24 - Trauma

Il viaggio della mongolfiera è come il viaggio della vita: è il vento che conduce, si sa da dove si parte, ma non dove si arriva.

Si conosce il luogo del distacco dalla terra, ma non dove la riabbracceremo.

Ma atterreremo certamente da qualche parte: in un luogo inaspettato, forse un po' impervio,

forse inusuale, forse non ben raggiungibile.

Dove non c'erano programmi che ci avrebbero condotto là,

dove non c'erano cartine
che spiegavano la via.

(Anonimo)

Lucy

«Lo psicologo vorrebbe rivederti» mi dice mia madre, una volta dimessa.

«Perché?»

«Perché reputa sia il caso, dopo gli ultimi avvenimenti.»

Non ne ho molta voglia, sono ancora scombussolata e mi serve del tempo per riprendermi, soprattutto psicologicamente. Ma alla fine ho poca scelta, quindi vado.

Ed eccomi alla solita seduta, sdraiata sul lettino di pelle bianco. Il dottore si accomoda vicino a me e inizia il suo rituale pre-ipnosi. Dopo un attimo, inizia.

«Ti trovi a casa di un'amica e lei ti mostra la sua biblioteca; ci sono scale in legno con corrimano laccati d'oro. Gli scaffali sono ovunque. Sembra di trovarti nel castello de La Bella e la Bestia. I libri ti circondano, ti avvolgono, così come il loro profumo. La tua amica ti prende per mano e ti porta nel suo giardino: un prato enorme si estende davanti ai vostri piedi. Corri, salti, fai capriole. Ti senti libera.

Hot air balloon - Don Diablo

We gon' fly to the moon

In my hot air balloon, tonight

We gon' sit on the roof. In my hot air balloon, tonight

C'è una mongolfiera, pronta per la partenza. Il candelotto è acceso, quindi sali su di essa e ti chiudi la porticina del mezzo alle spalle. Ti rendi conto solo dopo che il pallone aerostatico è ancorato con delle funi al terreno. Ma dentro il cesto c'è un'ascia; la prendi e tagli le corde: plop, plop, plop; si tranciano di netto. Ed è così che inizi a librarti in cielo. L'aria ti attraversa i capelli, le narici, fa muovere le tue ciglia, e tutto in quel momento ti fa sentire viva e libera. Urli al cielo, al vento, all'universo: un ululato di pura gioia. Da lassù puoi vedere verdi distese di prati e boschi, un campo di papaveri rossi che insanguinano la natura, osservi un fiume scorrere e affluire in un lago, attraverso una cascata il cui suono dell'acqua scrosciante giunge fino alle tue orecchie; diminuisci man mano la fiamma e scendi, scendi, scendi, mentre nel contempo torni piano piano sveglia e cosciente fino ad aprire gli occhi.»

Spalanco le palpebre e fisso il mio dottore; schiudo le labbra, prendo un veloce respiro e lui interrompe quel rito con un: «Dimmi», intrinseco di pace e serenità.

«Credo di aver avuto dei flashback...»

«Riguardo cosa?»

«È un ricordo molto lontano, di quando ero bambina.»

«Spiegati, Lucy.»

«Ricordo la macchina rossa di mio zio. Eravamo a bordo e stavamo litigando; ero arrabbiata perché secondo lui al saggio di pianoforte non ero stata degna della mia famiglia per aver fatto due o tre errori. Ero così fuori di me, che diedi una spinta al volante e lui non riuscì a tenere sotto controllo il mezzo. Purtroppo un bambino, proprio in quel frangente di secondo, era corso via dalla madre, che non era riuscita a tenerlo a bada. Lo colpimmo con l'auto. Ricordo il tonfo sordo.» Deglutisco a fatica perché la mia gola è secca. «Fu una morte veloce, almeno così mi dissero, non credo abbia sofferto. Si chiamava James. La madre era disperata e quando arrivarono i soccorsi non ci fu più niente da fare, se n'era già andato. Non fummo incolpati, perché non lo investimmo sulle strisce pedonali e perché il bambino era comparso velocemente e dal nulla; troppo piccolo per essere visto, troppo giovane per morire. Il senso di colpa era tale da sentirmi morire io stessa; faceva male quella colpa, un male atroce.» Mi porto la mano sul cuore, dove avverto la stessa fitta di dolore.

«Ed ecco che abbiamo la motivazione della tua scissione.»

Nash esce il giorno dopo dall'intensiva, e vado subito a trovarlo con Markus e Karin. Ci riuniamo tutti insieme nella sua camera; vicino a lui dormono altri due pazienti uomini: il signor Williams, un cinquantenne che ha perso la gamba durante un incidente, e il giovane Cinder, un quattordicenne ricoperto di acne, che è stato operato all'appendicite.

Nash dorme, ancora debole, ma gli infermieri, sotto direttiva dei medici, stanno diminuendo i farmaci e piano piano dovrebbe tornare completamente lucido.

Un giorno d'inizio maggio le sue palpebre iniziano a vibrare e si sollevano lentamente, anche se alterna ancora fasi in cui è incosciente ad altre in cui è vigile. Non parla; per lo più pone domande scrivendo su dei foglietti o sul cellulare, e risponde allo stesso modo.

Una mattina, a scuola, Markus mi si avvicina durante l'ora di ricreazione. «Nash, ieri ha chiesto di te. Riesce a parlare», mi dice con un sorriso.

Spalanco gli occhi, stupita. «E cosa gli hai detto?»

«Che eri andata a studiare da Karin, la verità» afferma lui con un'alzata di spalle.

«Come sta?»

«Debole; ma si riprenderà, vedrai. Nash è forte.»

Annuisco, sperando con tutta me stessa che abbia ragione. «Oggi vado a trovarlo» asserisco, puntando lo sguardo su di lui.

«Fai bene, Lucy. Ha bisogno di vederti, gli darai la forza che gli serve per farcela.»

«Ci sono e ci sarò sempre per lui» rispondo, con gli occhi quasi lucidi.

«Lo so, e lui farebbe lo stesso per te.» Markus mi dà una leggera pacca sulla spalla e poi sparisce nel mare di studenti che tornano in classe.

Lo stesso pomeriggio vado da lui. Esco di casa con un libro scolastico di filosofia e, arrivata all'ospedale, mi dirigo spedita agli ascensori; una volta sentito il campanello, le porte si chiudono e spingo il bottoncino che porta al terzo piano. Al secondo c'è una prenotazione di salita ed entra una ragazza bionda di circa venticinque anni: ha i capelli legati in una coda, delle décolleté nere e dei jeans skinny bianchi. Un top rosa cipria le lascia le spalle e la pancia scoperte.

Ma guarda se è modo di vestirsi per andare in un ospedale! Alzo gli occhi al cielo, premuta nel mio angolino dell'ascensore, senza che lei possa vedermi. Forse non ha avuto tempo di cambiarsi... A ogni modo, ha un buonissimo profumo.

Arrivata al mio piano, esco da lì e mi dirigo alla stanza; do un colpo leggero alla porta ed entro.

Nash è sveglio e sta guardando fuori dalla finestra con aria disinteressata e distaccata, come se si trovasse in un mondo parallelo. Non mi ha sentita bussare.

Mi avvicino a lui; è rivolto con le spalle alla porta quindi non può vedermi. È seduto sul letto e si tiene la mano sulla pancia, là dove è fasciato. Mi si stringe il cuore a vederlo ancora tutto bendato e il ricordo di quello che è avvenuto mi assale per un attimo.

Poggio una mano sulla sua spalla e chiedo dolcemente, per non spaventarlo: «Fa ancora male?»

Lui si gira di scatto verso di me, mi guarda e sulle labbra si apre un enorme sorriso, contornato da due occhi celestiali e brillanti, quelli di cui da sempre sono innamorata.

«Un po'» risponde, «ma se ci sei tu, il dolore si affievolisce.» Mi accarezza la mano che tengo ancora sulla sua spalla e mi fa un occhiolino. Si finge in forze, nonostante il viso mostri ancora la sua debolezza fisica.

«Nash, mi sono preoccupata così tanto...» sospiro, afflitta.

«Lo so, e mi dispiace.»

Nash

Allargo le braccia, perché desidero stringerla a me. Lei si avvicina, insicura, e posando la testa sul mio petto si scioglie nel mio abbraccio. Percepisco il suo cuore battere con estrema velocità. Si sta forse emozionando?

Poggio il mento sul suo capo e chiudo gli occhi. Inspiro il profumo che emanano i suoi capelli e mi lascio avvolgere da quella fragranza primaverile. Sa di fiori e di... Lucy. Il mio diamante.

«Scusami per non essere tornata prima. Immagino che mentre eri in coma tu non abbia sentito la mia presenza...»

«No, ma ho saputo da Markus che spesso eri qui con me a tenermi la mano» affermo con dolcezza.

«Sì, tutti i giorni, ma poi ho smesso di venire perché la paura di non vederti sveglio mi stava distruggendo di giorno in giorno. Ero terrorizzata, e la speranza stava morendo piano piano.» Ha la voce roca, sta per piangere.

«Non sono morto, Lucy, non ancora» le sorrido, per darle forza.

«Lo so...» Non riesce a trattenere le lacrime, perché dopo poco scoppia in singhiozzi irrefrenabili.

Le accarezzo la testa; mi fa male vederla così triste. «Mi dispiace, Lucy. Ti prego, non sentirti in colpa per non essere più venuta; lo capisco, ti capisco.»

«Pensavo di averti perso» afferma, continuando a piangere; le parole le muoiono sulle labbra. «Non avrei mai potuto sopportarlo. Io senza te...»

«Shhh» le poso l'indice sulle labbra

«Non dirlo neanche per scherzo, Lucy, sei bella e forte, rimarresti una ragazza stupenda anche senza di me, perché sei un diamante e una stella, tu sei Lucy» scrolla la testa.

«Sarei una stella spenta...come te»

«Ma siamo entrambi vivi e possiamo illuminarci a vicenda»

Alza il viso verso di me e leggo nei suoi occhi tutto il dolore che prova, ma anche qualcosa che somiglia al sollievo.

È felice di vedermi sveglio.

«Mi sei mancato così tanto» sorride debolmente tra le lacrime.

Buio.

Malek

Luce.

«Moon, perché piangi?» Sono in un dannato letto d'ospedale, ma sono ancora vivo. E Moon sta bene, sospiro.

«Nash, ora smetterò, dammi solo del tempo.» Alza gli occhi, incastrandoli nei miei.

Capisco all'istante che quella che sto guardando non è la ragazza che credo che sia. Lei non è la mia luna argentata, è Lucy.

Ma mentre i nostri sguardi sono incastrati insieme, lei sbatte le palpebre una volta e vedo esattamente l'istante in cui la sua espressione cambia.

Sta tornando da me...

Moon

Luce.

«Malek? Sei sveglio!» Ho le guance rigate di lacrime.

«Sì e tu sei bellissima, stupidina. Pensavi veramente che non sarei più tornato da te?» dice con tono ironico.

«Sì, mi sono spaventata a morte» rispondo senza sarcasmo.

Non ha idea di che giorni d'inferno ho dovuto sopportare.

Malek

È davvero tesa... «Tra due settimane è il tuo compleanno!» le dico, per stemperare la tensione. «Sai già come festeggiare? Perché sei consapevole, vero, che per quel giorno sarò uscito di qui!»

«Non credo farò niente, non c'è nulla di cui gioire...» risponde Moon, torcendosi le mani.

«Come no? La mia liberazione!» le faccio una linguaccia.

«Be', non è la stessa cosa di un compleanno.»

«Si fanno diciannove anni solo una volta nella vita! Dai, non farti pregare.»

Mi fulmina con gli occhi. «Non cambierà niente, sarò comunque la stessa ragazza del giorno prima, ma più vecchia. Se ci pensi, è anche stupido festeggiare una cosa del genere.»

«Sei senza speranze...» roteo gli occhi.

«Avevi delle idee?»

«Pensavo di sì, ma dopo ciò che hai detto credo proprio che non te ne rivelerò nemmeno mezza.»

Sbuffa, alzando gli occhi al cielo.

«Un anno fa neanche ci conoscevamo, e adesso sei la mia ragazza» continuo. «Una fidanzata che tra poco avrà l'età per comprare una pistola. Emozionante, no?»

Mi guarda, seria. «No, per niente.»

«Dai, tsei già più che maggiorenne in Europa e tra un anno ti mancherà poco per esserlo anche qua!! Potrai bere!»

«Ma che m'importa! Malek, forse non ti rendi conto: sono stata quasi violentata e tu quasi ucciso!» Ha i pugni chiusi in grembo che le tremano per la rabbia e la frustrazione.

«Ma ora siamo qui. Siamo vivi, cazzo!» Mi passo la mano tra i capelli. Capisco che è ancora scombussolata, ma vorrei poter fare qualcosa. Non vuole farsi aiutare da me.

«Va bene. Ora io... torno a casa. Altrimenti chi ti porta gli appunti di scuola?»

Sta scappando...

«Posso passare del tempo con te?» le chiedo, posando una mano sulle sue ancora chiuse.

La vedo sobbalzare. «Non lo stai già facendo?»

«Tu non sei qui... la tua mente è altrove. Ti conosco, Moon» dico, con il cuore in frantumi.

«Mi dispiace, non riesco a liberarmi dal pensiero degli ultimi giorni, ed è... da ieri che mi sento strana...» si scusa.

Stringo un po' di più la presa e lei alza gli occhi su di me. Sono qui per te, vorrei urlarle, ma non so se vuole sentirselo dire, quindi cerco di comunicarle tutto il mio amore attraverso il mio sguardo.

Ce la caveremo.

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