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L'hanno capito. Il ragazzo se ne è ricordato. Shusaku, cosa devi ancora dirmi?

Ihara era seduto su una panchina, fuori da un palazzo dai colori spenti; poteva avere al massimo quattro piani, ma l'altezza fra l'uno e l'altro era notevole e si vedeva dal sole che veniva coperto sopra il capo del giovane. In quel punto la luce non passava, anzi nonostante fossero solo le tre del pomeriggio la scarsa luminosità sembrava affermare il contrario.
Lui era lì seduto su una panchina, stava aspettando. Lo avrebbe fatto finché non avesse avuto in mente cosa dire in modo esatto, diretto, ma gentile.

Pensavo che sarebbe stato più semplice di così.

Congiunse le sue mani, leggermente tremanti e più fredde del solito; lì fuori si gelava, ma sopportare forse lo distraeva un po' dal vero problema. La sua espressione serena si contraddiceva con tutte le cose che invece gli passavano per la testa, le quali sembravano fargli sempre più pressione con il passare dei minuti. D'un tratto tutto quello che aveva creduto di aver superato era tornato a galla, e perché?
Per un dubbio che si era insinuato nella mente, un piccolo ma fastidioso sospetto che non lo abbandonava. Pur provandoci, i suoi occhi rossi erano più accesi che mai e non riusciva a controllarsi, a controllarli. La gente passava e lui avvicinava le mani alle tempie, se le premeva come fossero state interruttori malfunzionanti; e chiudeva i suoi occhi per lo stesso motivo, senza riuscire però a darsi nessuna spiegazione. Era il dubbio che lo logorava, e più lo manteneva più ne soffriva.

«Ciao.» una bambina gli si era posta davanti, con le manine unite dietro la schiena e la testa inclinata che faceva intravedere una codina corta e riccia di capelli «Stai male?»

Ihara alzò la testa verso di lei, si scostò i capelli biondi dal viso e la guardò con dolcezza, mentre una strana sensazione dentro al petto cominciava a farsi strada. Nonostante ciò ignorò tutto e rispose.

«Sento solo un po' freddo, ma sto bene. Non vai a casa per pranzo?»

La bambina si avvicinò ancora e con le sue mani prese quelle gelate di Ihara, stringendole. Il giovane sobbalzò lievemente e, nello scostarsi all'improvviso, spinse la bambina indietro, facendole quasi perdere l'equilibrio.

«Quindi stai male davvero.» la sua codina riccia si sciolse, evidentemente legata troppo morbida, e lasciò liberi i suoi capelli neri e ribelli, che le circondavano il volto, senza arrivare alle spalle «La mia mamma non è a casa, per questo non ci torno. Posso farti compagnia.»

«Tu...» Ihara si accorse troppo tardi che delle lacrime gli avevano rigato il volto, e che la bambina gliele stava già asciugando con le proprie dita sottili senza nemmeno dargliene preavviso.

«Anche se mi hai spinta non mi hai fatto paura. Tu non fai paura, sei gentile. Però perché sembri tu quello spaventato? I miei capelli non ti piacciono?»

«I tuoi capelli sono bellissimi.» chiuse gli occhi e prese un grosso respiro.

Quella bambina non aveva intenzione di muoversi da lì, e più gli rimaneva davanti, più la sensazione che Ihara provava si accentuava e le lacrime scendevano.
E cadevano giù, giù, come le gocce d'acqua piovana cadono sui tetti delle case, o sui vetri delle auto; cadevano giù, lisce e veloci, non distruttive, ma numerose. Cadevano giù.

«La mia paura è un dubbio. Se tu pensassi che forse la tua mamma potrebbe non tornare a casa avresti paura, vero?» il biondo riaprì gli occhi, ponendo quella domanda con cautela e cercando di non intimorire la bambina.

Ma la bambina non c'era più. In realtà non c'era mai stata, e lui lo sapeva benissimo. Si asciugò il viso bagnato, senza capire il motivo di quello stato e considerandolo pietoso, debole, fragile. Doveva essere la speranza e la salvezza della gente, doveva rendere il mondo un posto migliore poco alla volta: ma con quale faccia si sarebbe presentato all'umanità, dopo aver immaginato una bambina e averle detto che aveva paura? Con quale forza avrebbe mandato avanti la gente che in lui aveva riposto la propria fiducia, se proprio un istante prima si ritrovava a parlare e piangere da solo?
Gli servivano spiegazioni dal suo mentore, da chi l'aveva cresciuto, da chi l'aveva accudito, custodito, protetto e schierato allo stesso tempo in prima linea; senza di lui, adesso non si sarebbe trovato lì, o addirittura trovato ancora vivo.

Si alzò pesantemente dalla panchina ed entrò nel palazzo, rimanendo a fissare l'ingresso vuoto appena entrato, ma in realtà vuoto non era: delle comode poltrone per l'attesa di non si sa quale questione erano poste in semicerchio sul lato destro della sala poco illuminata, mentre in fondo un ascensore era in compagnia di due piante verdi e curate. Forse era il silenzio che rendeva quel posto vuoto.

Il...

«Silenzio

«Shusaku, dovresti imparare ad avere un passo più pesante. Devo sapere quando sei qui vicino.»

«Mio caro Ihara, hai gli occhi gonfi e rossi. Non riesci più a controllarti?»

Quell'uomo aveva capito per l'ennesima volta ciò che stava vivendo il ragazzo, aveva subito compreso quali dolori si portava sul cuore e nella testa e non aveva esitato un secondo nel farglielo capire. Quell'uomo sapeva usare le parole giuste al momento giusto, ed era incredibile come Ihara si sorprendesse ogni volta.

«È che ho un'idea che mi perseguita e non riesco a concentrarmi. Mi hai detto... Mi hai detto che i miei genitori mi hanno affidato a te perché stavano avendo problemi con la mafia in Giappone. Mi hai detto che avresti dovuto scegliere... Fra me e-» si interruppe bruscamente, perché in quel momento vide un'immagine.

Erano delle persone: Shusaku più giovane, i suoi genitori, lui. E una bambina.

«Fra me e mia sorella.» mosse la testa, quasi cercando di ricordare qualcosa di troppo labile per essere riportato alla mente; alzò una mano e iniziò a gesticolare verso di lui «non mi hai mai detto che non hai mai scelto.»

«Perché Dio ha scelto tramite me.»

«E cosa è capitato a mia sorella? Perché la vedo quando non riesco a controllarmi? Perché?»

«Ihara...» Shusaku prese un pezzo di carta dalla sua tasca.

Con un pennino preso dall'altra tasca, scrisse solo due parole; l'inchiostro era di un rosso scarlatto simile al colore degli occhi del giovane, e scorreva fresco ancora sul foglio, colando lievemente come le lacrime poco prima stavano facendo sul viso del suo protetto. Gli si avvicinò e gli prese la spalla con forza, con una decisione tale da fermare tutti i mormorii indecifrabili di Ihara, e poi con voce ferma, ma calma, lo consolò.

«Mi dispiace. Tua sorella ha deciso di sacrificarsi per te e grazie al suo potere ti ha fatto dimenticare come; modificare i ricordi di una persona era la sua abilità, più potente della tua e per questo più pericolosa. Tutti sapevamo che sarebbe stato meglio così. Il sacrificio a volte è necessario, lo sai. Perdona lei, e perdona me, per non avertene mai parlato. Ma perché ti è venuta in mente questa cosa?»

«Perché, Shusaku, tu sei un mio grande amico e il mio grande maestro. Hai conosciuto il ragazzo dai capelli rossi, Chuuya, e me ne hai parlato. Ma non mi avevi detto quali parole vi eravate scambiati. E io credo... Credo che tu sapessi già chi lui fosse. Per questo, non capisco perché tu abbia esitato. Non lo capisco, e non so perché.»

«Non si può comprendere sempre tutto, anche questo è un sacrificio da compiere.»

«Un sacrificio, eh? Io so che sei umano come tutti, io so chi sei! Ma cerchi ancora di proteggermi da un mondo che mi ha già deluso, mi nascondi eventi che inevitabilmente verrò a conoscere! Ecco il mio dubbio, Shusaku: se non hai ucciso Chuuya, come posso affidarmi a te sul suo compagno? Sul demone che rovina il mondo, ma che ancora vive indisturbato? E tutto questo mi confonde, ed ecco mia sorella, mi prende le mani gelate e me le stringe, e io la scosto. Lei a volte mantiene l'equilibrio, ma altre cade, e in quel momento sento crollare la terra sotto i piedi, miei, e della gente che ho salvato!»

Ihara aveva il respiro corto, tremava leggermente e sembrava affliggersi per ciò che stava affermando. Angoscia e pena lo stavano tormentando; lui amava Shusaku come fosse stato suo padre. Gli stava chiedendo se si poteva fidare di lui, e allo stesso tempo implorava una tregua.

«Li sconfiggeremo, figliolo, estirperemo le loro radici anche dopo la loro morte. Ti starò vicino con la mia fede e con essa ti proteggerò. Quindi per favore, calma il tuo animo e rilassa il tuo corpo. Vieni qui.»

Ihara ripose le braccia lungo i fianchi, chiuse e riaprì gli occhi e infine sorrise tristemente; poi abbracciò Shusaku abbandonandosi fra il calore delle sue braccia e del suo petto, ascoltando il battito rilassante del suo cuore.
L'uomo sentì il suo respiro diventare più pesante, e capì che la sua abilità aveva fatto effetto; il giovane era svenuto, ma quello che aveva sentito era stato solo sonno che prendeva il sopravvento su di lui; i suoi occhi erano tornati per un momento di quel colore castano-rossiccio, e li aveva chiusi definitivamente, spegnendo tutti i suoi pensieri.

Shusaku fece cadere il pezzo di carta a terra. Su di esso, le due parole che aveva scritto in precedenza.

"Ihara, Silenzio."

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Buona festa della Madonna a tutti, amiciciosini miei! Oggi vi ho voluto fare un regalino, pubblicando il capitolo contro una mia imposizione personale (che a quanto pare seguirò dalla prossima volta), e grazie alla mia volontà (puahah) di autrice benevola.
Tralasciando questa tiritera inutile, ho passato delle giornate no e questo capitolo è stato come uno sfogo e un modo per ripigliarmi, almeno momentaneamente, da questi momenti un po' così, per cui lasciarlo come bozza significava rendere vana questa cosa e insomma, avete capito.

Credo di aver approfondito ancora di più Ihara e Shusaku (per quanto corto sia stato il capitolo, ma come mi ha detto la mia beta "intenso"), nel loro rapporto ma anche nelle loro singole persone, e soprattutto ho lasciato degli indizi sulle loro Abilità; per cui dò il via alle vostre pazzerelle teorie e concludo qui questa nota d'autore anche fin troppo lunga e personale.
Alla prossima!

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