Capitolo 17
La mattina successiva Evelyn si svegliò presto, molto prima che le altre ragazze nel dormitorio si alzassero. Fuori, il cielo stava appena cominciando a schiarirsi, tingendosi di sfumature pallide che annunciavano l'alba. Evelyn si alzò con calma, stropicciandosi gli occhi mentre cercava di riordinare i pensieri. La stanza era silenziosa, ma quell'assenza di suoni sembrava amplificare il tumulto dentro di lei.
Era davvero giusto partire così?
Si fermò per un attimo accanto alla finestra, osservando la luce del giorno che avanzava lentamente, scacciando l'oscurità. Una parte di lei si sentiva in colpa, come se stesse abbandonando le ragazze, come se stesse cedendo alla paura. Ma un'altra parte, più forte, sapeva che aveva bisogno di spazio. Spazio per respirare, per pensare. Per ritrovare se stessa.
Si infilò i vestiti che aveva preparato la sera prima e si guardò un'ultima volta nello specchio della stanza. I suoi occhi apparivano cerchiati di stanchezza, la pelle più pallida del solito. Cercò di sistemare i capelli con le dita, ma si arrese in fretta. Non importava. Nessuno avrebbe fatto caso al suo aspetto, non oggi.
Lo zaino era pronto, sistemato accanto alla porta. Lo prese con una mano, cercando di non fare rumore. Non voleva che nessuno si svegliasse, soprattutto Ava. Sapeva che la sua amica avrebbe fatto domande, avrebbe cercato di convincerla a restare. E Evelyn non voleva crollare. Non di nuovo.
Attraversò il corridoio silenzioso, con il cuore che le batteva forte nel petto. Ogni passo sembrava amplificato dal silenzio della confraternita. Si fermò un attimo davanti alla porta d'ingresso, inspirando profondamente l'aria fresca del mattino. Poi uscì.
L'aria era ancora fredda, carica di rugiada, e il mondo sembrava sospeso in una quiete surreale. Il campus era deserto, le sue strade desolate, illuminate appena dai primi raggi del sole. Evelyn si avviò verso la fermata della navetta con passo deciso, anche se dentro si sentiva tremante.
Mentre camminava, il suono dei suoi passi sull'asfalto la faceva sentire esposta, come se qualcuno potesse spuntare fuori da un momento all'altro. Ogni tanto si voltava, ma dietro di lei c'era solo il vuoto. Eppure, quella sensazione di essere osservata non la abbandonava. Era colpa di Matthew, di quello che aveva fatto. Di quello che continuava a fare.
Arrivò alla pensilina, dove il piccolo bus era già lì, con il motore acceso. Salì, salutando l'autista con un cenno del capo, e si sedette vicino al finestrino. Le mani stringevano le cinghie dello zaino, quasi come se temesse di perderlo.
Il tragitto verso la stazione degli autobus fu breve e tranquillo. Evelyn si perse nei suoi pensieri, fissando il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino: il campus che si allontanava, le strade vuote, i lampioni ancora accesi.
Aveva preso la decisione giusta? O stava solo fuggendo?
Quando la navetta si fermò alla stazione, Evelyn si alzò lentamente, afferrando lo zaino. Scese e si guardò intorno, avvolta dall'aria frizzante del mattino. La stazione non era molto grande, con una biglietteria a lato e alcune panchine sparse lungo il piazzale.
Mentre si avvicinava alla biglietteria, le mani le tremavano leggermente. Non voleva attirare attenzioni, non voleva domande. Ma quando si trovò di fronte all'uomo dietro al vetro, fu chiaro che non sarebbe stato così semplice.
«Buongiorno,» disse lui, sollevando appena lo sguardo da un giornale spiegazzato.
«Buongiorno,» rispose Evelyn, cercando di mascherare il tremito nella voce. «Vorrei un biglietto per Franklin, per la prossima corsa.»
L'uomo annuì, iniziando a digitare qualcosa sulla tastiera del computer accanto. «Partenza alle 9:15,» annunciò dopo un momento, senza staccare gli occhi dallo schermo. «Arrivo previsto per le 11:30. È diretta, nessuna fermata.»
«Va bene,» rispose Evelyn, frugando nello zaino per cercare il portafoglio.
L'uomo stampò il biglietto e glielo passò sotto il vetro. Mentre Evelyn lo prendeva, lui la osservò per un istante, scrutandola con un misto di curiosità e preoccupazione.
«Prima volta che prendi questo autobus?» chiese, inclinando la testa.
«No,» rispose Evelyn, sorprendendosi del tono fermo che aveva usato. «Vado spesso a trovare mio padre.»
L'uomo annuì, ma non sembrava del tutto convinto. «Beh, viaggiare presto al mattino è sempre una buona idea. Meno caos.» Si appoggiò allo schienale della sedia, osservandola mentre metteva via il biglietto. «Tutto bene, comunque?»
Evelyn si bloccò per un attimo, stringendo il biglietto tra le dita. Non era sicura di cosa rispondere. Alla fine, si limitò a un lieve cenno del capo. «Sì, tutto bene. Grazie.»
L'uomo scrollò le spalle, tornando al suo giornale. «Buon viaggio allora, e stai attenta.»
«Grazie,» mormorò Evelyn, dirigendosi verso il terminal.
Mentre si avvicinava alla piattaforma indicata sul biglietto, sentì il peso del momento abbattersi su di lei. Quell'uomo non sapeva niente di lei, ma il suo sguardo aveva scavato oltre la superficie, quasi riconoscendo che qualcosa non andava. Evelyn si sedette su una panchina in attesa dell'autobus, stringendo lo zaino sulle ginocchia.
Forse scappare non era la soluzione definitiva, ma per adesso, era l'unica cosa che poteva fare.
Aspettando che il suo autobus arrivasse, Evelyn si lasciò avvolgere da una sensazione di irrealtà. Tutto era successo così in fretta: il litigio con Matthew, il dolore che l'aveva sopraffatta, e ora la fuga improvvisa. Era come se avesse premuto un tasto di pausa sulla sua vita, ma non era sicura che il tempo trascorso lontano avrebbe risolto qualcosa. "E se stesse solo scappando?" si chiese, mordicchiandosi il labbro inferiore. Non voleva pensarci. Non in quel momento.
Una leggera brezza le scompigliò i capelli mentre il sole sorgeva più alto, diffondendo la sua luce dorata sopra il piazzale. Il rumore dei piedi che calpestavano l'asfalto la fece sobbalzare, e, alzando lo sguardo, vide che l'autobus era finalmente arrivato. Si alzò in fretta e salì, scegliendo un posto vicino al finestrino. Sedendosi, si accorse che le mani le tremavano ancora, e così si afferrò con forza allo zaino, come se fosse l'unico oggetto capace di mantenere salda la sua tranquillità.
Mentre l'autobus si metteva in moto, Evelyn guardò fuori dal finestrino, osservando le case che passavano velocemente, una dietro l'altra. Le strade cittadine stavano lentamente cedendo il posto ai campi aperti e alle zone boschive. La luce del mattino accarezzava i tetti delle case lontane, e il vento faceva danzare le foglie sugli alberi.
Evelyn si lasciò distrarre dalla bellezza del paesaggio, ma la sua mente continuava a vagare.
"Aveva fatto bene a mandare quel messaggio a suo padre? Stava andando davvero a casa o stava solo scappando dalla realtà?"
Il pensiero di parlare con lui la spaventava, ma in quel momento, pensò che forse non c'era nessun altro che potesse darle quella sensazione di sicurezza.
Le parole di Jake le rimbombavano ancora nella testa. "Non devi fare niente che tu non ti senta di fare, okay?"
Jake aveva sempre cercato di proteggerla, di rassicurarla, ma qualcosa in quel momento le impediva di fidarsi completamente. Come se avesse paura di far pesare su di lui il suo dolore.
Con un sospiro, prese il telefono e mandò un messaggio a Jake, cercando di tenere a bada le emozioni che minacciavano di travolgerla. "Sto tornando a casa per un paio di giorni. Non me la sentivo di restare. Ti chiamo se riesco." Non voleva dirgli troppo. Non voleva che lui si preoccupasse ulteriormente.
Pochi minuti dopo, il telefono vibrò tra le sue mani. Evelyn guardò il nome sullo schermo: Jake. La sua gola si strinse. Non voleva rispondere. Non voleva parlare, ma sapeva che doveva farlo. Con un respiro profondo, rispose alla chiamata.
«Jake...» iniziò, la voce tremante.
«Evelyn, che succede? Ho letto il tuo messaggio. Va tutto bene?» chiese lui, preoccupato.
Lei si stese sul sedile, guardando fuori dal finestrino. Le parole sembravano bloccarsi sulla punta della lingua. Cosa doveva dire?
«Non lo so, Jake. Non credo che vada tutto bene.» La sua voce si spezzò mentre cercava di trovare un modo per spiegarsi.
«Parlami,» disse lui, il tono più dolce, come se stesse cercando di avvolgerla con la sua calma. «Cosa è successo? Ha a che fare con quello stronzo che ti segue ovunque?»
La menzione di Matthew fece rabbrividire Evelyn. "Non posso continuare a vivere con questa paura," pensò. Ma non voleva che Jake sentisse quanto il suo dolore fosse insopportabile.
«Sì,» ammise, sussurrando. «Ieri, finita la lezione, mi ha seguita di nuovo. Mi ha messo in una situazione insopportabile e... non lo so, Jake. È come se non mi lasciasse in pace. È ovunque.»
Jake rimase in silenzio per un attimo, probabilmente cercando di digerire quelle parole. Quando parlò, la sua voce era più dura, più protettiva.
«Ti ha fatto qualcosa?» chiese.
Evelyn scosse la testa, come se potesse allontanare i pensieri. «No... non fisicamente,» rispose, ma le sue parole suonarono più vuote che mai. «Ma è come se avesse trovato il modo di insinuarsi nella mia vita, di controllare ogni cosa. Mi sento soffocare, Jake.»
Jake sbuffò, l'udibile tensione nella sua voce. «Evelyn, devi dirlo a qualcuno. Non puoi affrontarlo da sola. Questo tipo... sembra pericoloso.»
Le parole di Jake le fecero un po' di paura. "
Ma cosa posso fare? E se fosse tutto nelle mie mani?"
Non riusciva a scacciare il pensiero che forse, se fosse stata più forte, non avrebbe permesso a Matthew di influenzare così tanto la sua vita.
«Lo so,» ammise, sentendo una fitta al petto. «Ma non so cosa fare. Ogni volta che cerco di allontanarlo, lui trova un modo per tornare.»
Jake sospirò. «Fai bene a prenderti una pausa,» disse. «Vai da tuo padre. Ma ti prometto che quando torni, ci penseremo insieme. Non sei sola, okay?»
Le parole di Jake la calmarono, anche se in parte sentiva ancora una grande confusione dentro di sé.
«Grazie,» disse, la voce più ferma. «Davvero, Jake. Grazie.»
«Chiamami se hai bisogno,» rispose lui, insistendo. «A qualsiasi ora.»
Evelyn chiuse la chiamata con un lieve sorriso, il primo da giorni. Guardò fuori dal finestrino, osservando i raggi del sole che filtravano tra i rami degli alberi. Per un momento, sentì il peso dei suoi pensieri alleggerirsi. Forse Jake aveva ragione. Forse non era sola, dopo tutto.
Quando l'autobus rallentò e si fermò finalmente alla stazione, Evelyn si rese conto di essere rimasta con lo sguardo fisso sul finestrino per tutto il viaggio, come ipnotizzata dal paesaggio. Si alzò lentamente, afferrando il suo zaino con un gesto deciso. I passeggeri iniziarono a scendere uno dopo l'altro, ma Evelyn rimase immobile per un attimo, stringendo le spalline del suo zaino.
"Era davvero pronta ad affrontare suo padre?"
Respirò a fondo e fece un passo avanti, scendendo i gradini del mezzo. Appena messo piede a terra, si guardò intorno, cercando un volto familiare. Non ci volle molto: suo padre era lì, accanto alla macchina parcheggiata poco distante, con una mano infilata nella tasca del cappotto e l'altra che agitava un saluto.
Il cuore di Evelyn si strinse in una morsa di emozioni. Quel sorriso caldo, rassicurante, così familiare e autentico, era come un balsamo sulle ferite che non riusciva ancora a guarire. La testa le si riempì di ricordi d'infanzia: le domeniche passate a fare picnic nei parchi, le passeggiate in bicicletta, le serate trascorse a guardare vecchi film sul divano.
"Quella era casa. Quella era sicurezza."
«Piccola!» chiamò lui, aprendo le braccia in un gesto che non lasciava spazio a esitazioni.
Evelyn sentì un nodo sciogliersi nel petto mentre si avvicinava. Quando lui la avvolse in quell'abbraccio forte e paterno, finalmente le lacrime, rimaste intrappolate per troppo tempo, cominciarono a scendere silenziose.
«Sono qui,» mormorò suo padre, accarezzandole dolcemente i capelli. «Va tutto bene adesso. Sei a casa.»
Evelyn si strinse ancora di più a lui, come se quell'abbraccio potesse proteggerla da tutto il caos che si era lasciata alle spalle. «Grazie, papà,» sussurrò, la voce spezzata. Non era pronta a spiegargli tutto, ma almeno lì, in quel momento, si sentiva al sicuro.
Si staccarono lentamente, e lui le rivolse un'occhiata indagatrice. «Hai fatto buon viaggio?» chiese, con un tono che cercava di essere leggero ma tradiva un pizzico di preoccupazione.
«Tranquillo,» rispose Evelyn, abbassando lo sguardo per nascondere i suoi occhi lucidi. «È stato tutto tranquillo.»
«Perfetto,» rispose lui, facendo un cenno verso la macchina. «Andiamo. Ho preparato la tua stanza, e in cucina c'è una crostata che ho comprato ieri. Pensavo potessimo farci un tè e rilassarci un po'. Che ne dici?»
Evelyn sorrise debolmente, per la prima volta sentendo un accenno di calma dentro di sé. «Sì, mi piacerebbe.»
Si diressero verso la macchina, camminando fianco a fianco. Il parcheggio era silenzioso, interrotto solo dal rumore delle gomme degli autobus e qualche voce lontana. Evelyn si accorse di quanto fosse confortante la presenza di suo padre, un'ancora in mezzo alla tempesta emotiva che stava vivendo.
Quando salirono in macchina e si misero in viaggio verso casa, Evelyn si lasciò andare contro il sedile, ascoltando il rumore del motore e la voce tranquilla di suo padre che le raccontava delle piccole novità della sua vita. Parlava della nuova vicina che aveva un cane rumoroso, del lavoro in officina, e di come si stesse preparando per le festività invernali. Evelyn annuiva, rispondendo a monosillabi, ma ogni parola di suo padre era come una carezza sul cuore.
Non sapeva ancora come affrontare ciò che l'aspettava, ma almeno in quel momento si sentiva accolta. E per ora, era abbastanza.
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