1 Scuola
"Le amnesie, quelle che ti fanno dimenticare
gli unici occhi che sanno guardarti davvero."
- Comeprincipe, Twitter -
Where is my mind? - Pixies
But there's nothing in it
And you'll ask yourself
Where is my mind?
Detroit nel Nord America
LUCY
Luce.
Dove diavolo mi trovo? Batto piano le palpebre, incredula e il fiato mi si incastra in gola; il cuore pulsa freneticamente nel torace, in un vortice di ansia e paura. Sono impazzita? Sto sognando?
Mi tocco le guance con angoscia, cercando di svegliarmi e mi pizzico la pelle del braccio sinistro con il pollice e l'indice destro, stringo i denti fino a sentirli stridere e il mio cuore è in tumulto.
Mi guardo attorno spaesata e noto che di fronte a me c'è una grande lavagna con scritte delle parole in francese, come théâtre de Molière, teatro di Molière, critique sociale, critica sociale e Louis XIV, Luigi XIV e sono seduta su una sedia di legno a un banco beige con i piedi in metallo neri, altri nella stanza sono verdi sul ripiano. Sopra le mie gambe accavallate percepisco uno scompartimento in legno e mettendoci le mani, sento altri libri e quaderni. Proprio a nord di quella che ha tutta l'aria di essere un'aula scolastica, al centro si trova una cattedra con la lastra superiore verde, alla quale è seduta una donna con la camicia celeste in seta con i bottoni bianchi e gli occhiali da vista dello stesso colore e con le stanghette laccate d'argento, legate a una catenella in metallo grigia. Alle mie spalle, sul muro, c'è un appendiabiti in legno marrone chiaro e le grucce rosse e gialle alternate. La signora, sulla quarantina, ha i capelli biondi ben sistemati in una crocchia sulla testa. Un velo di matita azzurra le disegna gli occhi e del rimmel allunga le ciglia naturalmente corte; del rossetto color pesca colora le sue labbra carnose. Sta parlando in francese: «Tournez à la page soixante-et-un» scrive il numero alla lavagna con il gessetto.
«Girate a pagina sessantuno»
Non sento più nulla, le voci delle persone mi arrivano tremendamente ovattate, come abbia dei tappi nelle orecchie; tutto risulta così confuso come non fosse messo a fuoco. Sento pulsare il sangue nelle orecchie e sto sudando freddo. Mi asciugo la fronte con la mano, ho la sensazione orribile di avere la febbre, ma sentendo il calore della pelle, capisco di non averne affatto.
Tutti i ragazzi e le ragazze seduti attorno a me, che hanno, credo, la mia stessa età, alcuni dei quali penso di riconoscere, sono accomodati anche loro a dei banchi alcuni dei quali dello stesso colore del mio e voltano le pagine con velocità, chi leccandosi le dita con un po' di saliva e chi saltando intere serie di fogli. Abbasso lo sguardo e vedo che le mie mani si trovano poggiate su un libro, un tomo spesso; la copertina dice: "Littérature française", "Letteratura francese"scritto in stampatello in arancione su uno sfondo bianco dove al centro si trova stampata una vistosa Tour Eiffel grigia.
All'improvviso, torno presente a me stessa. Ok, sono a scuola, pensavo di sognare, ma è tutto reale.
Una ragazza dai capelli color carota e gli occhi come smeraldi, Karin, mi sta fissando dal banco di fronte al mio e, voltandosi del tutto con la testa, mi bisbiglia accigliata: «Allora?» Aprendo le braccia con sconforto. Gonfia le guance, sbuffando innervosita e scuote il capo con disappunto.
«C-cosa?», balbetto, perché non riesco a tirare fuori neanche un filo di voce: ho un groppo alla gola, le corde vocali sono gelate in un cubetto di ghiaccio e non riescono a vibrare. Lei increspa la fronte e mi fissa di traverso, mentre io continuo a non riuscire a respirare. Mi agito e lei se ne accorge, è in quel momento che le sue labbra si distendono in un sorriso e quel gesto mi scalda il cuore.
«Lucy, ti ho appena fatto una domanda! Mi hai ascoltata?» aggrotta le sopracciglia, innervosita dalla mia disattenzione.
«Che domanda?» Mi gratto la fronte con imbarazzo; sono nel panico più totale e ho il fiato corto
«Dio mio, certo che sei proprio tra le nuvole...», sbuffa alzando di un tono la voce.
La professoressa se ne accorge. «Ehm, ehm», si schiarisce la voce, per farci capire che stiamo dando fastidio alla lezione, tiene le mani sui fianchi con disappunto, poi incrocia le braccia al petto e batte il piede a terra irritata, questo è avvolto da una scarpa ballerina nera con il tacco a pianta larga. Stiamo disturbando.
Karin si volta nella sua direzione e biascicando un: «Ci scusi», comincia a far finta di ascoltarla con interesse, scrivendo di tanto in tanto qualche appunto su un quaderno, e ignorandomi. Scrivo "Scusami" su un foglio, le do un piccolo colpo con il piede sulla sedia per farla voltare e legge ciò che ho scritto, si mette a ridere.
«M-mi dispiace, non ti ho sentita bene, puoi ripetere la domanda, per favore?» Farfuglio e mi passo l'indice sulla palpebra destra come per schiarire la vista e mettere a fuoco.
Si rigira verso di me e, senza trattenersi, scandisce bene le lettere delle parole pronunciandole in modo plateale e con un'impeccabile dizione, come se io fossi sorda: «Vieni stasera al cinema?»
«Ok, certo che vengo... oggi è-è...»
«Sabato 27 marzo, sì, ma dove vivi? Prontooo?!» Adesso è senza ombra di dubbio nervosa, non riesce a nasconderlo più, forse pensa che la stia prendendo in giro.
Perché non ricordo niente di questa mattina? Forse è meglio controllare che abbia preso appunti nelle ore di lezione precedenti, così saprò almeno di essere stata presente a scuola.
Non lo faccio perché mi preoccupo di essere una studentessa modello, ma solo per rendermi conto se sia rimasta in questo edificio tutta la mattina. Sono le dieci adesso, vedo l'orario segnato dalle lancette nell'orologio appeso al muro di fronte a me. Ho un vuoto di memoria di dodici ore. Non mi ricordo neanche di essermi svegliata. È assurdo. Sono davvero impazzita?
Apro lo zaino e guardo dentro, e per fortuna trovo il quaderno che cercavo. Lo riconosco bene, perché è bianco e sulla copertina ci sono delle stelle con al centro il simbolo dell'infinito, un otto orizzontale.
L'ho comprato proprio per quello! Lo prendo e lo sfoglio, beandomi alla vista della mia bella grafia. Evviva la modestia!
In capo alla prima pagina c'è scritta la data di oggi, 27 marzo, e sotto gli appunti di matematica, poi di scienze. Ho annotato tutto, perché non me lo ricordo? Sono stata a scuola, quindi...
Inizio ad agitarmi e a muovermi spasmodicamente sulla sedia, senza trovare pace. Devo uscire da qui! Prendere una boccata d'aria fresca e sciacquarmi il viso con un po' d'acqua fredda. Alzo la mano, tremante. Il mio respiro accelera.
La professoressa, che sta segnando alla lavagna le tematiche principali delle commedie di Molière, si gira e mi guarda, abbassandosi gli occhiali da vista sul naso.
«Sì, signorina Laiden?»
«Posso... andare al bagno?» Ho la voce fievole, balbetto già da un po', da quando sono "tornata in vita e mi sono risvegliata". Ma che sto dicendo?!
Non ho più sotto controllo la situazione.
«Sì, ma si sbrighi!» afferma lei con durezza; non ama essere stata interrotta nel bel mezzo della lezione, lo si legge negli occhi pieni di astio e il tono alto della voce.
Non lo avrei fatto se non fossi spaventata a morte dalla situazione. L'ansia mi sta mangiando viva, mi sento smarrita. Cosa mi sta succedendo?
«Grazie. Non ci metterò molto, professoressa Blanche! Promesso!» So come si chiama! mi stupisco. Perché ricordo il suo nome, ma non di essermi svegliata stamani?
Uscita dalla classe di letteratura francese, mi dirigo con sicurezza a destra del corridoio, vado prima al mio armadietto e inserisco il codice 4268, prendo la bottiglia d'acqua e ne bevo qualche sorso, mi sento già meglio per fortuna. Lorichiudo sentendo un "clac" e, proseguendo dritta, svolto a sinistra ed entro nel bagno delle donne, oltrepassando una porta in resina laccata di arancione con la maniglia nera.
Mi dirigo subito al lavandino, non devo fare pipì, ma solo mettere le mani sotto il getto d'acqua; apro il rubinetto e le pongo sotto il flusso del liquido trasparente freddo; ne raccolgo un po' racchiudendolo nelle mani a cucchiaio, avvicino il viso a esse e il fluido si spande sulla mia pelle. Mi risveglia del tutto. Per un istante mi manca il fiato, poi prendo un profondo respiro e cerco di tranquillizzarmi; mi asciugo il viso con la manica del maglione rosa a fiori che indosso.
Mia madre e Karin dicono che mi vesto come un'ottantenne e forse hanno ragione... So che non si dovrebbe fare, asciugarsi sulla manica intendo, è maleducazione, ma nessuno mi vede e quindi non m'importa, farò uno strappo alla regola.
Mi guardo allo specchio, mi riconosco, so chi sono, non ho perso il senno. Sono Lucy Laiden, diciotto anni, lettrice accanita, amante della musica, dei romanzi fantasy, e innamorata di Nash Rainbow fin da bambina.
Esco dal bagno e mi ritrovo sul corridoio, di fronte a una grande finestra ad arco con doppie vetrate. Mi fermo alla macchinetta del caffè, infilo la mano in tasca in cerca di qualche spicciolo. Trovo prima una sigaretta e aggrotto le sopracciglia.
Ma io non fumo! Sarà di qualcun altro... ma perché è nella mia tasca? Un'altra domanda irrisolta. Tutto mi confonde, non ci sto capendo più niente.
Continuo a cercare, e scovo un gettone da cinquanta centesimi di dollaro; è abbastanza per prendere un caffè. Infilo la moneta nel distributore, pigio il dito sul bottone che indica la scritta "espresso", e ascolto il rumore del resto che cade nello scompartimento di metallo: due pezzi da dieci centesimi.
Lo prendo e lo infilo nella stessa tasca del mio jeans lilla, sento scendere il bicchiere di plastica, poi il fluire del liquido che lo riempie. Il profumo mi inebria; il rumore di quel macchinario è forte, mi dà quasi fastidio, perché mi rimbomba nelle orecchie e mi sta facendo venire mal di testa. Adesso che faccio attenzione al mio corpo, ho piuttosto un'emicrania.
L'odore del caffè macinato mi riscuote come una doccia fredda, ma al contrario è così piacevole da farmi sentire subito meglio.
È lo stesso effetto che mi fa la nicotina, mi viene da pensare all'improvviso, senza rendermene conto, ma poi torno in me: Io non fumo! Deglutisco, abbassando lo sguardo sul filtro e la parte restante dell'involucro di carta del tabacco per metà già fumato.
Adesso il dolore alla testa sta peggiorando, sento come uno scalpitare nel cranio, di sicuro è per via della confusione che ho nella mente. Una volta preso il bicchierino di plastica colorato da cima a fondo di marrone, mi siedo su una sedia al lato della corsia e sorseggio la bevanda calda.
Mi devo sbrigare, l'insegnante si arrabbierà se non torno presto. Spero non mi veda nessun professore girovagare per la scuola. Mi alzo con uno scatto e mi dirigo a passo spedito verso la classe; la bidella che incontro lungo il tragitto mi sorride in modo affabile. Si chiama Maria, come mia madre; è una donna italiana di mezza età molto dolce e simpatica, di lei ci si può fidare. Ogni tanto le parlo di Nash e della cotta che ho per lui. Dopo Karin potrei quasi definirla la mia seconda confidente preferita. Ho poche persone nella vita delle quali mi fido, lei è una di queste.
«Ciao, Lucy! Come va?» mi saluta lei, allegra; sembra essere di buon umore, come sempre d'altronde. Non l'ho mai vista portare un broncio o occhi tristi. Sembra essere sempre felice, ma magari indossa solo una maschera.
«Potrebbe andare meglio...» Rispondono sincerità, guardando il pavimento.
«Che succede, bellezza?» È preoccupata per me, glielo leggo negli occhi, ma non posso dirle la verità. Mi crederebbe pazza; mi posa una mano sulla spalla e mi fa un occhiolino.
«Solite cose... la vita» mento con un finto sorrisetto, nascondendo le braccia dietro al corpo e dondolandomi sui piedi.
«Ti capisco, ragazza.» Mi riserva un debole sorriso, alzando le spalle, come per dire "Non ci si può fare nulla"
La saluto con la mano aperta e alzata, prendo un altro sorso di caffè e mi trascino in avanti, svogliata, passando l'indice in cerchio sul bordo del bicchiere. Se fosse stato di vetro e avessi avuto dell'acqua sulle dita, avrei potuto fare della musica. Ci avevo provato da bambina con mia nonna e aveva funzionato. Lei mi faceva sempre esperire cose nuove.
Buio.
NASH
Luce.
Sto percorrendo un corridoio verso una meta che non ricordo, so solo che mi sto spostando con movimenti lenti e cadenzati; Si sentono i miei passi pesanti sul pavimento piastrellato con le mie converse nere ai piedi, che non ricordo neanche di aver indossato. Amnesia! Accidenti! L'ennesima...
Analizzo l'ambiente, guardandomi attorno: ci sono delle porte su due lunghi corridoi perpendicolari che all'inizio delle scale, si congiungono. Accanto a ognuna di queste c'è una targa dorata con scritto un numero e una lettera dell'alfabeto. 3-C, 3-B, 1-A. I muri sono bianchi con delle greche a tinta unita arancione vicino al soffitto; a ogni lato del corridoio sono appesi dei disegni fatti da alcuni studenti, mi avvicino a uno che mostra un ragazzo intento a giocare a basket con la sua divisa e alle spalle il numero sei stampato insieme al suo cognome "Jones" e sotto al dipinto su una targhetta, è riportato il nome della persona disegnata: Markus Jones e dell'artista: Karin Jefferson. Il giocatore è il mio migliore amico! Per lo meno ricordo il suo nome sorrido dentro di me. All'improvviso non rido più perché i pensieri si fanno largo nella mia mente.
Sono in una scuola, Perché sono fuori dalla classe? E perché non ho ricordi di cosa stavo facendo poco fa? Riconosco il luogo però, ci sono già stato.
Tutto prende posto nella mia mente. Là c'è la sala computer, di sotto, nei sotterranei, si va in palestra, percorrendo delle scale per tre lunghi piani. Mi dirigo appunto verso di esse, per arrivare ai piani inferiori, a passo svelto e con lunghe falcate, come non voglia perdere un treno che in realtà non devo prendere.
Se questa è la mia scuola, perché io non sono a lezione e in classe, allora?
Sento il familiare rumore di una porta cigolante, che viene aperta e chiusa, e mi guardo indietro per controllare; ed è così che avviene la collisione. Una collisione durata troppo a lungo per non darle importanza.
Mi scontro con una ragazza, forse della mia età; è carina, ha i capelli castani lisci e lunghi fino a metà schiena. Quanto vorrei toccarli... penso all'istante, scrollo la testa e subito capisco di conoscerla. Ha gli occhi azzurri, quelle iridi mi ubriacano ogni volta; è molto più bassa di me, di almeno venti centimetri. I pantaloni le fasciano i fianchi in delle sinuose curve femminili; ha un bel corpo, ma in questo momento sembra diversa dalla ragazza che so di conoscere, non sembra nemmeno lei, anche se so che lo è. Sto impazzendo? Ho allucinazioni? Sto sognando?
Ci ho già parlato qualche volta alla fermata dell'autobus, del più o del meno, niente d'importante e degno di nota; una di queste si è persino seduta accanto a me. Legge molto, la mattina si mette sempre nel primo posto libero, possibilmente dove non c'è nessuno già seduto, affinché possa appoggiare lo zaino di fianco a lei; di solito prende l'iPod e ascolta musica mentre legge un libro, a volte invece poggia la testa sul vetro e guarda fuori con occhi persi, sembra triste. Non sono mai riuscito a scorgere i titoli dei libri, però. Sono curioso di sapere che musica ascolta e cosa legge con tanto entusiasmo, che le vedo negli occhi mentre gira le pagine, divorandole in poco tempo a decine.
La collisione è veloce e inaspettata; le cade un bicchiere di plastica dalla mano e il liquido scuro si sparge per terra con un sonoro "splash". Accidenti! Quello è caffè! Spero non si sia bruciata. Mi agito e credo lei se ne stia accorgendo. Sollevo lo sguardo dal contenitore in plastica caduto a terra. E porto le pupille sulle sue, che mi stanno già trafiggendo come lame. Sposto poi lo sguardo sul suo riflesso di spalle nella finestra e mi accorgo di quanto io sia molto più alto di lei. Sento un odore intenso di caffè. Giusto! Il caffè!
Le guardo le mani, ma non sembra si sia scottata.
Il suo maglione adesso è sporco, una vistosa chiazza marrone spicca sotto al mento; «Scusa, scusa, scusa! Non ti avevo vista! Mi dispiace, te ne prendo uno nuovo!» le dico di slancio, mettendo le mani avanti. Lei abbassa lo sguardo e osserva la chiazza di caffè sul suo pullover e all'improvviso la sua testa fa uno scatto e i suoi occhi cambiano, diventano tenebrosi e arrabbiati.
«Cazzo, ma guardare dove vai, no? Coglione...» mi fulmina con le sue iridi oltremare, è furiosa.
Questo suo atteggiamento mi confonde... non è mai stata scontrosa con me, mai; questa non è Lucy. Lucy? Sì, è questo il suo nome. Mi ricordo come si chiama! Perché?
«Accidenti, tranquillizzati! Non l'ho fatto apposta.» Sono a disagio, così mi gratto con l'indice la fronte, imbarazzato. Vorrei seppellirmi dalla vergogna. Ma proprio con lei doveva succedere una cosa del genere?!
«Basterebbe guardare dritto!» replica, stizzita, incrociando le braccia davanti al petto, riducendo gli occhi a due fessure. Questo suo comportamento mi provoca un turbinio nello stomaco, mentre lei continua a guardarmi di traverso.
Ha ragione, ma ero preso dal panico e dall'ansia a causa della confusione in cui mi trovo. Mi sento spaesato e... mi tolgo la felpa e gliela porgo, per nascondere il disastro che ho commesso, ma lei la rifiuta con aria scontrosa.
Perché è così arrabbiata? Può succedere, non è un dramma! Un po' d'acqua o la lavatrice dovrebbero risolvere la situazione.
Sembra veramente furiosa e senza freni, come se si fosse trasformata in un'altra persona.
«Scusami, Lucy...» le dico soltanto, abbassando lo sguardo sul pavimento piastrellato e bagnato dal liquido scuro i cui schizzi sono arrivati fino ai miei piedi.
«Ma che...? E chi sarebbe questa Lucy? Non sarai pure cieco?! Hai dimenticato gli occhiali, coglione?»
«Non ti chiami Lucy?» alzo le sopracciglia con imbarazzo, inalando un profondo respiro.
«Ma va' al diavolo! Lasciami stare, è il mio secondo nome..» Mi fulmina con lo sguardo, mentre io trattengo il labbro inferiore tra i denti con nervosismo. Sono sconvolto dalla sua reazione, ma allo stesso tempo una forza maggiore mi attira verso di lei e all'improvviso ho una voglia sconvolgente di baciarla. L'attrazione è così forte da farmi compiere un passo verso di lei senza riuscire a trattenermi. Lei, al contrario, prima perlustra le mie iridi e poi le mie labbra e mi provoca un tuffo al cuore; Mi incenerisce con un'occhiata che mi fa avvampare e il cuore finisce dritto in gola. La mia mandibola è contratta per l'imbarazzo insopportabile. Lei nel frattempo compie altrettanto un passo avanti come per sfidarmi, non si lascia frenare dalla mia altezza imponente.
Ok, è ovvio che abbia sbagliato persona. Sento il volto andare in fiamme e vorrei nasconderlo tra le mani, ma non lo faccio per non mostrare debolezza. Il fatto che voglia affrontarmi mi provoca un gusto dolce in bocca perché mi dimostra la sua forza inaspettata e zuccherata, che un po' mi rende insicuro.
«Perdonami... pensavo fossi qualcun altro» mi mordo con nervosismo il labbro inferiore, sono in imbarazzo. «In questi giorni sono un po' sbadato» aggiungo, mentre lei, invece, mi fulmina con i suoi occhi color oceano. Il fiato mi muore in gola. La osservo dall'alto e lei alza la testa, sfiorandomi quasi con il naso il petto avvolto nella felpa grigia che indosso.
Se volevi avere una chance con lei, sappi che l'hai appena bruciata! Ripeto a me stesso.
MOON
Non ricordo cosa stessi facendo, ma mi ritrovo sporca di caffè sul maglione a fiori. È orribile. Ricordo di non aver trovato niente di meglio da indossare stamani. La manica è bagnata, che schifo! Spero almeno sia solo acqua. Sono disgustata dal mio stesso stato.
Un ragazzo, proprio di fronte a me, con i capelli troppo biondi lunghi fino alle spalle e le labbra rosse e carnose, mi sta fissando e mi chiede perdono, ripetendosi tre volte. Lo riconosco, è il ragazzo più popolare della scuola, Rainbow, è così che si chiama, ne sono sicura, non mi dimenticherei mai del nome di chi sta in cima alla piramide sociale scolastica, il classico figlio di papà ricco e potente, il cui padre magari dona anche una buona somma di denaro alla scuola per non far bocciare il proprio pargolo nullafacente.
«Non ti avevo vista! Mi dispiace, te ne prendo uno nuovo!»
Perché fa così? Mi è forse venuto addosso? Come al solito non c'è nessun rispetto! Adesso sono furiosa e incrocio le braccia davanti al petto, arricciando le labbra.
«Cazzo, ma guardare dove vai, no? Coglione...» Spero di dargli una lezione. Odio questi burloni, figli di papà, che ti trattano come una stupida. Odio il patriarcato. Odio il maschilismo e odio il sessismo. Odio gli uomini che si credono superiori!
Le sue tracce di scuse sul viso, però, mi frenano, lui è un bel ragazzo. Ohhh, accidenti, non posso farmi intenerire solo perché è carino!
Riconosco il bicchiere marrone che è caduto a terra, sono a scuola, nel mio ginnasio. Cerco di raccoglierlo e così fa anche lui; le nostre teste si scontrano ed entrambi portiamo la mano sul punto in cui ci siamo colpiti a vicenda.
«Ahia!», scoppiamo entrambi con una smorfia di dolore in viso. I nostri occhi collidono e si incastrano come due pezzettini di un puzzle.
Lui mi sorride. «Non l'ho f-fatto apposta» balbetta impacciato
Adesso si sente anche in colpa, magari... Spesso mi dicono che non ho tatto né pazienza, hanno ragione, ma non me ne frega niente.
«Scusami, Lucy...»
Ok, adesso ne ho abbastanza! Mi sta prendendo in giro? Chi sarebbe questa Lucy? Quando capiranno una volta per tutte che non è quello il mio nome? «Ma va' al diavolo!» Questo coglione mi ha proprio stufata. E io che mi stavo lasciando impietosire dal suo sguardo tenero.
«Perdonami! Pensavo fossi qualcun altro» dice soltanto, abbassando lo sguardo, non riuscendo a sostenere il mio rancoroso. Mi osserva giusto un attimo, poi distoglie rapidamente lo sguardo.
«Torno in classe.» Alzo gli occhi al cielo, mi alzo e me ne vado, senza salutarlo. Ma guarda che mi doveva capitare!
Do una veloce occhiata all'orologio appeso al muro accanto alla finestra, indica le dieci meno cinque; So esattamente dove andare: aula di letteratura francese. Mi lascio il ragazzo e la macchinetta alle spalle e marcio in direzione della classe; sento i suoi occhi seguirmi, finché non sparisco dietro al muro. Apro la porta, spingendo verso il basso la maniglia nera ed entro; la lezione è in corso.
«Ah! Bentornata, signorina Laiden! Ci onora di nuovo della sua presenza! Ha fatto una piacevole passeggiata per i corridoi?!»
Un'ondata di rabbia mi muove dall'interno. Stringo i pugni lungo i fianchi. Fai l'educata, rimani calma, non è il caso di litigare con la professoressa se non vuoi una nota ed essere espulsa. L'insegnante mi segue con sguardo accigliato fin quando non riprendo posto. Quando sono uscita, e perché? Cosa cazzo è successo?
Karin, la ragazza dai capelli color carota, si gira e mi rivolge la parola: «Perché ci hai messo così tanto? La professoressa Blanche si stava arrabbiando!», esclama premurosa.
Quanto mi dà sui nervi questa ragazza appiccicosa! Per non so quale motivo crede si essere mia amica...
Adesso sono le dieci e dieci. Cos'è successo nelle ultime due ore? Non capisco, sono confusa.
Il resto della lezione scorre in fretta con delle interrogazioni programmate. Il mio turno sarà tra sei lezioni e non ho assolutamente voglia di studiare, forse non lo farò. Ho letto libri e libri su Molière, Corneille e Racine, non ho bisogno di prepararmi. All'improvviso la campanella suona, e a me sembra di non essere stata presente tutta l'ora.
«Psss, Karin!» mi rivolgo alla rossa, forse lei può aiutarmi almeno in questo. «Quanto tempo sono stata fuori?»
«Un quarto d'ora circa, credo.»
Suonata la campanella, ci dirigiamo in gruppo verso l'aula di matematica. Vado al mio armadietto, che è accanto a quello della rossa, tanto per cambiare, è già tanto che in classe non siamo sedute vicine. Prendo il libro di aritmetica. Con il resto della classe ci esercitiamo con delle espressioni in un muto silenzio che profuma di concentrazione e sento la testa scoppiarmi dal sovraccarico d'informazioni, soprattutto perché non è una materia in cui eccello. Per fortuna il suono della campanella indica il termine anche di questa lezione.
NASH
Che giornata di merda... non poteva iniziare peggio di così. La ragazza di fronte a me getta via il bicchiere in un secchio alla sua destra, poi se ne torna in classe senza salutare, passandomi accanto di striscio, vicino alla finestra, colpendomi la spalla con la sua; la osservo allontanarsi con la coda dell'occhio, poi rimango solo a fissare la pozza di caffè per terra, imbambolato e sotto shock per l'accaduto. Non mi aspettavo una simile reazione da parte sua.
Il liquido sul pavimento sembra avere la forma del simbolo dell'infinito. Rimango a fissarlo per un altro secondo. Oltre alle amnesie ho anche le allucinazioni adesso... Scuoto la testa per dare tregua alla mia mente.
Vado al bagno dei ragazzi, passando davanti alle scale, e prendo un po' di carta, di quella che solitamente viene usata per asciugarsi le mani, e torno nel corridoio; poso le salviette per terra, sul caffè versato, poi con il piede le strofino sul pavimento, finché non è tutto asciutto. Raccolgo la carta, che ormai è diventata una massa scura e molliccia, e la ripongo nel secchio dell'immondizia al lato della macchinetta. Devo tornare in classe, guardo velocemente l'orologio a muro che riporta anche la data e il giorno della settimana, sono le dieci e un quarto di un lunedì di marzo e io a quest'ora dovrei avere matematica.
Poi, con un gesto meccanico, torno nella classe di quella materia.
Entro e mi accorgo che è in atto la lezione; da un rapido sguardo, vedo che si sta parlando del simbolo dell'infinito. Ovviamente...
L'insegnante mi riserva un'occhiata torva e mi chiama alla lavagna. «Avanti, Rainbow, visto che le piace bighellonare in giro per i corridoi, venga a dirmi qualcosa sulla lezione di ieri»
Vengo interrogato, ma, con mio stupore, non ricordo nulla, come non avessi mai studiato. Ma io lo faccio sempre, sono disciplinato. Deglutisco, ancora più confuso, mentre il professore mi guarda con un'espressione sbalordita, non se lo aspettava.
«Spiacente, sono costretto a darti una E; non sei riuscito a rispondere a nessuna domanda e neanche a risolvere l'espressione.» Il suo tono è quasi divertito, come se godesse di quel mio fallimento.
Mi sento avvampare dalla rabbia. Non ci vedo più dalla furia. Getto a terra il gessetto bianco, che va in frantumi quando colpisce il pavimento con violenza.
Il professore inarca un sopracciglio e mi chiede: «Per caso ha qualcosa da aggiungere, Rainbow?»
Accidenti, calmati, se non vuoi essere espulso! mi dico, respirando a fondo. Lui ha la fronte corrucciata e mi squadra con gli occhi, analizzando anche il movimento più piccolo di ogni muscolo facciale.
Buio.
Malek
Luce.
Getto il gessetto bianco per terra, che si frantuma in piccoli pezzi, mentre l'insegnante mi guarda sbigottito. Torno al mio posto, sbracandomi esasperato sulla sedia a gambe divaricate e scivolando con la schiena in avanti.
«Non è tollerato un comportamento del genere, sono costretto a metterti una nota!» mi intima il professor Hoxon, guardandomi intensamente con i suoi occhi azzurri come un cielo senza nuvole. E chi se ne frega? «L'ultima ora la passerete in classe con la terza B» ci informa poi, rivolgendosi all'intera classe.
«È quella di Karin!» mi dice Markus, su di giri. E chi se ne frega?
«Buon per te!» gli sorrido in modo forzato, per fargli un favore.
«Potresti mostrarti un po' più felice per me!» Provo con un altro sorriso stirando le labbra, ma lui sbuffa e ribatte con un: «Sinceramente!», dandomi una piccola spinta sulla spalla con aria spavalda. Lo fulmino con gli occhi e lui abbassa lo sguardo, imbarazzato e con la coda tra le gambe.
Mi dedico di nuovo alla lavagna e inizio a prendere appunti. Ho scoperto molto presto che, se sto attento alla lezione, per prepararmi ai test non devo studiare poi molto. A parte oggi che a quanto pare dovrei aver preso un votaccio, da quel che ho capito.
«Compito in classe il 3 aprile», ci dice l'insegnante con voce tagliente e decisa.
Segue un gran vociare; è evidente che nessuno ne è felice.
Forse io sono uno dei pochi a cui piace studiare.
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