10. Conti fatti

"Allora," la voce di Emily gli giunse ovattata da dietro alla porta. La immaginava con le mani unite di fronte a sé, il suo tipico gesto di diplomazia e conciliazione. Levi suo malgrado lo conosceva molto bene.

"Allora," riprese, come se avesse cambiato idea sulla frase da dire e avesse deciso di riformularla "sapete che vi adoro, non?"

Sentì gli altri borbottare e ridacchiare, chiedendosi cosa avesse combinato quella volta. Nessuno azzeccò o lo nominò e quello gli causò una piccola fitta al petto. Sapeva che non si erano dimenticati di lui, ma saperlo e farlo capire al cuore erano due cose ben diverse.

"Bene, ora che abbiamo appurato ciò... Vi chiedo di non perdere la testa. In nessun modo. Intendo. È il mio compleanno, non voglio scenate, d'accord? Ottimo, ora che abbiamo chiarito questo punto fondamentale, possiamo aprire la porta!"

I borbottii indistinti dei suoi amici aumentarono di volume mentre la porta veniva aperta, bloccandosi nell'istante in cui lo inquadrarono.

Levi non si era mai sentito più a disagio di così, nemmeno quando aveva fatto coming out con i suoi genitori.

Rimase seduto sul divano, con le mani a penzolare fra le ginocchia, l'aria da cucciolo bastonato -che sapeva di avere- e le due trecce che gli avevano fatto Essa ed Emily a sfiorargli il collo e a farlo sentire completamente ridicolo e fuoriluogo. Eppure, qualche ora prima, non gli erano sembrate così una pessima idea.

Notò subito la mano di Damon scattare lungo il fianco verso quella di Veronica, il modo in cui aveva fatto mezzo passo avanti con quel suo fare muto e protettivo. Incassò in silenzio perché sapeva di meritarselo, aveva fatto un disastro con loro due e ancora faticava a perdonarselo, ma non per questo faceva meno male.

Elisa gli rivolse un'occhiata sorpresa, con gli occhi spalancati e le labbra socchiuse. Aveva i ricci sparsi attorno al viso e alle spalle, perfettamente disordinati, che le davano l'aria di un angelo appena sceso dal paradiso.

La luce che le illuminò gli occhi gli riempì il petto di calore, ricordandogli quanto, nonostante tutto, fosse amato. Non fu sorprendente constatare che avesse ragione Damon: non era mai stato solo, era sempre stato lui a respingere tutti loro con rabbia.

Elisa gli si gettò addosso con foga, facendolo finire lungo disteso sul divano, con lei che lo stringeva fino quasi a mozzargli il fiato. L'aveva immobilizzato nella sua stretta, con le braccia lungo i fianchi e le ginocchia piantate contro le sueanche.

Mai un abbraccio gli era sembrato migliore. Elisa aveva la rara capacità di saper infondere parole ed emozioni in ogni gesto, e in quel momento gliele fece arrivare tutte con la stessa intensità di uno schiaffo in faccia.

"Cavolo, oggi il premio per l'abbraccio più drammatico non me lo aggiudico" commentò Emily, sbucando a stento con il viso fra le spalle dei suoi amici.

Attirò tutta l'attenzione su di sé, beccandosi quattro occhiatacce per il suo commento fuori luogo. Emily sorrise ad ognuno di loro. Adorava essere fuori luogo.

Essa si strinse nelle spalle con un sorriso arrendevole, restituendo a tutti un'occhiata di scuse. Purtroppo per lei adorava Emily.

Sebastiano roteò gli occhi. Rivolse agli altri una smorfia da "siete amici di un'eccentrica fuori di testa, che vi aspettate, idioti?".

E nonostante tutto, a Levi venne da sorridere, perché amava tutti loro come le foglie amano i temporali estivi. Si sentiva irrimediabilmente attratto verso quei ragazzi, ogni fibra del suo corpo si distendeva in loro presenza e si ricaricava. Apparteneva a loro, e non gli importava come potesse apparire al resto del mondo. Era loro e basta, anche quando il destino li avrebbe inevitabilmente divisi una volta per tutte. Anche quando avrebbe condotto la sua vita, lontano da tutti loro, una sua piccola parte gli sarebbe sempre appartenuta, con i loro nomi incisi a fuoco. La stessa parte che, in qualsiasi momento e luogo, avrebbe catapultato il suo pensiero fino a loro. Perché, a prescindere da tutto, non potevano fare altro se non appartenersi.

Elisa farfugliò qualcosa contro la sua spalla, distraendolo dalle conversazioni silenziose fatte di sguardi dei suoi amici.

"Cosa?" le chiese in un sussurro, completamente assorbito da quel loro piccolo intimo momento.

Elisa si sollevò sui gomiti e lo guardò dritto in faccia, con il naso che sfiorava il suo.

"Mi sei mancato, tantissimo" i suoi occhi luccicarono per un istante, come se le fossero salite le lacrime e avesse trovato il modo di ricacciarle indietro. "Ma ci sono persone a cui manchi ancora tanto," lanciò un'occhiata alle sue spalle, e Levi sapeva chi stava guardando senza seguire la traiettoria del suo sguardo "devi risolvere con loro, Lee."

Elisa riportò lo sguardo nel suo, inchiodandolo con quei suoi occhioni marroni, resi ancora più profondi dalla serietà che le scolpiva i lineamenti.

"Lo so" le sussurrò in risposta, abbassando lo sguardo, fuggendo da quei suoi occhi così intensi e dolorosi. "Non so se lui me lo permetterà, però."

"Allora inizia con lei. Credimi, in questa stanza non c'è nessuna persona che vorrebbe prima tirarti un calcio e poi abbracciarti più di lei. Ma sai com'è fatta, non ti dice niente se non la esorti. Quindi fallo. Parlale e rimetti le cose apposto. Per lui c'è tempo. Avrà bisogno di sbollire. È così incazzato solo perché ti vuole un bene dell'anima e lo fa incazzare di averti già perdonato nonostante quello che hai fatto alle persone che ama. Tutto qui. È testardo e un po' emotivo, e follemente drammatico, ma gli passerà" Elisa finalmente gli accennò uno dei suoi sorrisi dolci e caldi, come il profumo che aleggia in cucina quando si preparano i biscotti.

"Grazie" riuscì a liberare le braccia stando attento a non farle perdere l'equilibrio e la abbracciò, cercando di replicare il suo talento nell'infondere parole negli abbracci. Si rese conto in quel momento che gli erano salite le lacrime e gli venne da sorridere, perché era così bello e assurdo al tempo stesso voler così tanto bene ad una persona da sfiorare la commozione.

"Non tagliarci più fuori."

"Mai più" le giurò, e ci credette sul serio.

***

Per quella sera Emily aveva insistito per una cosa semplice: soltanto i suoi amici tutti insieme, stretti nel suo salotto come succedeva appena qualche anno prima.

Con il passare del tempo le loro strade si erano progressivamente allontanate, più di quanto già non fossero, facendoli immergere nella vita, con le sue routine e i suoi caos. Rimaneva poco tempo da passare insieme, e spesso non potevano permettersi di essere tutti.

Così Emily si era messa al lavoro con mesi d'anticipo, intervenendo in prima persona sulle loro agende per fare in modo che fossero tutti presenti. Su quella di Levi aveva scritto "prenotato", con accanto il disegnino di una sua versione miniaturizzata, i ricci scomposti e gli occhiali troppo grandi, sopra alla testa una targhetta da prenotazioni simili a quelle dei ristoranti con scritto "Emily".

Così si era ritrovato circondato dai suoi amici più cari, l'uno sopra l'altro mentre si litigavano i cartoni della pizza e si passavano bottiglie di birra come adolescenti finalmente liberi dalle restrizioni genitoriali.

A volte il tempo per loro non sembrava essere passato, ma a ben guardarli avevano tutti addosso i segni di ciò che era successo nelle loro vite nel frattempo.

Emily aveva le braccia che sbucavano dalle maniche arrotolate della felpa ricoperte di nuovi tatuaggi, che si era fatta da quando la sua carriera artistica aveva imboccato la buona strada. Su un avambraccio faceva mostra di sé la sua prima opera che avevano esposto: due busti di donna in gesso che si attocigliavano e si fondevano insieme. Sull'altro aveva tatuato l'opera di fronte alla quale aveva conosciuto Essa: una tela rappresentante un corpo di donna infestato da fiori i cui tralci scavavano nella carne, curato nei minimi dettagli, un capolavoro di cura e pazienza che le aveva tolto il sonno per tre giorni di seguito. L'aveva chiamato "Auto oppressione", diceva che era il figlio di tutte le convinzioni radicate dal patriarcato nella mente delle donne. Quella femminilità che ci si auto impone ad ogni costo, convincendosi che solo soffrendo si possa dar vita ai fiori della bellezza. Sognava di riuscire ad esorcizzare quelle idee così ben radicate, permettendo alle cose belle di fiorire dalle crepe che c'erano già invece di crearne delle altre.

Chiyuki aveva i fianchi più tondi e morbidi, gli occhi più seri e dolci. L'attitudine alla cura era cresciuta in lei e le era sbocciata nello sguardo, sempre vigile ed attento, pronto a cogliere ogni singolo dettaglio. Aveva iniziato a vestirsi in modo sempre più colorato, con improbabili ed azzeccate combinazioni di colori. I vestiti erano sempre più comodi, la borsa sempre più grande. Aveva abbandonato le minigonne ed i tacchi e sembrava assolutamente realizzata nei suoi pantaloni wide di jeans azzurro e il maglioncino a strisce colorate rimboccato con cura nell'orlo. Si era resa conto di essere fatta per una vita più comoda di quella alla quale aveva sempre aspirato, e la realizzazione le donava. Si era rilassata, e la dolcezza del suo sorriso era sbocciata.

Elisa sembrava più disincantata, con i piedi per terra e le preoccupazioni che le tiravano i tratti del viso quando era sovrappensiero. Si era accorciata i capelli e aveva smesso di indossare la gonna dopo che un uomo l'aveva seguita fin sotto casa. La sua dolcezza però non scompariva mai, troppo radicata nel profondo per farle abbandonare l'idea che ci sia del buono ovunque e che vada coltivato. Credeva sempre in tutti, anche se il suo sorriso aveva iniziato a vacillare di fronte alla triste realtà. Le piaceva ancora sognare, ma sembrava lo facesse con più pacatezza di quando l'aveva conosciuta.

Veronica era un'altalena di passi avanti e indietro, umorale fino allo stremo. Un giorno si tagliava i capelli cortissimi e passava il resto della giornata ad ammirarli, fiera della propria decisione, quello dopo si nascondeva sotto le coperte con la paura del giudizio altrui. A volte se ne fregava, altre si ritirava terrorizzata. Aveva iniziato a volere disperatamente le cose, a spingersi per ottenerle e a soffrire se si bloccava prima. A quasi ventisei anni aveva il principio di una ruga d'espressione in mezzo alle sopracciglia, gli occhi in tempesta e la linea della bocca costantemente tirata in una linea dritta, a metà fra la delusione nei suoi stessi confronti e la determinazione. Però aveva iniziato a provarci, a buttarsi, a lottare per ciò che amava, e Levi quando l'aveva conosciuta non era certo ci sarebbe mai riuscita.

Damon era così cambiato che quasi non somigliava più alla persona che aveva conosciuto. Ci aveva dato un taglio, e non solo ai capelli. Aveva addosso così tanti cambiamenti che era impossibile non indovinare un grande dolore come causa scatenante. Levi sapeva di aver dato inizio a tutto quello, e forse non sapeva ancora come perdonarselo. Nel profondo però percepiva i frutti positivi di quella mutazione: la realizzazione nel nuovo campo di studi, il lavoro partime che gli faceva brillare gli occhi quando ne parlava. E poi Veronica, che sembrava la destinataria di ogni suo sorriso ben riuscito. Era diverso, sempre complesso e in lotta con la sua stessa testa, risultato di una crisalide di dolori e delusioni. Gli erano spuntate le ali, doveva soltanto capire come usarle e Levi era certo che ce l'avrebbe fatta.

Con loro c'erano anche Essa e Sebastiano, che da anni ormai si erano uniti al loro gruppo, risultato di quando il caos che governa l'universo concede al mondo quelle coincidenze che ti cambiano la vita.

Essa era sole, dinamicità, in lei il cambiamento era perpetuo. Passava da un hobby ad un altro, arricchendo le sue conoscenze di volta in volta, propinandole come pillole casuali nelle conversazioni. Scriveva per un blog di arte contemporanea e faceva l'influencer nel tempo libero, aggiungendo una nota frizzante e curata ovunque mettesse le mani. Aveva il raro talento di essere perfezionista senza risultare irritante.

Sebastiano invece era mistero da sempre. Accolto nelle loro vite a causa dell'allontanamento da casa da parte del padre, non aveva mai rivelato loro il motivo. Era semplicemente capitato in mezzo a loro, come un passerotto che inizia a presentarsi ogni giorno sotto la tua finestra e al quale non puoi fare a meno di affezionarti, per quanto schivo risulti. Sorrideva spesso, ma l'angolo delle labbra gli tremava appena, smascherando l'insicurezza che cercava di nascondere con l'ironia. Era bravo a nascondere le cose, forse anche più di Marco, ma il suo debole per Elisa era l'unica cosa certa che lo riguardasse.

Anche lo stesso Levi era cambiato. Non solo per i capelli più lunghi o lo sguardo più cupo. Era cresciuto, aveva imparato a conoscersi e aveva scoperto di avere tante lacune da colmare, a partire da se stesso. C'era così tanto dentro di lui che aveva sempre ignorato che quando aveva iniziato ad ascoltarsi aveva scoperto di essere una persona completamente diversa da chi credeva di essere. Era più egoista, protettivo, aveva bisogno di contatto e conferme, sapeva essere anche più insicuro di Veronica. Si sognava in modo idealizzato, capace di supportare e sopportare tanto, ma con il tempo e la pazienza aveva capito che stava mentendo a se stesso. A volte non sapeva sopportare nemmeno se stesso. Voleva essere indipendente e di sostegno, in realtà agognava l'appartenenza a qualcuno. Perché la verità è che non è sano, ma nel profondo tutti desideriamo essere di qualcuno, marchiati a fuoco dall'appartenergli.

Si comportavano fra loro sempre allo stesso modo, ma tutti loro erano cambiati, maturati, plasmati dalle esperienze che la vita gli aveva messo di fronte, più consapevoli di chi erano e cosa volevano. Sorridevano di meno, soffrivano un po' più forte e sognavano un amore in cui trovare riparo dal mondo, in cui inabissarsi e perdersi per sempre. Perché anche se erano cresciuti sapevano ancora sognare, credere in qualcosa e, in modo più o meno consapevole, tutti avevano puntato sull'amore.

Così, mentre il film scorreva in sottofondo, accoccolato fra Emily ed Elisa, percependo distintamente la presenza di tutti gli altri ragazzi attorno a lui, Levi si rese conto che in fondo era così che andava la vita, era così che le persone facevano: andavano avanti perpetuamente, perché era l'unica direzione che potessero prendere.

***

Verso la fine della serata si era districato dall'abbraccio di Elisa, la testa ancora piena di pensieri che si inseguivano uno dietro all'altro, ed era sgattaiolato dietro a Veronica, che era scomparsa verso il bagno.

Non era l'approccio che desiderava, ma la privacy era un optional non concesso in serate del genere. D'altronde non avrebbe mai provato ad avvicinarla finché era vicina a Damon, le sue occhiate affilate gli avevano ricordato perfettamente il motivo per cui era stato allontanato dalle loro vite, e dal canto suo Veronica non si era separata da lui nemmeno un istante. Probabilmente gli stava vicina come sostegno emotivo, rassicurando, con quella vicinanza, soprattutto se stessa. Levi la capiva, un tempo anche lui aveva ricoperto lo stesso ruolo e le stesse preoccupazioni avevano abitato ogni pensiero delle sue giornate. Era strano pensare che ciò non lo riguardasse più.

Si appoggiò con le spalle contro il muro di fronte alla porta del bagno, ascoltando le voci dei suoi amici che arrivavano soffuse attraverso il piccolo corridoio.

Non aveva idea di cosa dirle, sapeva soltanto che doveva parlarle e qualcosa avrebbe inventato. In fondo glielo aveva sempre detto Damon: la sua specialità era rimediare agli errori che commetteva invece di trovare il modo di non ripeterli. Ragionandoci a mente fredda non era difficile capire perché fra loro fosse finita, ma questo non lo rendeva più facile.

Veronica aprì la porta di scatto, facendolo precipitare dalla nube dei suoi pensieri.

Aveva i capelli leggermente più lunghi, la pelle più rosea e le occhiaie meno evidenti dall'ultima volta che l'aveva vista. Sembrava essere più serena ma al tempo stesso non esserlo del tutto, con quella scarica elettrica che le attraversava lo sguardo senza fine.

Gli occhi le saettarono veloci da una parte all'altra, cercando una via di      fuga o magari una risposta razionale a quell'appostamento fuori dal bagno.

Si limitarono a fissarsi in silenzio per un istante. Veronica ancora a metà fra il bagno ed il corridoio, con un piede ancora puntato dietro di sé, quasi fosse pronta a spostare il peso all'indietro e sparire di nuovo dietro alla porta.

"Ciao..." si tirò fuori lui, riscoprendo tutta quella timidezza che a volte riusciva a farlo arrossire come un bambino colto in fallo.

"Ciao..." Veronica mollò la maniglia della porta, allungando il braccio verso il basso, unendolo a quello di fronte a sé, tirandosi nervosamente la punta delle dita.

"Senti, io..." Levi fece una pausa, arricciando il naso in una smorfia. "Lo sai che non sono io quello bravo con le parole, e mi dispiace perché meriteresti delle gran belle scuse e un intero discorso su quanto non ti meritassi neanche una di quelle cose cattive ma... Non ne sono capace, so solo dirti che mi dispiace così tanto che mi sento un vuoto nello stomaco. Vorrei scusarmi, e farti sapere che sì, stavo male e questo rende comprensibile il mio comportamento, ma non giustificabile. Quindi scusa, sono stato pessimo e sapevo di esserlo, non sono riuscito a fermarmi e ho ferito una delle persone a cui tengo più al mondo. Mi manchi da pazzi, Vi. Senza di te è come se avessero tolto l'ossigeno dall'aria. Hai presente? Respiri ma non serve a nulla e finisci col soffocare lo stesso. È un po' macabro ma hai capito... no? Sei la mia persona, e, se dovesse mai esistere al mondo un'altra metà di chi dovrei essere, sei sicuramente tu" fece una pausa, sbuffando frustrato contro le parole che non riuscivano a rappresentare a pieno il discorso che si era preparato mentalmente per tutta la sera.

"Ecco, volevo dirti questo. E dirti che puoi avere tutto il tempo che vuoi, se ti serve. Io però sono di nuovo qui, per qualsiasi cosa. Sto trovando un mio equilibrio, la mia psicologa dice che ho la capacità di controllare certe emozioni e quindi non farti più del male, e io ci credo."

"Psicologa?"

"Ci vado da un po'. Mi aiuta. Sai, mi aiuta a rendere semplici quelle cose che a parole sembrano semplici, ma che poi non lo sono tanto. E poi mi dice quanto so essere idiota, e che dovrei darmi una regolata."

"Mi sembra una bella cosa."

"Lo è."

Rimasero in silenzio per un istante, straniti da quello scambio di confidenze così intimo ma al tempo stesso distaccato, un tentativo delicato e faticoso di ricucire i lembi del loro rapporto.

"Stai davvero meglio?"

La domanda lo spiazzò, perché da Veronica non aveva ancora imparato ad aspettarselo.

"Io... devo essere sincero?"

Lei annuì appena, rilassando le braccia contro i fianchi, totalmente concentrata sulla loro conversazione.

"Sì, sto meglio. Sono solo immensamente triste, credo. Non sono più arrabbiato e patologico nei confronti della vita, almeno. Non è granché, ma è il mio inizio" le sorrise tristemente, tirando gli angoli delle labbra in un sorriso un po' storto.

Veronica lo osservò piegando appena il viso di lato, poi fece un passo avanti, si chiuse la porta alle spalle e fece un altro passo, raggiungendolo. Lo fronteggiò in silenzio, con gli occhi che faticavano a rimanere fissi nei suoi. Poi lo abbracciò, delicata come una farfalla sui primi fiori primaverili.

"Mi dispiace tu stia male, ma sono felice che ci sia di nuovo spazio per me" gli sussurrò contro la spalla, ben nascosta al suo sguardo. A volte Veronica sapeva dire le cose solo quando non ti poteva guardare in faccia.

Levi la strinse con altrettanta dolcezza e delicatezza, avvolgendola fra le braccia, piegandosi verso di lei per posare la fronte sulla sua spalla.

"Adesso va meglio" le mormorò in risposta, ed era vero.

***

Scese gli scalini rapido e silenzioso, aprendo la porta con altrettanta cura di non farsi sentire. La verità era che stava cercando di prendere tempo, nascondersi dietro al silenzio finché non avesse trovato le parole giuste da dire.

Era il momento di chiarire con l'ultima persona di quella sera, quella che lo spaventava di più perché aveva da tempo dimenticato come averci a che fare.

Lo trovò a qualche metro dall'entrata, con le spalle appoggiate al muro, un braccio stretto attorno al petto e il gomito dell'altro appoggiato sopra, con cui si portava la sigaretta alle labbra. Ai suoi piedi c'erano già tre mozziconi che ancora fumavano lenti, scintillando contro il buio serale che stava salendo e si inghiottiva tutto.

Lo osservò in silenzio, stringendosi nella felpa leggera, rivivendo una conversazione che avevano avuto qualche anno prima e che era tornata a bruciare in lui come la settimana in cui aveva trovato la forza per lasciarlo.

Avevo un vuoto dentro che cercavo di riempire in ogni modo. Fumavo, bevevo, leggevo e scrivevo in modo febbrile. C'erano giorni in cui cercavo di sopraffarlo e facevo di tutto per riempirlo, sembravo quasi fuori di testa. Stavo sveglio venti ore e facevo qualsiasi cosa mi passasse per la testa, e il fare tutte quelle cose mi faceva stare meglio. Non che fossero cose sane, era sempre tutto troppo e spesso non mi facevano nemmeno bene. Diventavo ossessivo e la cosa speventava mia madre.

Altri giorni era quel vuoto a sopraffarmi. Rimanevo a letto tutto il giorno, non mangiavo e dormivo per non pensarci. Ero stanco fisicamente, distrutto. Ma non era sempre così.

A volte le giornate erano normali, lo sentivo sempre ma era sopportabile, non dovevo assolutamente riempirlo e nemmeno lasciarmi schiacciare.

All'inizio andava così, con qualche giornata sbagliata. Poi le giornate sbagliate sono diventate troppe, iniziavo a dimenticarmi come fossero quelle normali. A quel punto è stato il disastro.

Poi ho iniziato la mia cura, sono tornato stabile a modo mio. È così che è andata, Levi. È così che ho iniziato a stare male.

E a volte ritorna, quel vuoto. Non sempre so perché, so solo che non è la fine, ma anche che questa cosa probabilmente non avrà una fine. Forse avrò questi periodi per sempre, non ci sono certezze. So di avere questo vuoto e che potrei cercare di riempirlo per tutta la vita. Devo stare attento a come lo faccio perché a volte non noto il limite fra sano e ossessivo. A volte sono così disperato che non so di esserlo.

Rimase fermo sulla soglia della porta, con il cuore che batteva veloce e il petto diviso in due. Avrebbe voluto guardarlo negli occhi e chiedergli cosa stesse succedendo, cosa non andasse e magari se ci fosse qualcosa che andava, ma non era pronto al suo rifiuto. Perché lo sapeva, lo avrebbe rifiutato. Quelli non erano più affari suoi, non gli avrebbe più permesso di provare ad aggiustarlo e aveva ragione, ma faceva male lo stesso. In fondo chi non vorrebbe far sparire ogni dolore per le persone che ama? È difficile accettare che non si può, e che provarci a volte può significare perdersi.

Lo vide buttare a terra il quarto mozzicone e frugarsi nelle tasche con lo sguardo puntato di fronte a sé. Non riusciva a distinguere chiaramente i suoi lineamenti, ma era certo che i suoi occhi fossero persi in un pensiero troppo lontano.

Decise di farsi forza e fece qualche passo verso di lui, con le ginocchia che tremavano appena.

È perché ci tengo, si disse stringendo e rilassando i pugni contro i fianchi. Sono nervoso perché ci terrò sempre.

Lo affiancò mentre tirava fuori la sigaretta dal pacchetto e si preparava a rigirarsela fra le dita, come faceva sempre prima di accenderla. La impugnava come una matita e la osservava in silenzio prima di stringerla nel pugno e poi liberarla dalla presa. Era un rituale tutto suo che Levi non aveva mai visto fare a nessuno. L'aveva trovato attraente, desiderando addosso quelle mani e quegli occhi. Ma le cose erano cambiate. Con il tempo aveva imparato quanto dolore pregresso cerchi ancora di sfogarsi attraverso un gesto così semplice, e aveva iniziato a desiderare che quelle sigarette sparissero.

Damon bloccò il gesto, con la sigaretta incastrata fra la punta delle dita, alzando lo sguardo nel suo. Era lo sguardo dei grandi litigi, lo stesso dei loro ultimi giorni insieme.

"Non c'è nulla che possa dire, vero?"

"No, non c'è nulla che tu possa dire."

Non ne era certo, ma forse in fin dei conti aveva ragione Elisa . Non era davvero arrabbiato con lui e forse era peggio, perché questo significava che era arrabbiato con se stesso. Damon era sempre stato incline a riversare la rabbia nei suoi stessi confronti, con cattiveria, senza pietà. Giudice, giuria e carnefice della sua persona, anche quando il processo non era a carico suo.

"Mi permetteresti di scusarmi? Non ti chiedo di perdonarmi."

Damon gli rivolse un sorrisetto stanco ed ironico dei suoi.

"Come se non sapessi che ti ho perdonato ancora prima di sbattermi la porta alle spalle."

Levi lo guardò dritto negli occhi, con la tristezza che gli sprofondava nel petto.

"Però sei ancora arrabbiato" continuò con il suo copione, fingendo di non sapere già tutte le risposte, perché forse sarebbe stato peggio ammettere ciò che sapeva.

"Già" Damon abbassò lo sguardo e reggendo la sigaretta se la accese, schermando la fiamma con una mano piegata a coppa.

Scese fra loro un silenzio denso e pesante, ghiacciato come l'aria di novembre, quella che ti si infila nelle maniche del cappotto e ti si attacca alla pelle come se non dovesse andarsene mai più.

"Non è colpa tua" Levi lo mormorò con lo sguardo puntato a terra, sulla punta delle scarpe nuove, troppo bianche, sperando bastasse.

Damon girò il viso verso di lui, travolgendolo con una nuvola di fumo. Riemerse gradualmente, pallido come un fantasma nella notte.

"Credi che questo possa cambiare qualcosa?"

Levi incrociò il suo sguardo, sentendo già che il suo tono si ammorbidiva ancora prima di lasciargli le labbra.

"Me l'hai detto tu una volta. Anche se non ci credi fa bene sentire certe cose, anche se sono parole nel vento. Ti restano dentro, anche se ci metti di più a credere a quelle buone che non a quelle cattive. Ma restano lì e prima o poi si accumulano fino al momento in cui inizi a crederci, anche se non avresti mai pensato di poterlo fare."

Damon si lasciò andare ad una risatina sprezzante.

"Spesso dico un sacco di stronzate."

"Sai che non è così" si arrischiò a sfiorargli la spalla con la sua, fermandosi a pochi millimetri di distanza.

"A quanto pare sapere le cose non mi serve a nulla" alzò il viso e liberò una nuvoletta di fumo, osservandola affascinato mentre si dissolveva sopra le loro teste, lasciando il posto al cielo con le sue sparute stelle.

Damon si staccò con uno slancio del bacino dal muro, facendo qualche passo avanti. Gli parlò dandogli le spalle, lo sguardo ancora alto.

"Dammi tempo, Levi. Non è più come prima. Non mi illudo più di potermi perdonare attraverso gli altri. Lo devo fare io e basta, anche se per il resto del mondo non è colpa mia. Per voi non ho sbagliato, ma io so di aver sbagliato. Ho sbagliato in così tanti modi che... Ci sono altre priorità, altre cose importanti. Mi serve tempo, non che tu mi faccia gli occhi dolci sperando di scacciare la mia rabbia."

"Io non stavo-"

"Non è vero e non importa. Non puoi farlo, ecco tutto" si girò verso di lui, con le mani nelle tasche della giacca di jeans, le gambe ben piantate per terra. Era diventato così bravo a mantenere il controllo che una persona qualsiasi avrebbe pensato fosse perfettamente calmo, ma Levi non era una persona qualsiasi. "Ho bisogno dei miei tempi per i miei casini. Puoi accettarlo?"

"Sì..."

"Ottimo" si avviò verso l'entrata, dandogli nuovamente le spalle. Aprì la porta e si fermò con il piede sullo scalino, rivolgendogli un ultimo sguardo. "Per rispetto di Emily rimango, ma per favore ti chiedo di dirle di rispettare questa cosa. Le persone non possono essere aggiustate a suo piacimento solo perché non le piace come stiamo, non siamo delle sue opere e neanche dei fottuti giocattoli."

Si immerse nella luce che proveniva dal piccolo ingresso, lasciando la porta sbattere alle sue spalle, l'oscurità che tornava ad avvolgere Levi.

Aveva sbagliato così tanto, così a lungo con lui. L'avevano fatto tutti.

Damon era scheggiato ed imperfetto, ma non era rotto. Non c'erano pezzi da staccare e riattaccare a proprio piacimento, c'erano solo crepe che resistevano alle sollecitazioni. Crepe da curare nella loro unicità, non da far sparire con uno strato di pittura.

Avevano sbagliato tutti, ingenui ed animati di buoni sentimenti mal direzionati.

Levi aveva intenzione di correggere il suo errore di prospettiva e diventare la persona di cui Damon aveva avuto bisogno anni prima e che non era stato, accecato prima dall'interesse e poi dai suoi sentimenti.

Voleva accettare di non essere mai stato la persona di cui aveva avuto bisogno in quel senso, mettere finalmente un punto a quella storia per poterne scrivere un'altra.

Voleva imparare a dirgli "addio" per potergli dire nuovamente "ciao" con la stessa leggerezza del giorno in cui l'aveva conosciuto.

Alla fine aveva avuto ragione Damon, solo che ad essersi pentito di quella relazione, a conti fatti, non era stato Levi.

Spazio autrice
Non credo che qualcuno leggerà questo sproloquio, ma lo faccio ugualmente perché è importante. A me sarebbe servito, tanto tempo fa.
In questo capitolo stavo chiudendo una storia della mia vita, senza rendermene conto. Qui ho iniziato a piantare un seme di consapevolezza e trovo disarmante rileggere questo capitolo mesi dopo, a seguito di tutto ciò che è successo recentemente. In qualche modo lo sapevo già, e sono felice di aver visto in Damon tutta quella rabbia e risolutezza, perché lui è sempre stato me un po' più degli altri. Questa volta in particolar modo.
Voglio solo dirvi che se una relazione ha troppo potere su di voi dovete soltanto darvela a gambe. Non siamo fatti per soccombere a nessuno, anche se è più semplice abbandonarsi all'influenza di qualcun altro. So che è difficile rendersene conto, sono la prima che ha riso come una pazza quando all'improvviso ha capito. Perché è assurdo, sul serio. Ma se qualcuno prova a mettervi il dubbio, ascoltatelo. Da dentro le cose non vogliamo vederle, le leggiamo in modo diverso, il problema è che le cose rimangono quelle che sono a prescindere da come le viviamo noi. Alcune relazioni ci uccidono lentamente anche se noi crediamo sia normale, che alla fin fine ci stiamo pure bene in certi momenti, tremendamente bene. Ma ecco, le relazioni non dovrebbero farti sentire come se stessi morendo dentro, né calpestare i tuoi sentimenti o finire preda dell'egoismo dall'altra persona. Le relazioni sane non ti fanno piangere fino a perderci il fiato perché ti senti sbagliata, inferiore perché non sei quel che serve a quella persona.
Quindi scappate, scappate appena ve ne rendete conto e tornate a respirare l'aria della vostra vita, perché queste relazioni vi tolgono tanto e nemmeno ve ne accorgete. In cambio vi lasciano solo macerie su cui poi è difficile ricostruire.
L'unica persona che merita controllo su di voi siete solo voi stessi, e basta, tutti gli altri, se vi amano davvero, avranno cura di voi e dei vostri sentimenti, lotteranno con voi, non vi lasceranno a macerare nel vostro dolore autoinflitto per giustificarli, non vi terranno stretti anche se sanno di togliervi il respiro.
Scappate e siate liberi, non avete realmente bisogno di altro se non di amarvi.
Credetemi, io e Damon ne sappiamo qualcosa.

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