due esami all'ultima sessione, uno poi l'avevo totalmente rimosso. Non ho più il mantello da super mamma che avevo quattro anni fa. Adesso riesco solo a seguire Oscar, i libri rimangono sulla mia scrivania intoccati per giorni. Non so se sono solo stanca oppure se ne ho perso la voglia. I miei mi aiutano, lo sai, ma più Oscar cresce più mi sembra abbia bisogno di me. So che non è davvero così, che diventa ogni giorno un pochino più indipendente, ma forse è proprio quello. Cresce così in fretta, e non voglio perdermi nulla. Ora lo capisco cosa intendevano le nostre madri quando dicevano 'crescono troppo in fretta!'."

Damon le lanciò un'occhiata di sottecchi, cercando di capire quali sentimenti smuovessero quelle parole.

"E credi sia negativo?"

Lei si fermò a riflettere, lo sguardo puntato sui due bambini che si contendevano lo stesso pezzo. Di riflesso si alzò, frugò nella scatola fino a trovarne uno uguale e lo mise fra le mani del figlio, tornando a sedersi subito dopo.

Con lo sguardo ancora puntato su Oscar gli rispose: "Credo di no. Credo vada bene così."

"Non c'è cosa peggiore che tradire la propria natura per seguire la convinzione di essere destinati a cose che la società considera più degne."

Chiyuki gli sorrise, posandogli la testa sulla spalla.

"Sei troppo giovane per essere così saggio" lo prese in giro affettuosamente, dandogli un pugnetto contro la gamba.

"Davvero, Chiks, non sentirti in colpa per voler crescere tuo figlio. Mia madre ha finito gli studi dopo averci cresciuti e guardala adesso: è uno degli avvocati più richiesti della regione e ha la piena libertà sulla sua vita. Laurearti fra qualche anno non è una colpa."

"Lo so, lo penso anch'io, ma un po' mi sento in colpa lo stesso. Ormai al giorno d'oggi ti mettono tutti così tanta fretta per qualsiasi cosa... La gente si dimentica di vivere fra una tappa e l'altra" considerò pensierosa Chiyuki, disegnando cerchi immaginari con un dito sopra la manica della sua felpa. "Non voglio diventare anch'io così."

"Vivi e basta, Chiks, basterà quello."

Lei gli sorrise, infilando il braccio sotto al suo, stringendolo al petto.

"Non hai idea di quanto ti voglia bene."

"Nemmeno tu."

Rimasero in quella posa a lungo, osservando i bambini ridere e giocare, spensierati e travolgenti come solo i bambini sanno essere. C'era qualcosa nel modo in cui i bambini sono liberi dalle norme sociali che Damon aveva sempre amato, una libertà così rara e preziosa che l'aveva stregato. Non esisteva nulla di più autentico di un bambino che dice qualsiasi cosa gli passi per la testa, privo di qualsiasi filtro e pregiudizio. Erano uno spettacolo per gli occhi e per la mente.

Le sue considerazioni furono interrotte da una notifica. Il suono era quello personalizzato che aveva assegnato a Veronica. Damon sorrise d'istinto, portando la mano alla tasca ed estraendo il telefono. Scorse velocemente con gli occhi le poche parole che illuminavano il suo schermo, sullo sfondo Veronica sorrideva di fronte ad una delle sue tele preferite di Emily, bella di quella semplicità solo sua.

"Puoi tornare a casa? Dobbiamo parlare."

Erano bastate quelle poche parole per segnare un nuovo punto d'arrivo.

La pace era finita.

***

Per un'ora non aveva fatto altro che tormentarsi, attorcigliandosi ad un pensiero dopo l'altro.

Mi sta mollando. L'altro giorno abbiamo parlato, se n'è pentita e ora mi sta mollando. Mi molla perché la amo troppo. Cos'ho che non va? Li amo e loro mi mollano perché non li amo nel modo giusto, evidentemente un modo alla fin fine esiste, perché il mio sicuramente è sbagliato.

Si tormentava, stringendo con ansia il volante, le nocche sbiancate e gli anelli che gli scavavano la carne. Continuava a pensare, flagellandosi un pensiero dopo l'altro, cercando di rimanere con la mente sulla strada. L'aver avuto sua sorella in macchina gli aveva evitato di ammazzarsi nel primo tratto di strada, come fosse sopravvissuto al secondo non lo sapeva nemmeno lui. Non ricordava cosa fosse successo da quando aveva lasciato in fretta e furia sua sorella fra le braccia di sua zia, sapeva solo che in qualche modo era arrivato di fronte alla porta di casa e non si era ammazzato nel tragitto.

Appoggiò la fronte contro il legno freddo, il corpo scosso dai tremiti e dall'asfissiante sensazione dell'esplosione di calore che gli nasceva in petto e gli moriva in mille scintille sulla punta delle dite. Chiuse gli occhi, odiando ogni singolo brivido nervoso che gli scorreva lungo la pelle di porcellana. Da quanto non aveva un attacco di panico? Mesi? Un anno? Erano sempre stati così tremendi e spaventosi? Come aveva fatto a sopravvivere quando erano routine?

Continuava a tormentarsi, cercando di regolare la respirazione e scacciare quei pensieri intrusivi.

Passa. Devo solo smettere di pensarci. Devo smetterla.

A fatica si staccò dalla porta, ispirò ed espirò, lentamente, con cura quasi ossessiva. Si fece forza e con la mano che ancora tremava inserì la chiave nella toppa, continuando a ripetersi che in breve sarebbe stato meglio. Serviva solo calma e pazienza. Calma e pazienza.

Entrò dentro casa e per poco non si scontrò con Veronica. Per un istante il mondo si ridusse a lei che gli stava a pochi centimetro di distanza, poi sprofondò di nuovo nella sua tortura.

"Sei arrivato" lei lo guardò con gli occhi grandi e preoccupati, come se non avesse più alcuna certezza al mondo.

"Cosa dovevi dirmi?" si spinse le parole fuori di bocca, anche se la gola era stretta in un nodo e parlare gli dava la sensazione di soffocare.

Veronica lo osservò meglio e finalmente si rese conto delle sue condizioni.

"Che succede? Stai male?" il panico le salì alla voce e fu come un pugno nello stomaco di Damon. Non l'aveva mai visto in quello stato, non avrebbe mai dovuto vederlo. Sapeva di essere in condizioni pietose, tutto contratto e tremante d'ansia. Sapeva della smorfia che gli saliva in viso ogni volta, le labbra strette allo spasmo, i denti conficcati nel labbro inferiore fino a farlo sanguinare.

Si limitò ad annuire, disperato e rinchiuso nel mutismo in cui quegli attacchi lo facevano sprofondare.

Lei lo prese per le braccia e camminando all'indietro lo condusse fino al divano. Anche le sue mani avevano iniziato a tremare, strette attorno ai suoi avambracci.

Una volta che si fu seduto si prese il viso fra le mani, affondando le dita fra i corti capelli e tirandoli all'indietro. La sentiva accucciata di fronte a lui, sentiva la sua paura, la disperazione montare perché non sapeva cosa farne di lui. Avrebbe voluto spiegarle come aiutarlo, ma era troppo tardi, avrebbe dovuto farlo prima. Non le aveva mai detto nulla perché pensava che quel capitolo della sua vita fosse chiuso, e invece se ne stava tutto accartocciato di fronte alla sua ragazza, tirandosi i capelli per avere qualcosa di concreto a cui appigliarsi.

Veronica si lasciò cadere sulle ginocchia di fronte a lui. Lentamente gli prese le dita fra le sue, accarezzandole in silenzio finché non mollò la presa dai capelli. Lui sollevò lo sguardo nel suo, disperato, senza sapere come comunicarle che ne aveva bisogno, doveva farsi del male per rimanere ancorato alla realtà. Ma nessuna parola gli uscì fuori dalle labbra, solo quel pesante silenzio che sembrava soffocarli.

"Mi dispiace. Non dovevo scriverti quel messaggio in quel modo. È stato quello, vero? Non ci ho pensato, Cristo, sono un'idiota" gli accarezzava le mani nervosa, con lo sguardo alto, cercando di scacciare le lacrime.

"Perdonami, a volte non penso abbastanza. Ero sconvolta e non ci ho pensato. Non volevo farti questo effetto. Scusa" gli occhi le scivolavano nei suoi, lucidi e spalancati, come quelli di un cerbiatto di fronte ai fari di una macchina.

Damon le strinse le mani, un po' come tic nervoso, un po' come rassicurazione per entrambi.

"Non scusarti" le sussurrò e poi strinse gli occhi, ricordandosi di respirare profondamente. Dentro. Fuori.

Con una mano Veronica gli risalì il polso, passando con le dita sotto la manica della felpa. Strinse appena la presa, chiudendo gli occhi e concentrandosi sulle sue pulsazioni. Gli sentiva il cuore battere fuori controllo sotto i polpastrelli. Non ne sapeva abbastanza di attacchi di panico ma due cose le sapeva: doveva controllargli il polso e il respiro, trovare il modo per farlo concentrare e tirarlo fuori dalla sua stessa mente.

Aprì gli occhi e gli scandagliò il volto tirato, i tratti del viso deformati, ancora più affilati. Lasciò andare la presa dal suo polso e con delicatezza si fece spazio dal colletto della felpa, posandogli una mano sul petto, a contatto con la pelle. Sentiva il suo cuore scalpitare, la sua lotta contro i polmoni che non volevano riempirsi d'aria.

"Respira" gli sussurò. "Ti sembra di non riuscirci ma ce la fai, senti" d'istinto ritirò la mano, prese la sua e gliela posò esattamente dove l'aveva avuto lei pochi istanti prima. "Senti" ripetè, con la mano posata sopra la sua.

Damon inspirò, le loro mani si sollevarono posate sopra i suoi polmoni.

"Ecco, sì, così."

Rimasero in quella posa a lungo, fino a quando le gambe di Veronica iniziarono a tremare e il respiro di Damon non si regolarizzò.

Lui si era lentamente lasciato andare contro lo schienale del divano, senza però lasciare la presa sulla mano di Veronica, che per assecondarlo era finita con le ginocchia appoggiate sul cuscino del divano fra le sue gambe divaricate. Le gambe le tremavano, i muscoli tirati allo spasmo, ma non aveva detto nulla, si era limitata a seguirlo centimetro dopo centimetro, finché non l'aveva sentito rilassarsi con la schiena contro il divano. Solo allora lui aveva finalmente riaperto gli occhi, puntandoli nei suoi. Sembrava annientato, più piccolo, più magro e ancora più stanco. La guardava pallido e provato, con tutto quell'amore nello sguardo.

Con la mano libera l'aveva tirata a sé, aiutandola a sedersi sulle sue ginocchia. Poi l'aveva abbracciata, a lungo, in silenzio. Non sapeva più cosa dirle, avevano passato un confine fra un prima ed un dopo che non si aspettava. Si limitò a stringerla, facendola quasi scomparire nella presa delle sue braccia.

"Cosa dovevi dirmi?" le chiese nuovamente a mezzavoce, esausto. Voleva soltanto farsi una doccia e infilarsi a letto, addormentarsi ed eclissarsi da se stesso per qualche ora.

"Non ti piacerà" sospirò lei, tirandosi le dita. Si stava ancora tormentando pensando al disastro che aveva combinato con quel messaggio disattento. Era talmente abituata a Damon che si prendeva cura di lei che si era dimenticata di quanto ne necessitasse a sua volta.

"Lo immaginavo."

Veronica rimase in silenzio per un paio di minuti, le parole bloccate nel petto che non riuscivano ad uscire. Si sentiva così in colpa, triste, sbagliata. Era tutto un disastro.

"Il padre di Levi è morto" riuscì a buttar fuori. Sentì il suo cuore accellerare sotto il suo orecchio, il ghiaccio le risalì lungo le membra mente pensava: non di nuovo, ti prego.

"Merda."

Damon però sembrava tranquillo, più che altro spiazzato da quello che gli aveva detto. Non stava ricominciando a stare male, le bastava quello.

"L'hai per caso sentito...?" le chiese dopo un istante, come se avesse meditato prima di farle quella domanda.

"No, mi ha chiamato sua madre. Vuole sapere se ci saremo al funerale."

Damon chiuse gli occhi, reclinò la testa all'indietro.

"Merda" ripeté in un sospiro frustrato.

"Già."

Rimasero in silenzio, senza muovere un solo muscolo. Il cuore di Damon batteva regolare sotto la guancia di Veronica, facendola gradualmente rilassare contro di lui.

"Pensavo mi volessi mollare" se ne uscì lui dopo un po'. "Pensavo ti fossi pentita di quello che mi hai detto l'altro giorno e che ne so, che ti fossi spaventata o che magari non ti andasse bene il modo in cui ti amo."

"Non me ne sono pentita" gli sussurro lei, stringendogli le mani contro il petto. "Non voglio lasciarti. In questo momento non riesco nemmeno ad immaginarlo."

"Questo mi consola."

"Sei stato male per questo?" gli chiese dopo un istante di silenzio.

Damon strizzò gli occhi con forza. Non voleva davvero risponderle, renderla partecipe di come continuava a funzionare quella sua testa sbagliata. Si era fatto prendere dal panico per nulla, senza nessuna valida ragione, non voleva che lei capisse quanto poco bastasse per annientarlo. Era meglio quando tutto quello non aveva né un nome né un significato, qualcosa di privato che gli altri possono solo limitarsi a temere e provare a contenere. Levi sapeva, a lui aveva raccontato tante di quelle cose, spontaneamente. Non avrebbe voluto, a volte se ne pentiva ancora, ad occhi chiusi, sotto la doccia, quando i pensieri scivolavano veloci come l'acqua e lui riusciva ad intrufolarsi in mezzo. Lo aveva aiutato tanto in quegli anni, ma sapere che lui sapeva lo destabilizzava, lo faceva sentire come se qualcuno avesse appeso le pagine del suo diario segreto in luoghi pubblici.

"Sì, ma non voglio parlarne. È... complicato, tremendamente complicato. Non ha senso, a tratti è solo spaventoso. È una cosa egoista, ma non voglio che tu capisca. Una cosa è quando gli altri ti guardano e hanno paura, un'altra è quando ti guardano e capiscono, ma non possono fare nulla. È ancora peggio, non ha senso ma è come una violenza nella sfera privata. È qualcosa di troppo mio e non voglio che nessun altro capisca, non riesco a sostenerlo."

Lei gli accarezzò le mani pensierosa, stringendo un dito dopo l'altro.

"Va bene" annuì lentamente, strusciando la guancia contro la sua felpa. "Non ti voglio lasciare," aggiunse dopo un istante "non credo che vorrò mai farlo. Non è una promessa o una previsione, non credo in quelle cose, è solo quello che sento. A volte so già di voler lasciare le persone appena mi affeziono, gli voglio bene, sia chiaro, ma so già che un giorno ci diremo addio. Con te non è mai successo, non l'ho mai nemmeno considerato. Ho sentito il bisogno di allontanarmi, ma non di lasciarti. Sono insicura da far schifo ma di questo sono sicura, e lo so perché ho paura mille volte al giorno ma da te voglio sempre tornare."

Lui le risalì con la punta delle dita il polso, il braccio e poi sù, sopra la spalla, fino a sfiorarle il collo. Le appoggiò il mento sopra la testa, gli occhi chiusi mentre assorbiva quelle parole. Avrebbe faticato in una situazione normale, figurarsi nelle sue condizioni. L'amore di Veronica era simile ad un pugno alle spalle del tutto inaspettato, ti lasciava senza fiato a boccheggiare ogni volta. Non faceva male, era come una scarica che non potendosi più trattenere librava nell'aria, centrandoti in pieno. Non era per tutti, ma a lui andava bene, quella scarica lo faceva sentire vivo.

"Dì alla madre di Levi che ci saremo."

Per una volta era lui quello che deviava il discorso, rimasto senza parole. Avrebbe avuto bisogno di tutte le lingue del mondo per riuscire ad esprimersi nel modo giusto, per farle intendere alla perfezione quanto quello che lei gli aveva detto significasse, non voleva che un sentimento tanto grande scadesse nella banalità. Era tutto tranne che semplice e banale, era immenso, troppo grande perfino per le parole.

Veronica annuì.

Quando le parole non bastavano più a loro non serviva altro che il silenzio: era lì che riuscivano a capirsi e ritrovarsi ogni volta.

Spazio autrice
Volevo pubblicare prima ma sono uscita da una settimana tragicamente assurda, quindi vedrò di recuperare questo weekend.
La storia si è finalmente messa in azione, preparatevi.

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