01. Non Smetterò Mai di Credere
Sundas, 29° del Focolare, anno 257 della Terza Era.
Si era dipinto le faccia con i simboli tribali degli sciamani e nel suo pellegrinare per le rovine di Skyrim, aveva recuperato un mantello di pelle scuro, logoro, di quelli che si trovano nei covi dei Negromanti, se sei abbastanza fortunato da uscirne con le tue gambe. Le Guardie al cancello principale non erano soggetti con cui scherzare, e si tenevano alla larga da un solo tipo di persone, quelli che usavano la magia. Per sua fortuna, per convincere quelle due guardie bastò il mantello scuro e sporco di sangue rappreso e uno sguardo arcigno.
Era quasi buio in quei primi giorni del Focolare, ed era un giorno di festa a Whiterun. Una coltre uniforme di nuvole aveva gravato sui cieli del feudo per tutto il pomeriggio, immergendo le vette nelle nuvole da Nord a Sud. Uno degli ultimi temporali estivi tambureggiava dalle prime ore del mattino lontano, a Ovest, sopra i cieli di Rorickstead.
La guerra, tornata a infuriare con la nomina del nuovo Imperatore Severus Titus, ormai si era spostata a Sud, nel feudo di Falkreath, e ora nessuno, all'interno delle mura, protette dalle truppe di Cyrodill, sembrava più preoccuparsi di assedi, scorte di cibo e di essere impalato da qualche Manto della Tempesta. Due guerre in dieci anni erano più che sufficienti per gli abitanti della città. Anche le vecchie ruggini tra i Sangue Argento e i Compagni erano passate in secondo piano sotto la pressione costante che la guerra porta con se. Nessuno poteva permettersi di spargere il sangue dei pochi sopravvissuti rimasti. Per le vie della città si sorrideva e si danzava, si festeggiava l'arrivo della nuova stagione. Tuttavia, era difficile per un Orco non attirare l'attenzione, indipendentemente da quale fosse il periodo storico, da dove si trovasse o quale fosse il motivo per cui si trovava lì. Non perché fossero mal visti dalle altre razze, semplicemente perché loro stessi preferivano starsene isolati nei loro avamposti tra le montagne, lontano da tutti. Anche se in quel giorno, a quell'ora della sera, le strade erano piene e nessuno avrebbe fatto caso a un Orco che se ne andava in giro da solo, vestito come un negromante e intento a evitare chiunque.
Hogar entrò alla Giumenta Bardata cercando di non dare nell'occhio. Dal fondo del cappuccio di pelle si guardò attorno, squadrò tutti i presenti prima di muovere un passo all'interno della locanda. Un bardo intratteneva alcune donne con la sua musica, alcuni guerrieri Nord bevevano allegramente nei tavoli in fondo alla sala grande. La locanda era affollata e piena di fumo e odore di carne arrosto.
Hogar cercò di rimanere ai margini dell'arco di luce del braciere centrale, per muoversi il più possibile tra le ombre. Si avvicinò al bancone, dove una donna Nord sulla trentina stava pulendo il banco senza troppa enfasi, prendendo posto accanto a un Bosmer addormentato e ronfante con l'alito che puzzava di idromele. Lo sciamano Ulink-Har riteneva la cattiva compagnia un cattivo presagio, e la peggiore di tutte le compagnie possibili, per la loro razza, aveva i lineamenti di un Elfo.
"Cosa bevi, Orco?" chiese la cameriera aggiustandosi i capelli rossi in un crocchio.
"Birra" grugnì Hogar senza guardarla.
La giovane Miranda conosceva la scortesia degli Orchi, e sapeva che, in realtà, non era scortesia. Gli Orchi avevano solo un tono di voce e un solo modo di parlare, che usavano allo stesso modo sia per minacciare che per fare complimenti.
La ragazza tirò fuori una bottiglia di un vetro scuro e ambrato dal bancone sotto di lei. Hogar non la degnò nemmeno di uno sguardo, rimase a fissare di sottecchi ogni astante attorno a lui. Due potenti guerrieri Nord consumavano la loro cena attorno al fuoco, a testa bassa, ragguagliandosi su quali dei loro compagni d'arme fossero ancora vivi e quali, invece, si fossero ormai guadagnati l'ingresso a Sovngard, un Kajiiti dal manto pezzato parlottava con due Argoniani loschi quanto lui. Tutt'attorno c'erano soldati Imperiali e Guardie che si godevano il giorno di riposo, ma nessuno di loro sembrava averlo riconosciuto.
Hogar non si accorse nemmeno che la sua birra era lì, già aperta sul bancone accanto al boccale di ferro.
"Se stai cercando di passare inosservato non ci stai riuscendo" gli fece notare la donna, un po' divertita, un po' infastidita dal suo atteggiamento.
Hogar si voltò verso di lei e tentò di calmarsi. Aveva setacciato la locanda da cima a fondo e lei non c'era. Maledizione.
"Vuoi mangiare qualcosa? Hai l'aria di uno che ha fame. Oggi Olegher ha fatto lo stufato di coniglio" la ragazza dagli occhi verdi gli sorrideva. Doveva calmarsi e riprendere il controllo. Annuì versandosi altra birra.
"Vado a vedere se ne è rimasto" concluse lei allontanandosi verso le cucine.
Il brusio era costante, la gente andava e veniva senza sosta. Lo avrebbero trovato. Doveva andarsene di lì, ma dove poteva andare?
Negli altri avamposti degli Orchi gli avrebbero tagliato la testa, e nel suo, dopo essere stato esiliato, lo avrebbero sacrificato a Malacath per aver infranto il codice del suo clan. I Nord e gli orchi non erano mai andati d'accordo, e con gli Elfi, invece, c'era proprio un odio profondo.
Non aveva amici, da nessuna parte.
Solo lei poteva aiutarlo, e non si era presentata.
La cameriera tornò portandogli una ciotola fumante.
Hogar guardò disgustato il contenuto. Una zuppa di carote con qualche pezzo di pane raffermo sbriciolato dentro. Due cose potevano rovinare l'umore di un Orco, la cattiva compagnia e il cattivo cibo.
"Stai scherzando? Avevi parlato di stufato di coniglio"
"Olegher dice che un Orco se lo può cucinare da solo il coniglio, ci sono troppe guardie imperiali da sfamare e non ha tempo per un mercenario rinnegato" la ragazza gli lanciò un'occhiata eloquente, chiarendo che si era accorta del marchio di infamia sulla sua armatura e non volevano avere niente a che fare con lui. Hoger sgranò gli occhi, scurì e indurì i lineamenti. L'onore era tutto per un Orco, anche se era stato esiliato come lui.
"Chi si crede di essere per parlare così a un figlio di Malacath"
"Non lo so, Orco, ma io ho da fare, se hai delle lamentele va a parlare direttamente con lui"
Hogar scattò in piedi e si fece largo tra la folla per raggiungere la cucina, dimenticando i timori con cui era entrato e lasciando ogni prudenza. Una volta spalancata la porta, entrò furente nelle cucine, in vena di scaricare tutto il suo nervosismo sul povero cuoco. Di fronte a lui c'era un tavolaccio ricolmo di verdure e ingrediente di vari tipi, sulla sinistra il calderone ribolliva e le braci scoppiettavano nel camino in fondo alla sala.
Nessuna traccia del cuoco.
"Dove sei finito verme?"
Sentì la porta chiudersi alle sue spalle. Qualcuno lo afferrò per un braccio e lo sbattè a terra da dietro. L'Orco, sorpreso dalla rapidità dell'azione, non riuscì a reagire, e il colpo gli tolse il fiato.
La presa non era delle più forti, ma la tecnica e la rapidità erano impeccabili, e, in quella posizione, nemmeno i suoi muscoli potevano nulla.
"Sei forse impazzito?" la voce della donna era intrisa di rabbia, tuttavia, sembrava volesse evitare accuratamente di urlare.
"Sathya?" farfugliò l'Orco incredulo.
"Chi sei? Perché mi hai cercato, per chi lavori?"
"Per nessuno – protestò Hogar, cercando di trattenere il dolore per la presa che lo bloccava a terra – Lavoro da solo da anni"
"E cosa vuoi da me allora?"
"Ho bisogno del tuo aiuto. Stavamo saccheggiando delle rovine Nord con dei banditi del Reach quando è successo qualcosa e sono morti tutti. Sono Hogar, ricordi? I raid ai santuari dei draghi nel Sud"
Sathya ci pensò per qualche secondo. Ricordava i raid, ma di mercenari ne aveva incontrati tanti. Tutti arrivati e spariti nell'anonimato di identità inventate o soldi scomparsi prima che il lavoro fosse concluso.
"E cosa vuole da me un mercenario rinnegato?"
"Era un lavoro su commissione, dovevamo recuperare dei gioielli, niente trappole, niente schifosi Druagr, e invece ci hanno fatto pezzi. Se mi beccano uccideranno anche me, sei la sola di cui mi posso fidare. Andiamo, ho sempre portato a termine i miei lavori, puoi fidarti di me"
"Non mi fido di te ne di nessun altro mercenario. Chi ti aveva commissionato la spedizione?"
"Dobbiamo per forza parlarne qui? Sul pavimento?" protestò l'Orco.
La donna, avvolta in una divisa di cuoio scuro, si voltò verso la porta della cucina, in ascolto. Nella sala grande la folla beveva e danzava sulle note del liuto del Bardo Winkle Feres, uno dei più noiosi e pedanti che avesse mai sentito. Dopo qualche secondo, liberò l'Orco dalla presa e lo aiutò ad alzarsi.
"Sei un'idiota. Non l'hai visto l'assassino della Confraternita che ti ha seguito fin qui?"
L'Orco sbiancò.
"Andiamo" senza attendere risposta, la donna prese le scale sulla parete destra e salì al secondo piano.
Sathya valutò la situazione.
C'era una stanza da letto di rimpetto alle scale e una sulla destra, più nascosta.
"Va dentro e fa silenzio, se resti nascosto e non fai stupidaggini potresti salvarti la vita" disse spingendolo nella stanza di fronte alle scale.
Hogar, rimasto solo nella stanza da letto, fu assalito dal panico. Perché mandargli un assassino della Confraternita Oscura? Aveva mandato all'aria un'occasione, ma Skyrim è piena di caverne e antiche tombe da depredare. L'Orco cadde in ginocchio. La sua razza, incapace di piangere, affrontava la paura in un solo modo.
L'Orco, con le mani giunte, cominciò a pregare Malacath con la sua voce cavernosa, perché lo perdonasse di aver tradito il codice del loro clan, perché potesse trovare redenzione in una giusta morte di fronte ai suoi simili, e che i suoi genitori sapessero che era morto con valore, trafitto al petto e non alla schiena dalla lama di un avversario degno di tale nome.
Più pregava, più sentiva il fervore crescere in lui, quella stupenda sensazione di essere dalla parte giusta del firmamento che tutti gli Orchi percepivano quando si convincevano che le loro credenze erano le sole ad avere il minimo valore. Pochi minuti dopo, ebbe finalmente la rivelazione che aspettava, fu come se il principe daedrico in persona fosse giunto a sussurrargli all'orecchio. Un membro della setta degli assassini era uno degli avversari più degni, non c'era vergogna nel morire per mano di una lama tanto esperta.
Forse erano stati i suoi stessi fratelli a celebrare il rito, perché, alla fine, volevano dargli l'occasione di impedire alla sua anima di vagare in eterno nell'Oblivion. Rinfrancato da questa consolante verità, alzò le braccia al cielo e ringraziò Malacath.
Passarono solo pochi secondi prima che la porta si aprì cigolando.
Non aveva fatto un rumore, ne aprendo la porta delle cucine, ne uno scricchiolio delle assi di legno salendo le scale. Niente.
L'argoniano era lì, sulla soglia della porta, le sue forme sinuose e fine esaltate dall'armatura di pelle aderente della Confraternita. Nel gioco di luci e ombre delle lanterne appese alle pareti, erano visibili solo gli occhi da rettile, due punti gialli che brillavano in una pozza di tenebra.
"Sei solo, Orco?" sibilò il rettile con quello che sembrava essere un ghigno di scherno. L'Orco odiava quelle creature e le loro forme raccapriccianti.
Hogar si voltò lentamente, deciso a farla finita a suo modo, combattendo. Si alzò in piedi ed estrasse la scure dentata di suo padre dal fodero sulla schiena. Prese un profondo respiro.
"Basto e avanzo per farti a pezzi, lucertola"
L'Argoniano allungò un sorriso velenoso.
Hogar sapeva di non avere nessuna speranza. Uno spadone in lamina di oricalco, logoro e malconcio, non poteva nulla in un luogo così angusto contro un avversario lesto e capace come un assassino.
Nessuna scusa, nessun rimpianto.
D'un tratto, vide i suoi occhi gialli strabuzzare dal cappuccio nero, un gemito strozzato di dolore fu l'ultimo suono che mandò prima di cadere sulle ginocchia e stramazzare al suolo con una lama piantata nella schiena.
Sathya riprese il coltello e frugò tra i vestiti del cadavere.
"Maledetti assassini, non hanno mai nulla di utile addosso" farfugliava la donna mentre gettava via il contenuto della divisa dell'argoniano, una pergamena e una bottiglia vuota di Skooma.
Hogar, ormai deciso a farla finita, era ancora con lo spadone in mano, indeciso sul da farsi. Sathya si fermò ad osservarlo.
"Beh? Potresti almeno darmi una mano a nascondere il cadavere?" Hogar si mosse subito, caricandosi senza problemi il cadavere sulle spalle, rimandando a un secondo momento il problema della sua onorevole morte.
Lo portarono nell'altra stanza, dove si era nascosta Sathya, infilandolo senza troppi complimenti dentro un baule che la donna richiuse subito a chiave.
"Vieni, dobbiamo andarcene da Whiterun"
"Aspetta, e dove? Potrebbero essercene altri"
"Quando la Madre Notte li manderà vedremo cosa fare, per ora, dobbiamo uscire da Whiterun senza essere visti e conosco un solo modo"
Sathya salì sul letto e raggiunse la finestra che dava sul tetto. Hogar, un po' perplesso, capì che anche lui doveva uscire da lì.
Le nuvole, al calare della notte, si erano lentamente diradate, e una luna rossa splendeva alta nel cielo. Nessuno si era accorto di loro.
Scesero sul retro della locanda mentre da dentro il fracasso della variegata clientela continuava senza sosta, e percorsero il muro di cinta della città, superando di slancio massi e aiuole di fiori rossi e Lingue di Drago. Si arrampicarono lungo la barriera est per arrivare direttamente a Jorrvaskr. Sathya era agile e non fece nessuna fatica ad arrivare alla palizzata che proteggeva la casa lunga dei Compagni, mentre Hogar, al contrario, faceva fatica a starle dietro. Superata la palizzata giunsero all'entrata posteriore, che dava sul porticato e il piazzale d'addestramento.
Sathya poggiò l'orecchio per sentire se c'era qualcuno.
"Il lupo perde il pelo ma non il vizio"
Commentò qualcuno con tono mellifluo.
Sathya, riconobbe subito la voce, e fermò l'Orco che, di slancio, non vedendo nessuno e col terrore di dover affrontare un altro assassino della Confraternita, aveva messo mano allo spadone.
"Keiko"
Il Kajiiti emerse dalle ombre del portico mangiucchiando una mela verde.
"Cosa ci fai qui, Sathya, e chi è il tuo amico?" il suo tono era inequivocabilmente serio.
"Non è mio amico. Dobbiamo uscire dalla città senza farci vedere dalle guardie" Keiko squadrò l'Orco e si prese qualche secondo per riflettere.
"Ho appena ucciso un sicario della Confraternita, amico mio. Sai benissimo che ne manderanno altri. Devo andarmene o mi uccideranno. Ti prego aiutami, Keiko" Il Kajiiti diede un altro morso alla mela. Il suo sguardo indugiò ancora per qualche secondo sulla ragazza dai capelli argentati.
"In qualità di Precursore dovrei farti arrestare dalle Guardie imperiali per omicidio" sentenziò il Kajiiti in un sussurro. Sathya si tolse il cappuccio e allungò i polsi verso Keiko. Gli occhi dorati del Kajiiti incontrarono quelli azzurro cielo della donna Nord. Per diversi secondi nessuno disse nulla.
Keiko, infine, gettò il resto della mela e si avviò verso la Forgia Terrena. Li fece entrare, assicurandosi che nessuno vedesse. Una volta dentro, fermò lo slancio di Sathya afferrandola per un braccio. Keiko era un Kajiiti giovane e forte, nato e vissuto a Skyrim, e il suo sguardo era ancora vigile e attento, e ora la inchiodava e la metteva in soggezione, come aveva sempre fatto quando vagavano per i feudi assieme, in cerca di draghi da uccidere.
"Dimmi cosa succede Sathya. Da quanto tempo sei tornata?"
"Non sono tornata, mi stavo nascondendo da un amico, ma sarei ripartita a breve. Ancora non so cosa stia succedendo, mi ha cercato lui"
"Non sai nemmeno perché state scappando?" Sathya non rispose, a malapena riusciva a guardarlo. Il Kajiiti sganciò un pugnale dalla schiena e glielo porse. Era un'arma stupenda. Il fodero di cuoio era intarsiato in filo d'oro, e riportava una scritta e il simbolo di Elswyre, la lama lucente forgiata dalla Pietra Lunare. Si guardarono a lungo prima di ripartire, ma nessuno dei due riuscì a dire nulla.
Attraversarono la camera con l'altare di sangue, distrutto e reso inagibile proprio da Keiko, e poi, attraverso le caverne, giunsero all'uscita, sul lato Nord della rocca su cui sorgeva Dragonreach. Il percorso all'interno della montagna finiva su una parete di granito liscia, troppo alta per appendersi, troppo scivolosa per aggrapparsi. Appena arrivati, Keiko si parò di fronte all'Orco. Era stranamente prestante per essere un Kajiiti, e, anche a causa del suo pelo rossiccio, più che un Kajiti aveva l'aspetto di un Denti a Sciabola.
"Oggi ti ho salvato la vita, figlio di Malacath, se mai ti capitasse di rivelare a qualcuno l'esistenza di questo passaggio, qualsiasi siano le tue motivazioni, verrò a riprendermela, ci siamo capiti?"
"Ci conto" grugnì l'Orco battendosi il pugno sul cuore prima di saltare giù.
Sathya si prese qualche secondo per salutare il vecchio amico, ma le mancavano le parole.
"Sathya... perché stai aiutando quest'Orco?"
"Perché è in pericolo"
"E tu non sei una sacerdotessa di Kynareth. Allora, vuoi trattarmi come un adulto almeno?"
La ragazza non rispose. Lo sguardo indugiò lontano, alle praterie a Nord, e Keiko ebbe la conferma dei suoi timori.
"Ancora con questa storia, Sathya?"
"Se tu credi di avere trovato uno scopo nella tua vita a Jorvaskr bene, io devo inseguire ciò in cui credo, e se scorgo un segno, devo verificarne il significato. Ti ricordi? Come facevamo anni fa, assieme"
"E per cosa? Questo tuo modo di vivere ha attirato su di te il marchio della Madre Notte, ha reso la tua vita miserabile. Perché non vuoi arrenderti all'evidenza, Sathya. E' finita"
"Non è mai finita, Precursore, non bisogna mai arrendersi, anche se la posta in palio sembra assurda, come un Kajiiti che diventa il capo di una banda di Lupi Mannari. Tu dovresti saperlo meglio di chiunque" lo disse puntandogli il dito sul petto. Keiko aveva scalato i ranghi di Jorrvaskr in nome di qualcosa in cui credeva, in nome di un onore che voleva riguadagnare.
"Su una cosa ti sbagli. Non l'ho fatto per lui, Sathya, l'ho fatto per me, è diverso. Guardati santo cielo, sei pelle e ossa, hai un aspetto terribile, si vede che stai soffrendo. Fatti anche tu un favore – continuò guardando di sbieco l'Orco, che osservava le campagne fuori Whiterun illuminate dal chiarore della Luna – Lascia perdere i miti e le leggende, ti faranno solo ammazzare"
Sathya allungò una mano, accarezzando il suo viso e il suo manto folto. I suoi occhi felini, al buio, si accendevano, mandando riflessi verdi e azzurri, come facce lisce di un diamante. Appoggiò la guancia sulla sua, e rimasero così per qualche secondo.
"Mi spiace, non posso" sussurrò Sathya, prima di dargli un bacio leggero sulla guancia e saltare giù.
La Nord e l'Orco risalirono le campagne, costeggiando le fattorie, in direzione Ovest. Raggiunta la vecchia Torre d'Osservazione, sguainarono le spade e, con prudenza e orecchie aperte, risalirono le scale consumate dal tempo e dall'antico fuoco del drago. Un rifugio di fortuna di qualche bandito faceva polvere in un angolo, qualche boccale di ferro si copriva di ruggine, ma la Torre era vuota. Con delle assi di fortuna sbarrarono la porta e allestirono sul mezzanino un giaciglio e un piccolo fuoco per riscaldarsi.
"Allora – cominciò Sathya – informazioni. Chi era il vostro committente?"
Hogar, rintuzzando il fuoco, per la prima volta da giorni riuscì a rilassarsi.
"Non lo so. Siamo stati tutti ingaggiati da un cacciatore di taglie di Solitude di nome Merilius, l'ho visto solo una volta, a Rorickstead. Un tipo anziano, robusto, un Bretone"
"Se l'hai visto perché dici che non lo sai?" Hogar ci pensò qualche istante.
"Perché ho avuto una brutta sensazione, fin dall'inizio. Faccio il mercenario da troppo tempo ormai per non accorgermi di certi particolari. Il Bretone era convincente e la paga era buona, troppo buona, mille Septim a testa per recuperare uno scettro da una tomba. Oltre a me c'era un argoniano e cinque banditi. Chi pagherebbe settemila Septim per un bastone? Non un Bretone, questo è sicuro"
"Il vero committente aveva mandato un intermediario"
"Non solo. Se paghi settemila Spetim è perché hai bisogno di professionisti che ti garantiscano risultati. I banditi non sono esattamente dei saccheggiatori di tombe professionisti, sono feccia, ladri di bassa lega che vivono come selvaggi dove capita e rubano dalle tasche dei viandanti. L'argoniano non ha fatto altro che bere Skooma e parlare di quanto gli manchi casa sua da quando siamo partiti. Qualcosa mi puzzava. Sei sbandati per una missione così?" Sathya cominciava a vederci un po' più chiaro e, probabilmente, aveva fatto bene a seguire l'Orco.
"Perché hai accettato se la cosa non ti convinceva?"
"Semplice. I nobili di Cyrodill vanno matti per le cianfrusaglie nascoste nelle tombe dei Nord, le mettono in salotto sopra il camino come se fossero loro. Poteva essere anche tutto vero, per quanto suonasse assurdo. Con la guerra i mercenari migliori sono stati tutti assoldati dall'Impero. Una volta recuperato lo scettro e incassato la paga avrei ucciso gli altri e avrei preso loro i soldi" Sathya avrebbe voluto dire qualcosa a riguardo, ma, visto il suo passato, si tenne le sue obiezioni.
"Quindi – continuò l'Orco – l'assassino era lì per te" lo disse più per fare pace con la sua anima che per informarsi sulla questione.
"Si. Sapendo che mi stavi cercando deve averti seguito per arrivare a me"
Sathya si alzò in piedi, con l'evidente intento di non dare un seguito a quella discussione.
"Vado a fare il primo turno di guardia. Ti verrò a svegliare tra qualche ora. Domani recupereremo due cavalli e partiremo per Rorickstead in cerca del Bretone" non rimase a sentire le eventuali domande dell'Orco e risalì gli ultimi gradini fino alla cima della torre.
Una volta sola, seduta accanto ai merli diroccati, si avvolse nel mantello di pelle. L'aria sapeva di pioggia, anche se nel cielo brillavano le stelle del firmamento. Una nuova pista da seguire, una nuova speranza.
Il barrito di un Mammuth attirò la sua attenzione.
Lontano, a Sud, bruciava una delle enormi pire di un gigante, esseri solitari, vecchi come le rocce che avevano attorno, dimentichi di chi erano e di quale fosse il loro scopo sulla terra. Che fosse quello, infine, il destino delle Blade? Essere dimenticate da una storia che a malapena aveva sentito parlare di loro?
Delphine aveva lasciato loro un incarico importante, ma cos'erano loro se non gregarie?
"Dove sei?" sussurrava Sathya, come fosse una litania, un mantra che le desse la forza di andare avanti.
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