29. Rimanere
Levi era disteso sul divano di Marco -lo pensava ancora in quei termini perché, anche se tecnicamente viveva in quella casa, sua non lo era di sicuro- con lo sguardo fisso al soffitto, le braccia incrociate al petto e le sopracciglia aggrottate a regola d'arte. Stava vivendo uno dei momenti migliori della sua vita, la grande rinascita dopo il periodo buio, eppure non la stava vivendo bene come avrebbe voluto. Era felice, sul serio, adorava Marco con tutte le sue piccole fissazioni, le sue barriere emotive e gli occhi come grandi libri aperti, ma a parte lui il resto era rimasto il solito disastro. Riusciva ad ignorare la cosa, per la maggior parte del tempo. Finché aveva qualcuno attorno andava tutto bene, riusciva a concentrare la sua mente sul qui ed ora e stava bene, senza un pensiero al mondo. Poi si era trasferito e aveva iniziato a sperimentare le ore da solo. Non aveva un lavoro, sua madre gli rivolgeva a stento la parola (doveva aspettarsi che non l'avrebbe presa bene, non era affatto quella la sua idea di una vita felice per lui) e i suoi amici era adulti, completamente presi dalle loro vite. O presi dal viverle senza di lui, cosa che a quanto pare aveva reso necessaria a due delle sue persone preferite. Era un fiasco totale, e aveva scoperto di non saper stare da solo, cosa che prima non aveva mai davvero sperimentato. Emily gli era sempre gironzolata attorno, ma adesso sembrava aver preso sul serio l'idea di dargli spazio, o quanto meno il nuovo impegno al centro la assorbiva troppo. Levi ci aveva provato ad aiutarla, ma alla fine lei lo aveva scacciato spazientita perché le aveva incasinato un barattolo di vernice con il diluente sbagliato. Da quella volta si era arreso, lui e la vernice era meglio se rimanevano ben distanti. Forse le persone non erano molto diverse: ci versavi le emozioni sbagliate e le rovinavi per sempre.
Arricciò il naso con stizza, cercando di scacciare quei pensieri aggrovigliati e dolorosi come un cespuglio di rovi che gli cresceva a dismisura dietro le palpebre. Era un disastro, ok, nulla di nuovo su quel fronte, ma poteva rimediare, giusto? La psicologa gli aveva detto di cercare un lavoro e lui si era intestardito evitando la questione, irremovibile nella sua idea di voler passare più tempo possibile con Marco. Ci aveva messo un po' a rendersi conto di quanto pesassero quelle ore in solitaria. E quanto fosse difficile convivere con un gatto che ti odia con la stessa folle passione con cui ripudia qualsiasi forma d'acqua al di fuori della sua ciotola.
Aprì gli occhi per lanciare un'occhiata al gatto, che lo fissava accucciato accanto allo stipite della porta, la coda che si muoveva lenta e ipnotizzante vicino alle zampe anteriori. Aveva gli occhi brillanti, come se qualcuno avesse esagerato con la saturazione e si fosse detto "ma sì, guarda che figata" e c'era qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui le pupille fossero fisse all'altezza del suo petto, come se si sincerasse che il maledetto bastardo che gli aveva fregato il posto sul divano e nel letto respirasse ancora. E magari meditava anche sul come risolvere il problema.
"Sciò, gattaccio" gli soffiò in un sussurro, cercando più di esorcizzare quella sua irrazionale paura che di scacciare la bestiola.
Cesare spostò lentamente lo sguardo nel suo, aumentando leggermente il ritmo a cui muoveva la coda. Levi non lo avrebbe mai ammesso a Marco, ma quello sguardo gli mise i brividi.
Si alzò a sedere di scatto, frugandosi nelle tasche dei pantaloncini alla ricerca del telefono. Basta, gli serviva un lavoro. A ventisei anni non poteva più farsi spaventare da un gatto. O fare il mantenuto. E poi gli avrebbe fatto bene, a prescindere dal passare meno tempo con quel gatto guardone.
"Fottiti, Joe Goldber" gli sibilò, scivolando in piedi e nascondendosi nella camera da letto con il telefono stretto in una mano.
Si chiuse la porta alle spalle e ci si appoggiò contro, sospirando fuori un po' di frustrazione repressa. Fece una veloce ricerca nella rubrica e fece partire la chiamata, avvicinando il telefono al viso e pregando qualsiasi entità governasse l'universo che almeno quella gli andasse bene. Non gli piaceva l'idea di puntare tutto sul nepotismo, ma era abbastanza disperato da mettere nuovamente da parte la sua dignità con l'idea di ricostruirsene una in seguito, più solida e stabile. Levi amava giustificarsi e sperare in un futuro migliore.
"Ciao zia, non è che ti serve una mano?"
***
Il campanello tintinnò in cima alla porta, facendogli correre una scarica di adrenalina lungo la schiena. Lavorava nel negozio di fiori di sua zia da qualche giorno e i clienti per lui erano ancora nemici ostili che non sapeva come accontentare. Era stata un'idea stupida chiedere a sua zia di fare del nepotismo e dargli un lavoro? Decisamente, ma lei era stata contenta di potersi prendere una pausa e a lui serviva qualcosa da fare all'infuori dello stare solo con i suoi pensieri. Aveva bisogno di inserirsi nuovamente nel corso della vita e per farlo aveva deciso di calarsi nel fiume tenendosi ben stretto a quel ramo proteso che era quel lavoro. Da qualche parte doveva ricominciare, e aveva avuto la fortuna di poterlo fare in mezzo ai fiori. E ci stava letteralmente in mezzo, con fiori che ricoprivano gli scaffali, i secchi pieni d'acqua che correvano lungo tutto un lato del negozio e piante che pendevano dagli angoli più disparati del soffitto. Profumavano in modo delicato l'ambiente -Levi benedisse l'ottimo impianto di areazione per cui sua zia aveva sborsato un patrimonio- e lo coloravano con un'intensità che faceva quasi male agli occhi per quanto era bella.
Si era ritrovato circondato dalla vita e già in pochi giorni si era reso conto degli effetti benefici. Era più allegro, leggero, chiacchierava con un inaspettato piacere con chiunque ne avesse voglia e aveva scoperto di non saper resistere alla delicatezza dei petali contro i polpastrelli. Gli piaceva così tanto che a volte desiderava portarsi un mazzo di fiori a casa di Marco per poter condividere il suo entusiasmo con lui. Ma non lo faceva, perché temeva potesse risultare strano e, se si era arreso a poter essere patetico con lui, aveva deciso di tenere qualche sua stranezza ancora per sé. Era a suo agio con Marco, ma gli serviva ancora tempo per esserlo completamente, al punto da fare le cose e poi, magari, rendersi conto che una qualsiasi altra persona le avrebbe trovate quanto meno inusuali.
Levi d'istinto lanciò un'occhiata sul retro, dove la figlia di sua cugina -la sua procugina, ad essere esatti- si stava occupando delle ultime piante arrivate quella mattina. Ancora gli sembrava incredibile che quella ragazza avesse appena qualche anno in meno di lui. Preferiva dimenticare che i suoi, di nipoti, non fossero tanto più piccoli di quella ragazzina e che fosse lui ad essere tragicamente giovane in confronto al resto della famiglia. Forse era anche un po' per quello che tutti continuavano a trattarlo quasi come fosse ancora un bambino, alleggerendogli le responsabilità e incollandogli alle calcagna un'ex adolescente che ancora scoppiava le bolle di chewin gum per controllare che non facesse un casino. Ci era così abituato che ci aveva messo un po' per sentire il fiore del suo orgoglio avizzire e implorare pietà. Brutta metafora da parte di un neo fioraio? Non gli importava.
Quando spostò lo sguardo verso la porta, però, si ritrovò il corpo invaso da una scarica di calore che gli distese i muscoli in un istante, facendogli completamente dimenticare della sua procugina, del suo orgoglio e delle sue pessime metafore.
Marco gli regalò un sorrisetto mentre si avvicinava, cindolando le braccia dietro alla schiena con fare innocente. Si era messo una camicia a maniche corte chiara- l'unica presente nel suo armadio- e un paio di jeans stretti al punto giusto, che fecero attendere con ansia a Levi il momento in cui si sarebbe girato. Sapeva essere bello in modo semplice e disarmante, diretto come tutto il resto in lui, ed era pienamente consapevole della cosa nel miglior modo possibile. Poteva essere un calcolatore recidivo, ma sapeva sempre come ammaliare le persone anche senza manipolarle. Gli riusciva semplice e basta, con il tono giusto accompagnato dal sorrisetto giusto, senza per forza voler qualcosa in cambio da loro. Un ragazzo difficile da gestire, lo sapeva, ma a quanto pare gli piacevano così. Complicati, assolutamente fuori dalla sua portata di gestione. Però non se la cavava male, anche se a volte si guardava ancora allo specchio chiedendosi perché non fosse in grado di apprezzare la semplicità anche nelle persone.
"Ciao."
"Ciao."
Il cuore gli spinse contro lo sterno con forza quando vide il suo sorrisetto addolcirsi in un istante, in modo quasi impercettibile ma reale, in quel sorriso un po' sghembo con cui lo guardava quando aveva un complimento sulla punta delle labbra. Non che glieli facesse spesso, ma non nascondeva nemmeno l'intenzione. Era così, con i suoi limiti emotivi e lo sguardo che invece dava ragione al cuore.
"Se sei venuto qui per sfottermi, giuro che ti faccio dormire con il gatto."
Gli occhi di Marco si accesero di divertimento mentre si sporgeva appena verso di lui, con la battuta che gli nasceva nello sguardo ancora prima di sfiorargli le labbra. Chissà come faceva la gente a non capirlo, con tutte le sue intenzioni in bella mostra come in una bancarella in quegli occhi scuri e scattanti.
"Se togli una esse ci siamo" gli sorrise quasi, con le sopracciglia aggrottate verso l'alto in una mezza smorfia divertita. Stava aspettando arrossisse, e Levi non lo deluse, arrossendo quasi come se ne andasse della sua vita.
Marco sorrise soddisfatto, appoggiandosi con i gomiti al bancone di legno ingombro di foglie, nastri e steli cadavere. Si allungò verso di lui, quasi provocandolo a baciarlo. Fra le sue arti c'era quella del farsi desiderare, ed era schifosamente bravo, al punto che Levi a volte non sapeva fare altro che desiderare di infilargli le dita dietro al collo, insinuarle fra i suoi capelli, e avvicinarselo con uno strattone deciso. Era una di quelle cose di cui non puoi più fare a meno, dopo aver visto il fuoco che gli facevano divampare nello sguardo. Ti faceva desiderare di starci, in mezzo a quel fuoco, come un piromane che ammira la sua opera dal punto migliore. Scottarsi era il minimo, ma anche eccitante, e in quel momento Levi aveva resettato qualsiasi altra priorità all'infuori di quella scintilla che aveva scorto nello sguardo di Marco.
"Sei il peggior nemico del mio contegno" gli sussurrò contro il viso, piegando la schiena nella sua direzione. Sentì un brivido correrci sopra quando vide le prime fiamme del fuoco che stava cercando. Marco era bravo a provocare, Levi era diventato bravo a rispondergli.
"E anche della tua produttività, a quanto pare" la voce di sua cugina lo raggiunse alle spalle e poi lo superò, mentre reggeva in equilibrio contro un fianco un contenitore di plastica con dentro le nuove piante da esporre. Stava masticando la sua solita gomma, punzecchiandolo con il suo tono da adolescente annoiata dalla giornata passata in mezzo alla terra e alle foglie marce da togliere.
Levi non sussultò, alleviando appena la ferita inflitta al suo contegno, ma chiuse gli occhi, maledicendo qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Era così da lui dimenticarsi della cugina -figlia di sua cugina, in realtà, ma solo un idiota l'avrebbe definita per davvero procugina- che quasi lo lasciò interdetto il fatto che Marco non se lo fosse aspettato. Lo conosceva abbastanza da saperlo: Levi era pessimo a considerare il quadro d'insieme, soprattutto quando la sua attenzione cadeva vittima del semplice fascino di una camicia e di un paio di jeans stretti al punto giusto.
Riaprì gli occhi quasi con timore, pronto allo sguardo gelido che si sarebbe trovato di fronte. Invece, con sua somma sorpresa, Marco era rimasto esattamente dov'era, con uno sguardo un po' febbrile ma risoluto. Levi si aspettava che avesse preso le distanze con una delle sue tipiche mosse disinvolte, una di quelle che spostava l'attenzione generale nel modo giusto. In fondo aveva passato anni circondato da ragazzi la cui massima espressione di umorismo gravitava attorno al dare della checca o della femminuccia agli altri giocatori senza mai attirare i loro sospetti, schivandoli con la grazia di una ginnasta. E invece era ancora lì, di fronte a lui, con i gomiti appoggiati sul bancone e le ciglia che sfarfallavano mentre lo osservava dal basso. Con lo sguardo di uno che ha appena inghiottito una rana e sta cercando di far finta di niente, ma era ancora lì.
Levi temeva che nel breve futuro, conoscendo la cugina, fosse in arrivo una rana ben più grande da mandare giù per lui.
Con delicatezza si scostò dal bancone, rimettendosi dritto e lanciando un'occhiata a sua cugina che, totalmente ignara, stava sistemando con garbo le nuove pianticelle. Le osservava con occhio critico, rigirando i vasi finché non trovava il lato migliore da esporre, ignorando totalmente il piccolo terremoto che aveva causato con la sua presenza e le relative conseguenze.
"Ti serve una mano?" le chiese, maledicendo il suo viso per averlo tradito in quell'istante di gelo e imbarazzo con il solito rossore esagerato.
Sua cugina si girò verso di lui, ruotando di trecentosesanta gradi sui talloni.
"Figurati, ormai qua è fatta, goditi pure il tuo ragazzo, tanto fra un po' chiudo e faccio sapere alla nonna che anche oggi non hai dato fuoco al negozio" non lo disse con cattiveria o provocazione, come probabilmente avrebbe fatto sua madre -quella che effettivamente era sua cugina- per farlo sentire piccolo e sbagliato, ma il risultato fu lo stesso, anche se si sentì un po' assurdo a mortificarsi per quelle tre semplici parole accompagnate dallo scoppio di una bolla. Non era una cosa brutta, ma in bocca alla sua famiglia mantenevano il fantasma di conversazioni cariche di ignoranza e bigottismo delle cene e delle riunioni annoiate. Avevano smesso di parlarne, in sua presenza, ma nessuno si era dimenticato delle proprie uscite infelici e in realtà non se ne vergognavano nemmeno, con la convinzione che, se proprio qualcuno doveva, a vergognarsi doveva essere lui. Levi aveva smesso di lottarci, ma avere Marco al suo fianco gli ricordava quanto era dura e gli insegnava che, se una volta aveva avuto paura e si era limitato a soffrirne in silenzio, adesso aveva una bestia che gli si agitava in fondo allo stomaco per il terrore che quelle cose infierissero su di lui. Con Damon non aveva mai avuto timori, era bravo a rispondere colpo su colpo, senza lasciarsi scalfire, ma Marco... Lui, con le sue barriere emotive, finiva solo per assorbire in silenzio quei commenti, lasciandoli a rimbalzare dentro di sé come la pallina impazzita in un flipper.
"È sempre un grande giorno, quando Levi non brucia qualcosa."
Con sua somma sorpresa Marco aveva risposto a sua cugina, con un velo d'ironia scelto ad arte e il miglior sorriso divertito del suo repertorio. Un po' rigido, ma era pur sempre un attore migliore di tanti altri e le persone non tendono a far caso ai dettagli più piccoli.
Sua cugina gli restituì un sorriso divertito, ridacchiando appena mentre si sistemava il contenitore per le piante sotto al braccio.
"Allora non è un disastro solo per mettermi alla prova."
"Oh, magari. È proprio così. È la mia personale tragedia adorarlo" il suo tono e il suo sorriso si ammorbidirono appena, seguendo la postura che cercava la via per abbandonare la rigidità. Sembrava quasi si stesse rilassando in quella situazione, come se, in fondo, non fosse così male come se l'era sempre immaginata.
Levi rimase ad osservarli chiacchierare con le labbra che quasi gli si schiudevano per la sorpresa. Se quella fosse stata la scena di una serie tv avrebbe urlato un "NOOO, NON CI CREDO!" contro lo schermo, accusando gli sceneggiatori di essere dei sognatori folli. E che folli! Lui non aveva nemmeno mai osato sfiorare il pensiero che una cosa simile potesse accadere con tanta semplicità.
"In fondo un po' di gusto ce l'hai, iniziavo a dubitarne dopo la composizione che hai fatto l'altro giorno" sua cugina gli passò accanto dandogli una spintarella con il fianco, condividendo il primo sguardo complice da quando si conoscevano. Levi ricambiò il sorriso, follemente raggiante, così spaesato e felice che non seppe nemmeno cosa risponderle prima che sparisse nuovamente nel retro, dopo che aveva accennato un saluto a Marco.
"Stai per implodere? Quella faccia è preoccupante" lo prese in giro Marco, facendolo girare nella sua direzione, con il sorriso ancora più ampio. Aveva quasi l'impulso di arrampicarsi oltre il bancone e abbracciarlo stretto fino alla fine dei tempi. Perché semplicemente lo adorava, davvero, come mai nessuno prima. Si trattenne solo per quella piccola scintilla di dignità che lo teneva con i piedi ancorati a terra.
"Sono solo felice" si giustificò Levi, stringendosi nelle spalle con il sorriso che non si azzardava a diminuire.
"Ti basta poco."
Mi basti tu, avrebbe voluto rispondergli, ma si trattenne perché era una cosa troppo stupida e dolce da dire, una di quelle da diarietto adolescenziale e primo amore e a Levi piaceva illudersi di essere cresciuto, di aver superato quella fase della sua vita.
"Non è poco" gli rispose invece, riconquistando la serietà nel sorriso e addolcendo il tono.
Non era poco, neanche per sbaglio. Era una di quelle cose semplici per gli altri, forse, ma non per lui. Che poi, rimanere tanto semplice non lo era neanche per gli altri.
"Grazie" aggiunse dopo un istante, sentendosi un po' stupido ma sincero.
Marco gli sorrise, semplicemente, senza aggiungere altro. Non era necessario. A Levi bastava quello: il suo ragazzo di sguardo intensi, parole non dette e fatti che facevano capire tutto in silenzio.
Spazio autrice
Manca solo un altro capitolo più l'epilogo! Poi dovrò trovare altro di cui dimenticarmi oltre agli aggiornamenti settimanali :')
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