16. Spaccarsi la testa

Levi aprì gli occhi lentamente, sfarfallando le palpebre confusamente, con Morfeo che ancora gli sussurrava dolci parole all'orecchio.

A fatica si mise a sedere, con una gamba fuori e una ancora sotto alle coperte, raggruppate disordinatamente attorno a sé. Non era certo di volersi alzare, ma al tempo stesso sapeva di voler fare qualcosa, mettersi in attività per stare meglio. Era sveglio appena da pochi minuti e già sentiva quella smania sotteranea che risveglia i comportamenti ossessivi.

Stava vivendo una ricaduta, lo sapeva, poteva succedere, e cercava di accettare la cosa. L'aveva visto succedere spesso ai suoi amici, sapeva che ci si riprendeva, serviva solo una buona dose di pazienza e forza di volontà. E lui le aveva, da qualche parte.

La serata con Emily l'aveva aiutato a lasciare andare un po' di peso, ad ammettere con se stesso quello che rifiutava di accettare: aveva perso il cuore e ci mancava poco che ci perdesse anche la testa. Ma seriamente, nel modo più completo e totale, senza quasi rendersene conto. Non aveva idea di come risolvere la situazione, ma sapeva bene come instillarsi un po' di calma placeba nelle vene, così scostò le coperte e si lasciò divorare dal gelo mentre si alzava e si infilava una felpa, rimanendo impigliato in una manica.

In qualche modo avrebbe fatto chiarezza in testa, si promise ritrovando il buco per la testa, e nel frattempo avrebbe dato una pulita e magari si sarebbe concesso una corsa prima di uscire con i suoi amici. Emily doveva esserseli lavorati per bene per essere riuscita a convincere tutti in così breve tempo, ma per una volta Levi non si sentì in colpa ad aver bisogno di loro. Che Emily usasse la sua storia come leva, non gli importava più, gli bastava trovare un po' di pace in quel mondo caotico di sali e scendi emotivi. Era egoismo positivo il suo? Sperò di sì, voleva davvero migliorare, anche se non aveva la minima idea di come fare.

Incrociò sua madre in corridoio, che lo squadrò a lungo prima di dirgli: "Hai dormito fino a tardi, oggi" con il suo solito tono monocorde e sparire nella stanza accanto. Evidentemente c'erano delle finestre temporali in cui aspettarsi da lei un comportamento comprensivo e materno, e in quel momento non erano in una di quelle.

Si passò una mano fra i capelli annodati, rimanendo con le dita impigliate mentre sospirava un misto di stanchezza e frustrazione, che si alzavano e calavano dentro di lui come la marea. Non vedeva l'ora di stare in mezzo alle sue persone, trovare un po' di pace nella famiglia sgangherata che era riuscito a costruirsi.

Si fermò in cucina, dove si preparò una tazza di caffè e poi si affacciò sul salotto, osservando con disappunto l'ordine che vi regnava. Forse aveva leggermente perso il controllo anche su quello. Decise che pulire ossessivamente una casa già in ordine non avrebbe fatto bene al suo equilibrio mentale, quindi tornò in cucina dove abbandonò la tazza. Aveva intenzione di correre fino a che non si fosse sfogato, e considerando gli ultimi eventi preventivò che evitare di mettere qualcosa nello stomaco fosse più che saggio. Si sarebbe massacrato, ma almeno non avrebbe vomitato l'anima, anche se in quel momento non ci andava particolarmente d'accordo.

Si cambiò in fretta e, dopo aver ricevuto uno sguardo critico da sua madre (in pieno stile "perché sprechi la tua vita così? Potresti fare di meglio"), uscì trotterellando nelle solite vecchie scarpe da corsa. Il laccio malandato sembrò ritornargli un'occhiata, sfidandolo a mettersi contro il destino.

Levi aveva sempre adorato passeggiare sul bordo dei rimpianti, suo malgrado ci era caduto dentro più volte di quanto fosse lecito. Forse, in fin dei conti, non era mai stato tanto apposto con la testa come la gente credeva. Le persone normali non inseguono le cause perse, non sfidano la sorte procacciandosi l'ennesima situazione posata precariamente su un dirupo, ma lui sì, lo faceva da quando aveva memoria. Aveva sempre abbandonato le situazioni semplici e rassicuranti per buttarsi anima e cuore nell'ennesimo disastro. Mancanza di dopamina? Forse. Sarebbe stato bello dare la colpa di tutte le sue pessime scelte ad uno squilibrio chimico, Levi però sospettava che lo squilibrio fosse solo emotivo -sempre che esistesse, non faceva difficoltà a credere che semplicemente fosse fatto in quel modo, costruito e plasmato con un errore di calcolo fondamentale- e che fosse iniziato prima ancora di prendere la prima decisione della sua vita. Dare la colpa delle sue azioni ai traumi infantili non risolveva nulla, ma lo faceva sentire meglio, al punto di rallentare la corsa e passare dall'agonismo alla resistenza.

Riuscì ad estranearsi dai suoi pensieri per un po', concentrandosi sull'andatura e il respiro. Gli piaceva quella semplice regolarità. Sapeva di vita, semplice. Vai avanti e respira. Il riassunto di tutto. Sarebbe stato bello se la vita fosse stata così semplice, ma per sua sfortuna un ominide, millenni di anni prima, aveva deciso fosse straordinario scorpire il fuoco o una qualsiasi di quelle cazzate che lentamente aveva dato vita alla società. Non ne sapeva molto, sapeva solo che adesso le persone vivevano oltre gli ottant'anni ma erano esaurite già a venti. Ci avevano davvero guadagnato?

Inciampò nei suoi stessi piedi quando il laccio cedette con uno schiocco, finendo con la pelle graffiata dal ruvido cemento e le tempie che rimbombavano per l'impatto. Rimase immobile ad assorbire il dolore della botta, il viso in fiamme e le giunture entrate in contatto con il terreno che urlavano tutta la loro frustrazione per le sue scelte di merda. Avrebbe voluto urlare anche lui, ma si trattenne. Ci sono quartieri in cui è meglio non farsi notare, e si trovava in uno di quelli.

Lentamente strisciò fino all'erba malconcia a bordo strada, desiderando rimanere a terra a soffrire il colpo e al tempo stesso non morire a causa di un guidatore disattento. Non aveva fatto tutta quella fatica per ricercare il suo equilibrio interiore per poi morire così, perché non si era degnato di cambiare uno stupido laccio.

Si lasciò cadere con la schiena contro il muretto di cemento di un'abitazione, accusando il colpo che gli si era infilato fra le costole. Trattenne il respiro e poi espirò, consapevole di aver fatto una grande e bella cazzata delle sue. Già si immaginava Emily affibiargli insulti in francese mentre lo sgridava, premendogli con più forza del necessario il cotone imbevuto di disinfettante sulle guance scorticate. Al solo pensiero sentì i graffi pulsare con forza e dissenso, facendogli rivalutare velocemente l'idea di chiamare Emily per farsi aiutare. Era decisamente fuori discussione. Veronica aveva da poco iniziato a lavorare e, a che ne sapeva, aveva i turni pomeridiani, quindi non poteva chiedere aiuto nemmeno a lei. Non la vedeva da un po' e gli mancava, ma la capiva, nemmeno lui sapeva come riprendere il loro rapporto. Non che comunque fosse una scelta saggia, considerando che sarebbe soltanto riuscito a terrorizzarla e a guadagnarsi una trafila di insulti per mascherare il panico, ma gli sarebbe piaciuto avere una scelta. Damon non lo vedeva dalla serata del compleanno di Emily, e forse era meglio così, non aveva ancora idea di come affrontarlo e voleva evitare l'ennesimo fallimento. Chiyuki aveva una sua vita, e lui non ne faceva decisamente parte. Elisa. Elisa era la sua ultima spiaggia, il suo splendido sole condensato con maestria nella persona più dolce e speranzosa del mondo.

Fece partire la chiamata, ricordandosi di posare lentamente la testa dietro di sé, risparmiandosi l'ennesima botta di cui non necessitava. Lanciò un'occhiata di traverso alla scarpa rimasta a bordo strada, il laccio maledetto che pendeva in parte di lato. Non avrebbe più sfidato il destino, decise in quei secondi di snervante attesa, avrebbe addirittura portato l'ombrello quando prevedevano soltanto nuvoloso. Non era nel suo stile rinunciare alle decisioni di merda, rimaneva pur sempre un idiota che non si accontentava di fare le cose come andavano fatte, ma almeno si sarebbe risparmiato di finire nuovamente a baciare l'asfalto. Non lo disse a se stesso, ma sapeva che quella promessa interiore aveva la stessa valenza di quella di non toccare più alcol quando sei accasciato su un cesso a vomitare l'anima.

La chiamata terminò nel nulla, lasciandolo a boccheggiare per il dolore quando allontanò il telefono dall'orecchio e si sfiorò inavvertitamente la guancia.

Maledetto, maledettissimo stupido che deve sempre sfidare la sorte.

Si maledì in silenzio scorrendo lentamente la lista dei contatti in rubrica. I numeri non mancavano, la confidenza per chiedere aiuto in quella situazione sì. Sapeva che era una cosa stupida, ma non aveva voglia di essere giudicato o trattato con la pena dovuta all'idiota che si era dimostrato. Gli piaceva che la gente lo vedesse al suo meglio, raggiante e in forma, non frustrato e con il viso graffiato e ferito. Per quello c'erano le sue persone, solo loro avevano la prerogativa di vederlo andare a pezzi, perché sapevano come consolarlo e non avrebbero cambiato idea su di lui soltanto perché risultava un po' appannato e ammaccato. Ma in quel momento non c'erano. Erano occupati con le loro vite, oppure gli avevano lanciato un'occhiata di fuoco in cui gli rinfacciavano tutto il dolore che gli aveva causato. A parte Emily, lei probabilmente era libera, ma il fuoco glielo avrebbe stampato con un pugno contro la spalla per rimproverarlo delle sue pessime scelte. Non che avesse torto, ma un ammacco in più non era quello che gli serviva in quel momento, neanche se poi lei fosse riuscita a trascinarlo a casa con in sottofondo una sfilza di insulti. La adorava, ma in quel momento era la sua ultima scelta. E poi, si giustificò, non poteva sempre prendersi cura di lui. Da quando aveva lasciato Damon lei si era assunta spontaneamente quel compito, ma non era giusto, gli amici non sono fatti soltanto per salvarti e a Levi sembrava che Emily non facesse altro da qualche mese a quella parte, arrivando perfino ad ignorare Essa. La ragazza a cui voleva chiedere di sposarla. Non era giusto e basta.

Raggiunse uno degli ultimi contatti, osservandolo meditabondo mentre lottava con il bisogno di passarsi i denti sul labbro inferiore. Non si era preoccupato di accertarsene, ma era abbastanza sicuro di esserselo spaccato nella caduta. Mise da parte l'ennesimo insulto che stava per rivolgersi per chiudere gli occhi e sospirare.

Ma sì, si disse, ormai in quella situazione di merda peggio non poteva andare. Almeno sapeva che dall'altro lato di quella chiamata nessuno lo avrebbe giudicato, al massimo lo avrebbe preso un po' per il culo e poi lo avrebbe aiutato, ed era proprio quello di cui Levi aveva bisogno. La condiscendenza sembrava non funzionare su di lui.

Fece partire la chiamata, ignorando il fatto che anche quella poteva sembrare un'idea di merda delle sue.

Fanculo il ragazzo normale e solare, era sempre stato un disastro e lo sarebbe sempre stato. Era il momento che le persone lo accettassero, lui per primo.

***

Un quarto d'ora dopo una macchina si fermò di fronte a lui e, razionalmente lo sapeva che non era possibile, ma il modo in cui si era fermata adagio, con la portiera del passeggero proprio di fronte a lui, gli sembrò assurdamente una presa in giro. Come se la macchina avesse vita propria e lo ritenesse a sua volta un idiota da aiutare senza risparmiarsi una risata.

Forse aveva sbattuto la testa più forte di quanto non si fosse reso conto.

Le scarpe consumate e un po' logore di Marco si fermarono di fronte a lui, chiedendogli di alzare lo sguardo e incrociare quello del loro proprietario. Levi era consapevole che gli oggetti non avessero idee e non esprimessero suggerimenti, ma gli sembrò comunque un consiglio piuttosto azzeccato. Non gli sembrava improbabile che le scarpe avessero più giudizio di lui.

"Credo che una visitina al pronto soccorso non mi farebbe male," esordì incrociando lo sguardo corrucciato di Marco "ho appena pensato che la tua macchina mi ritenesse un idiota e che le tue scarpe mi stessero dando un consiglio. Non credevo di aver sbattuto così forte ma forse sì."

"La mia macchina non avrebbe torto e sicuramente le mie scarpe hanno più senno di te" si piegò sulle ginocchia di fronte a lui, esaminandolo più da vicino. "Cazzo, ti sei proprio messo d'impegno per rovinarti la faccia. Non sopportavi più di guardare la tua bellezza convenzionale allo specchio? Volevi qualche cicatrice per fare colpo?"

"Hai appena detto che sono bello in modo convenzionale?" gli chiese, cercando di sopprimere una risatina assolutamente fuoriluogo. Sperò che le guance escoriate potessero nascondere al meglio il rossore che puntualmente gli risaliva il collo fino al viso.

"Mi sa che sei solo stupido, in modo convenzionale" Marco si aprì in un sorrisetto dei suoi, scuotendo appena la testa. "Perché hai chiamato me?"

"Perché Emily mi avrebbe tirato un pugno, Damon mi odia, Elisa non risponde e Veronica ha un nuovo lavoro che adora così tanto da non farsi quasi più vedere. E Chiyuki, beh, ha la sua vita e un figlio, non le romperei le scatole neanche se fossi il suo preferito. E poi gli altri giudicano, cambiano idea su di me, provano compassione. Tu lo sai già che sono un disastro e sorridi sempre allo stesso modo quindi sì, mi sembrava una scelta sensata ma l'hai detto: probabilmente al momento le tue scarpe hanno più senno di me."

"Al momento? Non ci vuole poi molto neanche in circostanze normali."

Levi provò a rispondergli con una smorfia, accartocciandosi su se stesso quando la scarica di dolore gli attraversò il viso.

"Inizio a pensare che forse hai ragione" si arrese, cercando di stiracchiare un sorriso di gratitudine. In fondo era andato subito da lui quando l'aveva chiamato, anche se non gli doveva nulla e non sapeva neanche se poteva ritenerlo suo amico.

"Finalmente inizi a ragionare, forse quella botta in testa non ti ha fatto solo male" Marco aprì ancora di più il sorrisetto prima di concentrarsi e studiarlo più a fondo. "Riesci ad alzarti?"

"Non ne sono certo. Diciamo che sono strisciato fino a qui."

Marco fece una smorfia, alzandosi e dandogli le spalle senza dire nulla mentre raggiungeva la macchina e apriva la portiera del passeggero.

"Troveremo il modo" gli rispose infine, tornando da lui, passandosi le mani fra i ricci per tirarli indietro.

"Va bene," attaccò dopo un po', facendo sussultare Levi che si era distratto ad osservargli il velo di barba. Gli piaceva proprio, l'aver sbattuto la testa non cambiava la sua opinione in merito. Peccato.

"Va bene," ripetè, piazzandosi con le gambe ai suoi fianchi, abbastanza vicino da far sembrare la situazione equivoca. "Ora ti aiuto ad alzarti e zitto," gli intimò quando lo vide ammiccare con lo sguardo alle loro posizioni "oppure ti lascio qui e chiamo io stesso Emily. Ho sempre voluto vedere una ragazza che picchia un ragazzo e gli fa il culo e lei sembra proprio il tipo."

"Oh sì, se la frequentassi lo vedresti così spesso da trovarlo quasi noioso" gli confermò, allungando le braccia verso l'alto, assecondando il suo movimento.

"Non ne dubito, e ha ragione. I maschi sono dei gran coglioni. Esserne attratti è una maledizione. Guarda che mi succede con te."

Levi cercò di trattenere la smorfia di dolore quando Marco strinse la presa attorno al suo petto. Gli lanciò un'occhiata come a chiedergli se stesse bene e lui si limitò ad annuire, sperando che quella sensazione passasse in fretta.

Marco lo rimise in piedi, grugnendo appena per lo sforzo. Lo fermò con i fianchi contro il muretto alle sue spalle, aspettando di vedere se riusciva a ritrovare un minimo di equilibrio.

"Ci sei?"

"Non lo so, ma so che non correrò mai più così veloce. Mi sembra di essere stato investito."

"E invece sei solo caduto come il peggiore dei coglioni."

"Tu sì che sai sempre come consolare le persone."

"L'onestà è importante, magari ti dai una svegliata."

"Magari."

Levi piegò appena il mento verso il basso per osservarlo meglio, rapito dalla sua vicinanza. Forse stava esagerando un pochino solo per tenerselo più vicino: le sue gambe erano doloranti ma stabili, avrebbe potuto alzarsi da solo ma quella situazione gli piaceva decisamente di più.

"Allora," Marco si allontanò gradualmente, accertandosi che riuscisse a mantenersi in piedi. Sembrò soddisfatto, perché fece un passo indietro, senza però lasciare la presa sui suoi fianchi. "La sua carrozza l'aspetta" allontanò una mano per allungare il braccio in direzione della macchina, facendo ulteriormente un passo indietro e sposandosi di lato.

"Il sogno della mia vita" borbottò Levi, facendo qualche passo malfermo. Per qualche grazia universale le gambe e le caviglie erano intere. Per un orribile secondo aveva temuto di essersi rotto la caviglia ma evidentemente gli era stata concessa una seconda opportunità per redimersi e aggiustare il tiro delle sue decisioni.

Marco si assicurò che si fosse sistemato sul sedile, poi si piegò verso di lui e con l'accenno di un sorriso gli disse: "Adesso andiamo a vedere se questa botta ti ha reso intelligente."

***

"Allora, dove ti devo portare?"

Erano usciti dall'ospedale dopo diverse ore passate a fissare la parete opposta. A quanto pare la lista di cadute rovinose della giornata era piuttosto lunga. Marco aveva riso di gusto quando aveva visto i compagni di sventura di Levi: un adorabile gruppetto di anziani che non aveva meno di settant'anni.

"Non lo so. Non so ancora come dirlo a mia madre senza farla impazzire."

Per fortuna la botta in testa si era rivelato un lieve trauma cranico che poteva tranquillamente monitorare a casa, le ossa erano tutte intere e i graffi erano stati disinfettati da un'infermiera che sicuramente aveva un tocco più delicato e comprensivo di Emily. Tutto sommato gli era andata bene. Niente danni permanenti, si sperava solo un po' di consapevolezza in più.

"Non gliel'hai ancora detto?" spostò per un istante lo sguardo sorpreso su di lui, prima di riportarlo sulla strada.

"No. Ma so che devo farlo. La mia psicologa dice che devo imparare a prendermi le mie responsabilità."

"La tua psicologa, eh?" Non lo stava giudicando, Levi conosceva bene quel tipo di tono, quello di Marco era diverso. Era normale, come se stessero semplicemente parlando del più e del meno. Come se fosse normale, una cosa come tante che lo riguardava. Un po' gli aprì il cuore quella constatazione. Aveva temuto che la gente lo considerasse senza speranza dopo averlo saputo, non tutti capiscono, ma non voleva nasconderlo. Gli piaceva l'idea di fare la sua parte per eliminare il tabù della terapia, ma rimaneva comunque terrorizzato delle reazioni altrui. Non aveva un cuore da attivista, era debole ai giudizi.

"Qualcuno deve pur rimettermi in ordine la testa."

"Vorrei anch'io fare un po' d'ordine, a volte, ma in fondo non sto tanto malaccio, quindi mi accontento" Marco si strinse nelle spalle, rallentando appena. "Quindi, dove ti lascio? Non credo di poterti abbandonare in mezzo ad una strada, qualcuno deve controllare che tu non muoia nel sonno."

"Sei estremamente cavalleresco" lo prese in giro, accennando appena un sorriso. "Dammi un secondo," aggiunse frugandosi nelle tasche della felpa "sento Emily e le chiedo se può badare a quel coglione del suo amico. Mi dispiace da morire, aveva organizzato con tanta fatica un'uscita tutti insieme e io le ho mandato all'aria tutti i piani..." finì in un borbottio, scrollando distrattamente i contatti in rubrica. Stava provando a combattere contro i sensi di colpa. Doveva prendere una decisione e crederci fino in fondo. Qualcuno ci sarebbe rimasto male in ogni caso, doveva accettarlo.

Marco accostò all'angolo della strada dopo essersi assicurato che non ci fosse nessuno nei paraggi, poi si girò verso di lui.

"Non vorrai mica rovinare la serata alla tua amica, vero?" Levi, in quelle ore di vuota attesa in ospedale, gli aveva raccontato di quanto fosse grato ad Emily per prendersi cura di lui, di quanto avesse fatto in quei mesi per assicurarsi che stesse bene, quante sere e occasioni aveva bruciato con la sua ragazza per stare dietro a lui.

"Non vorrei ma..."

"Allora lasciala in pace, dille di godersi la serata e che tu hai avuto un imprevisto di qualche genere. Tanto io non ho un cazzo da fare."

Levi rimase con il telefono bloccato in mano. Girò il viso verso il suo e lo osservò attentamente, cercando di capire se aveva detto proprio quello che pensava o se il suo lieve trauma cranico aveva deciso di regalargli un'allucinazione da sogno.

"Allora?" Marco lo riportò alla realtà di colpo, distruggendo il labirinto di possibilità che si stava creando in testa.

"Mi stai invitando da te... o sono più allucinato di quanto la dottoressa non abbia voluto dirmi?"

Marco roteò gli occhi lasciando andare uno sbuffo che voleva fingere impazienza. "Decisamente la botta in testa non ti ha reso più intelligente. Sì, Levi, ti ho detto di dare pace a quella povera ragazza e di lasciare che sia io a controllare che tu non muoia. Mi dispiace per lei, non merita che la sua serata fra amici vada all'aria soltanto perché non sai allacciarti le scarpe."

"Ne sei sicuro?"

"Vedi un'alternativa migliore?"

Levi lo osservò cercando di decifrarlo al di sotto delle sue parole. Era un'attività quasi impossibile quando stava bene, figurarsi con la testa leggera e pesante al tempo stesso.

"Va bene, ma se diventa un problema puoi-"

"Non lo sarà. E comunque sempre meglio del mio venerdì sera tipo."

"Grazie" mormorò, sentendosi improvvisamente come un liceale, annichilito dai quattro anni di differenza che c'erano fra loro.

"Quando vuoi ragazzino, solo, la prossima volta, evita di schiantarti di faccia contro la strada."

Spazio autrice
Sono affezionata a questo capitolo come a poche cose nella mia vita. È stato così spontaneo e fluido nella fase di scrittura che quasi mi sentivo una spettatrice. Questi momenti, amichettə, sono proprio quelli per cui scrivo.

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